Macchine # 1
(uso capitalistico)
Leconomia borghese non nega affatto che dalluso capitalistico delle macchine provengano anche inconvenienti temporanei certo, in quanto i lavoratori colpiti lasciano questo mondo temporale ... Ma per essa è impossibile adoprare le macchine in modo differente da quello capitalistico. La trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale è talmente radicata nellimmaginazione che i vantaggi del macchinismo, dellapplicazione della scienza, delle invenzioni, ecc., vengono concepiti in questa loro forma alienata come nella loro forma necessaria, e quindi visti come proprietà del capitale. Il capitalista che impiega una macchina non ha bisogno di capirla, e tuttavia nella macchina la scienza realizzata appare di fronte ai lavoratori come capitale. Tutte le forze produttive sociali del lavoro si rappresentano come forze produttive del capitale. Nellun caso, il lavoratore complessivo combinato (il corpo lavorativo sociale) appare come soggetto dominante, e lautoma meccanico appare come oggetto; nellaltro, lautoma stesso è il soggetto, e i lavoratori sono solo coordinati ai suoi organi incoscienti quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati alla forza motrice centrale. Il primo caso vale per qualsiasi applicazione del macchinario su larga scala, laltro caratterizza la sua applicazione capitalistica e quindi il moderno sistema di fabbrica. A Ure piace quindi rappresentare la macchina centrale, da cui parte il movimento, non solo come automa ma come autocrate. Ma che il capitale si sia impossessato del processo lavorativo non cambia nulla alla natura generale del processo medesimo, che riguarda il valore duso delle macchine.
Questo assurdo scambiare un dato rapporto sociale di produzione che si rappresenta in oggetti, in cose, per una proprietà naturale materiale di queste stesse cose, balza agli occhi sfogliando il primo dei migliori manuali di economia politica. Si elencano gli elementi del processo lavorativo amalgamati con gli specifici caratteri sociali che a un dato stadio di sviluppo storico essi possiedono. Questa illusione degli economisti è un metodo molto comodo per fare del capitale un elemento naturale immutabile dellesistenza umana. Se si applica a tali elementi generali letichetta di capitale, nella fiduciosa convinzione che qualcosa resta pur sempre appiccicato, si è belle dimostrato che lesistenza del capitale è una legge naturale eterna della produzione umana: che un Kirghiso con un coltello è un capitalista alla stessa stregua del sig. Rothschild, che Greci e Romani celebravano leucarestia perché bevevano vino e mangiavano pane, che una sedia a quattro gambe ricoperta di velluto diviene un trono per la natura del suo valore duso. Per lo stesso motivo, nel cervello del padrone, il macchinario e il suo monopolio del medesimo sono inseparabilmente uniti. E qui sta il punto culminante dellapologetica degli economisti! Dato che, secondo costoro, le contraddizioni e gli antagonismi delle macchine sono inseparabili dal loro uso capitalistico, dunque tali contraddizioni e antagonismi non esistono. È indubitabile che le macchine in sé non siano responsabili di ciò. Non occorre un acume particolare per comprendere che le macchine possono nascere solamente in antitesi al lavoro vivo, in quanto proprietà altrui e potere ostile ad esso contrapposti; ossia che esse gli si devono contrapporre come capitale. Ma è altrettanto facile capire che le macchine non cesseranno di essere agenti della produzione sociale quando, per esempio, diventeranno proprietà dei lavoratori associati. Ogni cosa oggi sembra portare in sé la contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire luomo di fame e lammazzano di lavoro.
Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dellignoranza. Poiché dunque le macchine, considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro mentre, adoprate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa; poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e adoprate capitalisticamente ne aumentano lintensità; poiché in sé sono una vittoria delluomo sulla forza della natura e adoprate capitalisticamente soggiogano luomo mediante la forza della natura; poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano, ecc., gli economisti borghesi dichiarano semplicemente che la considerazione delle macchine in sé dimostra con la massima precisione che tutte quelle tangibili contraddizioni sono una pura e semplice parvenza dellordinaria realtà, ma che in sé, e quindi anche nella teoria, non ci sono affatto. Così risparmiano di doversi ulteriormente lambiccare il cervello; e per giunta addossano ai loro avversari la sciocchezza di combattere non luso capitalistico delle macchine, ma le macchine stesse. Ci vogliono tempo ed esperienza affinché i lavoratori apprendano a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i loro attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento di esso. Soltanto dopo lintroduzione delle macchine i lavoratori combattono proprio il mezzo di lavoro stesso, ossia il modo materiale di esistenza del capitale. Si rivoltano contro questa forma determinata del mezzo di produzione come fondamento materiale del modo capitalistico di produzione. La distruzione in massa di macchine offrì, sotto il nome di movimenti dei Luddisti, il pretesto per violenze ultrareazionarie da parte del governo. Come macchina, il mezzo di lavoro diviene subito concorrente del lavoratore stesso.
Lautovalorizzazione del capitale mediante la macchina sta in rapporto diretto col numero dei lavoratori dei quali la macchina distrugge le condizioni di esistenza. Tutto il sistema della produzione capitalistica poggia sul fatto che il lavoratore vende la sua forza-lavoro [<=] come merce. La divisione del lavoro rende unilaterale questa forza-lavoro, facendone una abilità del tutto particolarizzata di maneggiare uno strumento parziale. Appena il maneggio dello strumento è affidato alla macchina, si estingue il valore duso e con esso il valore di scambio della forza-lavoro. Il lavoratore diventa invendibile, come certo denaro fuori corso. Ci sono due tendenze che sincrociano continuamente: da un lato, impiegare meno lavoro possibile per produrre la stessa o una maggiore quantità di merci, per produrre lo stesso o un maggiore plusvalore; dallaltro, impiegare un numero di lavoratori più grande possibile, benché più piccolo possibile in rapporto alla quantità delle merci da essi prodotte. Luna tendenza scaraventa sul lastrico i lavoratori e rende sovrabbondante la popolazione, laltra lassorbe di nuovo e allarga in senso assoluto la schiavitù salariale, cosicché il lavoratore oscilla sempre nella sua sorte e tuttavia non se ne libera mai. Perciò il lavoratore considera lo sviluppo delle forze produttive del suo proprio lavoro come a lui ostile, e con ragione; daltro lato, il capitalista lo tratta come un elemento da allontanare continuamente dalla produzione.
Quella figura indipendente ed estraniata che il modo di produzione capitalistico conferisce in genere alle condizioni di lavoro e al prodotto del lavoro nei riguardi del salariato, si evolve perciò con le macchine in un antagonismo completo. Quindi con esse si ha per la prima volta la rivolta brutale del lavoratore contro il mezzo di lavoro. Il mezzo di lavoro schiaccia loperaio. Tuttavia la macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sempre pronto a rendere superfluo il lavoratore salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile al lavoratore e come tale la maneggia. Essa diventa larma più potente per reprimere le insurrezioni periodiche dei lavoratori, gli scioperi, ecc. contro la autocrazia del capitale. Appena la macchina operatrice compie senza assistenza umana tutti i movimenti necessari per la lavorazione della materia prima, ed ha ormai bisogno soltanto delluomo a cose fatte, si ha un sistema automatico di macchine, che però è sempre suscettibile di elaborazione nei particolari. Un sistema di macchine, sia che poggi sulla semplice cooperazione di macchine operatrici omogenee, sia che poggi su una combinazione di macchine eterogenee, costituisce, in sé e per sé, un solo grande automa. Solo nella grande industria luomo impara a fare operare su larga scala, come una forza naturale, gratuitamente, il prodotto del suo lavoro passato e già oggettivato. Quindi la grande industria dovette impadronirsi del proprio caratteristico mezzo di produzione, la macchina stessa e produrre macchine mediante macchine. Solo a questo modo essa creò il proprio sostrato tecnico adeguato e cominciò a muoversi da sola.
Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone al lavoratore durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia fino allultima goccia la forza-lavoro viva. La scissione fra le potenze mentali del processo di produzione e il lavoro manuale, la trasformazione di quelle in poteri del capitale sul lavoro, si compie nella grande industria edificata sulla base delle macchine. Labilità parziale delloperaio meccanico individuale, svuotato, scompare come un infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine e che con esso costituiscono il potere del padrone. Ogni lavoro alla macchina richiede che il lavoratore sia addestrato molto presto affinché impari ad adattare il proprio movimento al movimento uniforme e continuativo di una macchina automatica. In quanto il macchinario complessivo stesso costituisce un sistema di molteplici macchine che operano simultaneamente e combinate, anche la cooperazione basata su di esso richiede una distribuzione di differenti gruppi operai fra le differenti macchine. Ma tale funzionamento elimina la necessità di consolidare questa distribuzione. Alla gerarchia di operai specializzati subentra quindi nella fabbrica automatica la tendenza delleguagliamento ossia del livellamento dei lavori da compiersi dagli addetti al macchinario. Questa divisione del lavoro è puramente tecnica.
Nella fabbrica sviluppata domina la continuità dei processi particolari. In sé e per sé il mezzo di lavoro diventa un perpetuum mobile industriale che continuerebbe ininterrottamente a produrre, se non si imbattesse in determinati limiti naturali dei suoi aiutanti umani: la loro debolezza fisica e la loro volontà a sé. Come capitale e in quanto tale la macchina automatica ha consapevolezza e volontà nel capitalista; il mezzo di lavoro è quindi animato dallistinto di costringere al minimo di resistenza il limite naturale delluomo, riluttante ma flessibile, resistenza diminuita anche dallapparente facilità del lavoro alla macchina. Il capitale quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro assume una forma ancor più schifosa. Dalla specialità di tuttuna vita, consistente nel maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità di tutta una vita, consistente nel servire una macchina parziale. Del macchinario si abusa per trasformare il lavoratore stesso, fin dallinfanzia, nella parte di una macchina parziale. Così, non solo si diminuiscono notevolmente le spese necessarie alla riproduzione del lavoratore, ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipendenza dallinsieme della fabbrica, quindi dal capitalista.
Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime lazione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilitazione del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro loperaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. È fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo lavorativo ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è il lavoratore ad adoprare la condizione del lavoro ma, viceversa, la condizione del lavoro ad adoprare il lavoratore; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Qui, come dappertutto, si deve distinguere fra maggiore produttività [<= #1] dovuta allo sviluppo del processo sociale di produzione e la maggiore produttività [<= #3] dovuta al suo sfruttamento capitalistico.
Si pone così la trasformazione della grandezza estensiva in grandezza di grado, ossia grandezza intensiva. Dal momento, dunque, in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa è precluso, il capitale si getta a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine. Allo stesso tempo subentra un cambiamento nel carattere del plusvalore relativo. Generalmente il metodo di produzione del plusvalore relativo consiste nel mettere il lavoratore in grado di produrre di più con lo stesso dispendio di lavoro e nello stesso tempo mediante laumento della forza produttiva del lavoro. Diversamente stanno però le cose non appena laccorciamento forzato della giornata lavorativa [<=], con lenorme impulso che dà allo sviluppo della forza produttiva e alleconomizzazione delle condizioni di produzione, impone al salariato un maggiore dispendio di lavoro in un tempo invariato, una tensione più alta della forza-lavoro, un più fitto riempimento dei pori del tempo di lavoro, cioè una condensazione del lavoro a un grado che si può raggiungere solo entro i limiti della giornata lavorativa accorciata. Questo comprimere una massa maggiore di lavoro entro un dato periodo di tempo conta ora per quello che è, cioè per una maggiore quantità di lavoro. A fianco della misura del tempo di lavoro quale grandezza estesa si presenta ora la misura del suo grado di condensazione. Adesso, lora più intensa della giornata lavorativa contiene tanto lavoro ossia forza-lavoro spesa quanto lora più porosa della giornata lavorativa di prima o anche di più. È ovvio che con il progresso del sistema meccanico e con lesperienza accumulata da una classe particolare di operai meccanici aumenti spontaneamente la velocità e con essa lintensità del lavoro.
In tal modo il prolungamento della giornata lavorativa procede di pari passo con la crescente intensità del lavoro. Se le macchine sono il mezzo più potente per aumentare la produttività del lavoro ossia per accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce, in quanto depositarie del capitale esse diventano, nelle industrie di cui si impadroniscono direttamente, il mezzo più potente per prolungare la giornata lavorativa al di là di ogni limite naturale. Ma non appena diventa obbligatorio per legge laccorciamento della giornata lavorativa, il quale in un primo tempo crea la condizione soggettiva della condensazione del lavoro, ossia la capacità del lavoratore di rendere liquida una quantità maggiore di forza-lavoro in un dato tempo, la macchina diventa nelle mani del capitale il mezzo obiettivo e sistematicamente applicato per estorcere una quantità maggiore di lavoro nel medesimo tempo. E questo avviene in duplice maniera: mediante laumento della velocità delle macchine e mediante lampliamento del volume di macchinario da sorvegliare da uno stesso operaio, ossia mediante lampliamento del suo campo di lavoro. Il perfezionamento nella costruzione del macchinario in parte è necessario per esercitare una pressione maggiore sui lavoratori, in parte accompagna spontaneamente lintensificazione del lavoro, perché il limite della giornata lavorativa costringe il capitalista alleconomia più rigorosa nei costi di produzione.
In quanto le macchine permettono di fare a meno della forza muscolare, esse diventano il mezzo per adoperare operai senza forza muscolare o con maggiore flessibilità [<=] (donne e fanciulli): questa è stata la prima parola dordine delluso capitalistico delle macchine! Questo potente surrogato del lavoro e dei lavoratori si è così trasformato sùbito in un mezzo per aumentare il numero dei lavoratori salariati, irreggimentando sotto limperio immediato del capitale tutti i membri della famiglia proletaria, senza differenza di sesso e di età. Il lavoro coatto a vantaggio del capitalista confisca tutto il periodo di vita del lavoratore mediante unestensione smisurata della giornata lavorativa; il suo progresso, che consente di fornire in un tempo sempre più breve un prodotto in enorme aumento, serve così da mezzo sistematico per rendere liquida una maggiore quantità di lavoro in ogni momento, ossia per sfruttare sempre più intensamente la forza-lavoro. Linsieme della fabbrica è precisamente laspetto più perfezionato di tale processo. Nelluso del macchinario per la produzione di plusvalore vi è quindi una contraddizione immanente, giacché questuso ingrandisce uno dei due fattori del plusvalore che fornisce un capitale di grandezza data, il tasso del plusvalore, soltanto diminuendo laltro fattore, il numero dei lavoratori. È questa contraddizione che spinge a sua volta il capitale, senza che esso ne sia cosciente, al più violento prolungamento della giornata lavorativa per compensare la diminuzione del numero relativo dei lavoratori sfruttati mediante laumento non solo del pluslavoro relativo ma anche di quello assoluto.
Se luso capitalistico del macchinario crea da un lato nuovi potenti motivi di un prolungamento smisurato della giornata lavorativa e rivoluziona lo stesso modo di lavorare e anche il carattere del corpo lavorativo sociale, in maniera tale da spezzare la resistenza a questa tendenza, dallaltro lato questuso produce anche, in parte con lassunzione al capitale di strati di lavoratori in passato inaccessibili, in parte con il disimpegno dei lavoratori soppiantati dalla macchina, una popolazione lavoratrice sovrabbondante, costretta a lasciarsi dettar legge dal capitale. Da ciò quello strano fenomeno della storia dellindustria moderna, per il quale la macchina butta allaria tutti i limiti morali e naturali della giornata lavorativa. Da ciò il paradosso economico che il mezzo più potente per laccorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita del lavoratore e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale.
[k.m.]
(da Capitale, I.13,1-6, VI inedito, I.5,16, Teorie sul plusvalore, XVIII)
Macchine # 2
(produzione di plusvalore)
Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, il macchinario ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato e abbreviare quella parte della giornata lavorativa che il lavoratore usa per se stesso, per prolungare quellaltra parte della giornata lavorativa che il lavoratore dà gratuitamente al capitalista: è un mezzo per la produzione di plusvalore [<=]. Poiché ogni prodotto delle macchine è più a buon mercato del prodotto a mano similare da esso soppiantato, ne segue questa legge assoluta: se la quantità complessiva dellarticolo prodotto a macchina rimane eguale alla quantità complessiva dellarticolo prodotto dalla manifattura o artigianalmente, che esso sostituisce, allora diminuisce la somma totale del lavoro che viene adoprato. Laumento di lavoro richiesto, a esempio, per la produzione dei mezzi di lavoro stessi, delle macchine, ecc., devessere minore della diminuzione di lavoro effettuata dalluso delle macchine. Cresce così la molteplicità dei rami della produzione sociale in cui luso delle macchine spinge la divisione sociale del lavoro incomparabilmente più in là di quanto non faccia la manifattura, perché aumenta in grado incomparabilmente più alto la forza produttiva delle industrie che esso conquista. Unanalisi comparativa dei prezzi di alcune merci prodotte artigianalmente o con lavoro di tipo manifatturiero coi prezzi delle stesse merci come prodotto delle macchine dà in generale il risultato che nel prodotto delle macchine la parte costitutiva del valore dovuta al mezzo di lavoro cresce relativamente, ma diminuisce in assoluto.
La differenza permane finché i costi di lavorazione della macchina e quindi la parte costitutiva del valore da essa aggiunta al prodotto rimangono inferiori al valore che il lavoratore aggiungerebbe col suo strumento alloggetto del lavoro. La produttività della macchina si misura quindi con il grado nel quale la macchina sostituisce la forza-lavoro umana. La produttività delle macchine è inversamente proporzionale alla grandezza dellelemento costitutivo del valore da esse trasmesso al prodotto. Quanto più è lungo il periodo durante il quale esse funzionano, tanto maggiore è la massa di prodotti su cui si distribuisce il valore da esse aggiunto, e tanto minore è la parte di valore che esse aggiungono alla merce singola. Ma il periodo attivo di vita delle macchine è determinato evidentemente dalla durata della giornata lavorativa [<=], ossia dalla durata del processo lavorativo giornaliero moltiplicata per il numero delle giornate in cui esso si ripete. Data la proporzione nella quale le macchine trasferiscono valore nel prodotto, la grandezza di questa parte del valore dipende dalla grandezza di valore delle macchine stesse. Tanto meno lavoro esse contengono, tanto minor valore aggiungono al prodotto; tanto meno valore esse cedono, tanto più sono produttive e tanto più il servizio che fanno savvicina a quello delle forze naturali. Ma la produzione di macchine per mezzo di macchine ne diminuisce il valore proporzionalmente alla loro estensione ed efficacia.
Considerata la macchina esclusivamente mezzo per ridurre più a buon mercato il prodotto, il limite delluso delle macchine è dato dal fatto che la loro produzione costi meno lavoro di quanto il loro uso ne sostituisca. Ma per il capitale questo limite trova unespressione ancora più ristretta. Poiché il capitale non paga il lavoro adoperato, ma il valore della forza-lavoro usata, per esso luso delle macchine è limitato dalla differenza fra il valore della macchina e ii valore della forza-lavoro da essa sostituita. Il valore della forza-lavoro [<=] è determinato dal tempo di lavoro necessario non soltanto per mantenere il lavoratore singolo, ma anche da quello necessario per il mantenimento della sua famiglia. Le macchine, gettando sul mercato del lavoro tutti i membri della famiglia proletaria, distribuiscono su tutta la famiglia il valore della forza-lavoro delluomo, e quindi svalorizzano la forza-lavoro di questultimo. Così le macchine allargano fin dal principio anche il grado di sfruttamento, assieme al materiale umano da sfruttamento che è il più proprio campo di sfruttamento del capitale. Nei paesi di più antico sviluppo la macchina stessa produce, per il suo uso in alcune branche dindustria, tale sovrabbondanza di lavoro in altre branche che la caduta del salario [<=] al disotto del valore della forza-lavoro impedisce luso delle macchine, e lo rende superfluo e spesso impossibile dal punto di vista del capitale, il guadagno del quale proviene di per sé dalla diminuzione non del lavoro adoprato ma da quella del lavoro pagato.
Il plusvalore non deriva dalle forze-lavoro sostituite dal capitalista con le macchine, bensì, viceversa, dalle forze-lavoro che egli impiega per il loro funzionamento. Il plusvalore nasce dalla parte variabile del capitale soltanto, e la massa del plusvalore è determinata da due fattori: ossia, dal tasso del plusvalore e dal numero dei lavoratori impiegati simultaneamente. Data la durata della giornata lavorativa, il tasso del plusvalore è determinato dalla proporzione in cui la giornata lavorativa si scinde in lavoro necessario e in pluslavoro. Il numero dei lavoratori impiegati simultaneamente dipende a sua volta dalla proporzione in cui si trovano la parte variabile del capitale e quella costante. Ora è chiaro che lindustria meccanica, qualunque sia la misura in cui essa, mediante laumento della forza produttiva del lavoro, estenda il pluslavoro a spese del lavoro necessario, raggiunge questo risultato solo diminuendo il numero dei lavoratori impiegati da un dato capitale. Essa trasforma una parte del capitale, che prima era variabile, ossia si trasformava in forza-lavoro viva, in macchinario, vale a dire in capitale costante che non produce plusvalore.
Ma le macchine producono plusvalore relativo non solo svalutando direttamente la forza-lavoro e riducendola più a buon mercato indirettamente, in quanto riducono più a buon mercato le merci che entrano nella sua riproduzione, ma anche trasformando, al momento della loro prima introduzione sporadica, il lavoro impiegato dal possessore delle macchine in lavoro potenziato, aumentando il valore sociale del prodotto della macchine al di sopra del suo valore individuale e mettendo in tal modo il capitalista in grado di reintegrare il valore giornaliero della forza-lavoro con una parte minore di valore del prodotto giornaliero. Le macchine riducono più a buon mercato e aumentano il prodotto nella branca che conquistano e in un primo momento lasciano inalterata la massa di mezzi di sussistenza prodotta in altre branche dellindustria. Dunque la società possiede, prima e dopo la loro introduzione, altrettanti mezzi di sussistenza, o anche di più, per i lavoratori soppiantati. Ma lassurdo delleconomia politica è questo: I mezzi di sussistenza consumati precedentemente dai lavoratori licenziati continuano tuttavia a esistere e si trovano anche dopo sul mercato. Daltro lato si trova del pari sul mercato la loro manodopera. Dalluna parte, dunque mezzi di sussistenza (e perciò di pagamento) per lavoratori, capitale variabile in potenza, dallaltra lavoratori disoccupati. Esistono quindi i fondi per metterli in movimento. E conseguentemente troveranno occupazione: è mai possibile che si farfugli un nonsense tale da far rizzare i capelli?
Un risultato delle macchine è di ingrandire il plusvalore e insieme la massa di prodotti nella quale esso si presenta, e dunque di ingrandire, assieme alla sostanza di cui si nutrono la classe dei capitalisti e le sue appendici, questi stessi strati della società. La crescente loro ricchezza e la diminuzione relativamente costante del numero dei lavoratori richiesti per la produzione dei mezzi di sussistenza di prima necessità, generano un nuovo bisogno di lusso e insieme nuovi mezzi per soddisfarlo. Una parte maggiore del prodotto sociale si trasforma in plusprodotto, e una parte maggiore del plusprodotto viene riprodotta e consumata in forme raffinate e variate. In altre parole: cresce la produzione di lusso. La raffinatezza e la varietà dei prodotti deriva anche e nella stessa misura dalle nuove relazioni col mercato mondiale create dalla grande industria. Lo straordinario aumento raggiunto dalla forza produttiva nelle sfere della grande industria, accompagnato comè da un aumento, tanto in estensione che in intensità, dello sfruttamento della forza-lavoro in tutte le restanti sfere della produzione, permette di adoprare improduttivamente (cioè, come lavoro improduttivo [<=]) una parte sempre maggiore della classe [<=] lavoratrice, e quindi di riprodurre specialmente gli antichi schiavi domestici sotto il nome di classe dei servitori, come domestici, servi, lacchè, ecc. sempre più in massa. Che edificante risultato dello sfruttamento capitalistico delle macchine!
[k.m.]
(da Capitale, I.13,1-6, VI inedito, I.5,16, Teorie sul plusvalore, XVIII)
Male e bene
Lantitesi di male e bene si muove esclusivamente sul piano morale [<=]e quindi su un piano appartenente alla storia umana, e qui le verità di ultima istanza sono estremamente rare. Da popolo a popolo, da epoca a epoca, le idee di bene e di male si sono cambiate in tal misura da essere arrivate spesso addirittura a contraddirsi. Ma, qualcuno obietterà, pure il bene non è male e il male non è bene; se male e bene vengono confusi insieme, cessa ogni moralità e ciascuno può fare o non fare ciò che vuole. Ma, tuttavia, la cosa non si sbriga così facilmente. Se la cosa fosse così semplice, non ci sarebbe davvero nessuna disputa sul bene e sul male, ciascuno saprebbe che cosa è il bene e che cosa è il male. Ma come stanno oggi le cose? Quale morale ci si predica oggi? Cè anzitutto la morale cristiano-feudale, tramandata dai tempi passati della fede che, a sua volta, si divide in cattolica e protestante, e non ci mancano ancora altre suddivisioni, dalla gesuitica cattolica e dalla ortodossa protestante sino a una duttile morale illuminata. Accanto vi figura la morale borghese moderna e a sua volta, accanto a questa, la morale proletaria dellavvenire, cosicché passato, presente e futuro, solo nei paesi più progrediti dellEuropa, offrono tre grandi gruppi di teorie morali che vigono contemporaneamente e luna accanto allaltra. Ora, quale è la vera? Quanto a validità assoluta, nessuna singolarmente presa; ma certo sarà in possesso del maggior numero di elementi che promettono di essere duraturi, quella morale che rappresenta nel presente il rovesciamento del presente, il futuro, e quindi la morale proletaria.
Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nellavvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi princìpi permanenti, che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano degli antagonismi di classe, così la morale è stata sempre una morale di classe [<=], o ha giustificato il dominio e gli interessi della classe dominante, o, diventata la classe oppressa sufficientemente forte, ha rappresentato la rivolta contro questo dominio e gli interessi futuri degli oppressi. Che così allingrosso si sia avuto un progresso tanto per la morale quanto per tutti gli altri rami della conoscenza umana, è cosa su cui non è possibile nessun dubbio. Ma non abbiamo ancora superato la morale di classe. Una morale che superi gli antagonismi delle classi e le loro sopravvivenze nel pensiero, una morale veramente umana è possibile solo a un livello sociale in cui gli antagonismi delle classi non solo siano superati, ma siano anche dimenticati per la prassi della vita.
[f.e.]
(da Anti-Dühring, I.IX)
Manifesto
(partito comunista)
Programma pratico e teorico, piattaforma politica commissionata dalla Lega dei comunisti tedeschi nel 1947 a Marx e Engels: tale programma, che si proponeva di gettare le basi per lunità internazionale di un movimento operaio alla conquista della propria coscienza di classe [<=], va oltre le dinamiche storiche del secolo scorso, passando attraverso tutte le forme di lotta ancora da attuare. Nonostante la sua apparente semplicità, è opera di difficile comprensione perché presuppone già acquisite categorie e una concezione materialistica della storia, secondo cui la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Ne riproponiamo ai militanti una lettura, accompagnata da una falsariga per le riflessioni utili a contrastare oggi i risorgenti fascismi, confidando anche noi nello sviluppo della classe operaia che [deve] necessariamente scaturire dallazione comune e dalla discussione, nel 1848 solo avviata, e che va portata avanti da tutti coloro che si riconoscono nel dilagare mondiale della subalternità salariata.
Il Manifesto è pertanto da riguardare come: a) documento storico della conflittualità sociale storicamente determinata (nel 1848), b) sintesi di conoscenza del reale e princìpi di teoria politica, c) progetto per lazione storica futura, da sottoporre alla continua verifica del divenire delle trasformazioni materiali. Ancora oggi, il testo propone come prioritario lobiettivo di costituirsi quale canale soggettivo per lattuazione oggettiva delle forme coscienziali e di lotta, sedimentatesi nelle fasi alterne delle vittorie e sconfitte di un secolo e mezzo, da rielaborare però alla luce dei risultati conseguiti. Oggi ancora, il Manifesto pone, accanto alla conquista teorica da parte dei comunisti (che, consapevoli, non hanno ceduto allideologia del crollo del comunismo, vecchia quanto il comunismo [<=] stesso) dellirriducibile verità del modo di produzione capitalistico, la necessità di renderla lotta vivente nel corpo in espansione della proletarizzazione mondiale in atto. La chiarificazione teorica dellobiettivo marxengelsiano, punto di partenza per lautodeterminazione cosciente di chi vive la condizione materiale delloppressione di classe, ha come effetto e non ne è il presupposto di spazzare via ogni falsa coscienza (ideologie utopistiche, religiose, ecc.) che il sistema produce per occultare il cancro interno dello sfruttamento arbitrario e violento sul lavoro altrui.
Il Manifesto fa di tale chiarificazione: i) levidenziarsi del compiuto generarsi oggettivo, entro il sistema, del proletariato industriale della metà dell800, in quanto classe autonoma, ma contemporaneamente, anche, ii) la premessa di una lotta le cui determinazioni di classe vanno ricercate e ridefinite dalla classe stessa, entro le forme del dominio che il capitale va mutando nel corso del processo storico in fieri. I cenni di passaggio storico a es., dal feudalesimo al capitalismo sono deliberatamente indicativi dellintersezione inscindibile, ma non generica, dei diversi piani dellazione umana (economica, sociale, ideologica, giuridica, ecc.) nel tempo, esplicabili nella rappresentazione teorica che pone la centralità della categoria economica a rispecchiamento della gerarchia reale di quei diversi piani delle società, basate sullappropriazione del lavoro altrui. Inoltre, la verità nuda che il capitale svela rendendo superflui gli orpelli feudali, è la dissoluzione dialettica del superamento del modo di produzione feudale per laffermarsi e generalizzarsi del lavoro salariato come nuova forma economica dominata. Quella nudità però se tende a dare il disgusto della feudalità, rende impudicamente, epperò concretamente, visibile la categoria dellutile nel capitale, costretto da se stesso al divoramento del mondo intero, ridotto a solo mercato [<=]. Questa verità capitalistica (che verrà continuamente soggetta a tutte le mistificazioni!), schiacciata sotto il peso della sua stessa ricchezza materiale, dovrà annullarla il nuovo superamento dialettico che nel 48 segna simbolicamente solo il suo atto di nascita. Superamento attuabile dalle armi del proletariato? Questa è lindicazione nel Manifesto.
Le forme storiche reali della categoria aperta della proletarizzazione mondiale, andranno individuate storicamente dalla coscienza comunista emancipata cioè dalla teoria scientifica a partire da quella che fa capo ai nomi di Marx ed Engels. Invece di essere letto con gli occhi catturati solo dallimmediatezza degli eventi del 48, a mo di ricetta per ingessare la storia, il Manifesto apre un orizzonte prospettico. La concisione espressiva è funzionale a incisività e ampliamento quantitativo dellimpegno politico proletario, cui è espressamente diretto, non certo alla semplificazione di moda oggi dellinequivocabile dinamica storica che si proietta nel proletari di tutti i paesi, unitevi!. La borghesia produce proletari nella materialità delle condizioni produttive e tecnologiche che ne determinano lasservimento sociale e politico. Il processo unitario, di concentrazione e organizzazione borghese richiede, la funzionalità e cioè subalternità proletaria agli obiettivi dominanti. La differenziazione negativa da questi costituirà la crescita politica e umana del proletariato stesso. La maggioranza espropriata è posta come condizione oggettiva dinamica per la frantumazione del sistema borghese, mentre la condizione soggettiva (a es. deve farla finita prima con la sua propria borghesia) è inscritta nella progettualità di un dover essere, come destinazione e lotta. Implicita, quindi, la corruzione della coscienza proletaria (le cui modalità appaiono oggi determinate e non terminate), a partire dallinglobamento nel capitale della forza-lavoro e di tutte le sue rappresentazioni regolatrici [si pensi, in Italia, agli accordi di luglio 1993!].
La relazione tra proletari e comunisti è la relazione tra oggetto e soggetto, cosciente. La coscienza qui è scienza del reale appropriata, per la conquista di un potere in quanto abolizione dei rapporti proprietari privati (borghesi), storicamente determinati. Tale potere, inscritto nello sviluppo delle forze produttive scippate dal capitale e dalla sua organizzazione statale alla società, è il risultato di un tendere soggettivato, impegno dei singoli espropriati, a restituire alla società stessa di cui si riconoscono prodotto e attività rivoluzionaria la ricchezza da lei prodotta nella forma storica epperò transeunte del capitale. Il lavoro vivo del proletariato continua ad aumentare lavoro morto, ora per accrescere il capitale, nel comunismo per accrescere la qualità della vita a vantaggio di tutta la società. Denunciare la falsa coscienza dellutopismo o conservatorismo socialista delle armonizzazioni neocorporative [<=], diremmo noi oggi e indicare concreti obiettivi rivoluzionari: questi i compiti della critica comunista rivolta alla propria organizzazione, soggetta anchessa ai rovesci della lotta di classe.
Lanalisi, poi, delle potenzialità rivoluzionarie indicate, che non si sono realizzate storicamente, non deve indurre alla facile lettura dellerrore teorico per cui Marx è da buttare, o meglio revisionare. Si tratta invece della casualità storica (in cui agisce con esiti non necessari la lotta di classe [<=]), le cui tendenze i rivoluzionari cercano di individuare per influenzarne il corso. Le sconfitte dànno conto dello sviluppo impraticabile delle contraddizioni epocali, per una conoscenza ex post, comunque preziosa, di quelle più progressive o soltanto più feconde per la transizione. Le condizioni oggettive dellunificazione del mercato mondiale consentono oggi linternazionalizzazione oggettiva della classe proletarizzata in vaste articolazioni. La sua unione politica in opposizione a tutte le differenze strumentali è la grande potenzialità soggettiva che i comunisti devono ancora verificare, senza tentare scorciatoie inadeguate al percorso della storia. È questa sola con la sua portata di soggettività emancipata che deciderà quando segnare le ultime ore anche per i padroni. La sfida lanciata un secolo e mezzo fa nel Manifesto è ancora aperta. Lo conferma la fretta che i padroni hanno nel dichiararla chiusa, fin dallora, da quando hanno cominciato a narrare la favola della crisi del marxismo, per minarne scientificità analitica e forza dissolutrice dei cardini dello sfruttamento.
[c.f.]
Manipolazione
(da Guantánamo alle barzellette in tv)
La tradizione ebraica conserva la ripugnanza a misurare un uomo col metro, poiché si misurano i morti per la bara. È ciò di cui godono i manipolatori del corpo. Essi misurano laltro, senza saperlo, con lo sguardo del costruttore di bare. Sono interessati alla malattia, spiano già, durante il pranzo, la morte del commensale, e il loro interesse per tutto ciò è razionalizzato solo fragilmente con la sollecitudine per la sua salute. Il linguaggio tiene il passo con loro. Esso ha risolto la passeggiata in movimento e il vitto in calorie, un po come la foresta viva si dice legno (bois, wood) nel francese e inglese corrente. La società riduce, col tasso di mortalità, la vita a un processo chimico.
Nella diabolica umiliazione dei prigionieri nei campi di concentramento, che il moderno carnefice aggiunge, senza motivo razionale, al martirio, esplode la rivolta non sublimata, e tuttavia rimossa, della natura proibita. Essa colpisce, in tutto il suo orrore, il martire dellamore, il presunto criminale sessuale e libertino, poiché il sesso è il corpo non ridotto, lespressione, ciò a cui essi, in segreto, anelano disperatamente. La vittima rappresenta per lui la vita che ha superato la scissione; essa devessere spezzata, e luniverso essere solo polvere e astratto potere.
I padroni fascisti di oggi [Reagan, Bush, Berlusconi, ...] non sono tanto superuomini quanto funzioni del loro stesso apparato pubblicitario, punti dincrocio delle stesse reazioni di milioni. Se nella psicologia delle masse odierne il capo non rappresenta più tanto il padre quanto la proiezione collettiva e dilatata a dismisura dellio impotente di ogni singolo, le persone dei capi corrispondono effettivamente a questo modello. Non per nulla hanno laria di parrucchieri, attori di provincia e giornalisti da strapazzo. Una parte della loro influenza morale deriva proprio dal fatto che essi, come di per sé impotenti, e simili a chiunque altro, incarnano in sostituzione e in rappresentanza di tutti lintera pienezza del potere, senza essere perciò nientaltro che gli spazi vuoti su cui il potere è venuto a posarsi. I capi sono diventati completamente ciò che erano già stati sempre, un poco, in tutto il corso della storia borghese: attori che recitano la parte di capi. Nella lotta contro il fascismo non è il compito meno importante quello di ridurre le immagini gonfiate dei capi alla misura della loro nullità. Almeno nella somiglianza fra il barbiere ebreo e il dittatore il film di Chaplin ha colto qualcosa di essenziale.
Il posto della scienza nella divisione sociale del lavoro [<=] è facilmente riconoscibile. Essa deve accumulare fatti e nessi funzionali di fatti nella massima quantità possibile. Lordinamento devessere chiaro e perspicuo, dovendo consentire alle singole industrie di trovare subito la merce intellettuale richiesta nellassortimento voluto. La filosofia ufficiale serve alla scienza, deve contribuire, come una specie di taylorismo dello spirito, a migliorare i suoi metodi produttivi, a razionalizzare laccumulazione delle conoscenze, a evitare lo spreco di energia intellettuale. Ha il suo posto nella divisione del lavoro come la chimica o la batteriologia. Sarchiano, dal terreno della scienza, la gramigna dialettica, che altrimenti potrebbe crescere alta.
In contrasto coi suoi amministratori, la filosofia rappresenta fra le altre cose il pensiero che non capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non si lascia prescrivere da essa i propri compiti. Lesistente non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli interessi materiali, ma anche con la strapotenza della suggestione. La filosofia non è sintesi, base o coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale. La divisione del lavoro, come si è formata sotto il dominio, non viene per questo ignorata.
La filosofia non fa che penetrare la menzogna per cui sarebbe inevitabile. Non lasciandosi ipnotizzare dalla strapotenza che per prima cosa devessere compresa al di fuori dellincantesimo che esercita. Quando i funzionari, che lindustria mantiene nei suoi ressorts intellettuali, nelle università, nelle chiese e nei giornali, chiedono alla filosofia la tessera dei suoi principî, con cui essa legittima le sue ricerche, essa viene a trovarsi in un imbarazzo mortale. Essa non riconosce norme o fini astratti, che si presterebbero ad applicazione in contrasto coi fini e con le norme vigenti. La sua libertà dalla suggestione dellesistente consiste proprio in ciò, che essa accetta gli ideali borghesi: quelli che sono ancora proclamati e sia pure in forma alterata dagli esponenti dellattuale stato di cose, o quelli che sono ancora riconoscibili come significato oggettivo delle istituzioni, tecniche e culturali, a dispetto di ogni manipolazione. Essa crede che la divisione del lavoro esiste per gli uomini e che il progresso conduce alla libertà: e proprio per questo entra facilmente in conflitto con la divisione del lavoro e col progresso. Essa presta una voce alla contraddizione di credenza e realtà e si attiene così strettamente al fenomeno temporalmente condizionato. Per essa il massacro su scala colossale non conta, come per il giornale [o la tv], più della liquidazione di alcuni ricoverati. Essa non antepone lintrigo delluomo politico che si mette daccordo coi fascisti a un modesto linciaggio, i turbini di réclame dellindustria cinematografica allintimo annuncio di un cimitero. Non ha nessuna particolare inclinazione per ciò che è grande. Essa è ad un tempo estranea allesistente e capace di comprenderlo intimamente. La sua voce appartiene alloggetto, ma senza che questo lo voglia; è la voce della contraddizione, che, senza di essa, non si farebbe udire, ma trionferebbe muta.
Per il consumatore non rimane più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione. Non solo i tipi di ballabili, divi, [tele o] radiodrammi ritornano ciclicamente come entità invariabili, ma il contenuto specifico dello spettacolo, ciò che apparentemente muta, è in realtà dedotto da quelli. I particolari diventano fungibili. Clichés belle pronti si possono impiegare a piacere qua o là, sono interamente definiti, ogni volta, dallo scopo che assolvono nello schema complessivo. Confermarlo, mentre lo compongono, è tutta la loro vitalità.
Si può sempre capire subito, in un film, come andrà a finire, chi sarà ricompensato, punito o dimenticato; per non parlare della musica leggera, dove lorecchio esercitato può indovinare la continuazione fin dalle prime battute del motivo e provare un senso di felicità quando arriva effettivamente. Il numero medio di parole della short story è quello e non si può toccare. Anche le gags, gli effetti e le battute sono calcolati come limpalcatura in cui si situano. Vengono amministrati da esperti speciali, e la loro limitata varietà si lascia ripartire, in linea di massima, nellufficio. Lindustria culturale si è sviluppata insieme al primato delleffetto, della trovata, dellexploit concreto e tangibile, del particolare tecnico, sullopera nel suo insieme, che, un tempo, era la portatrice dellidea ed è stata liquidata insieme con essa.
Sotto il monopolio [<=] privato della cultura accade realmente che la tirannide lascia libero il corpo e investe direttamente lanima.. Chi non si adegua è colpito da unimpotenza economica che si prolunga nellimpotenza intellettuale dellisolato. Una volta escluso dal giro, è facile convincerlo dinsufficienza. Lindustria culturale rimane pur sempre lindustria del divertimento. Il suo potere di disposizione e di controllo sui consumatori è mediato dallamusement: il prolungamento del lavoro nellepoca del tardo capitalismo. La meccanizzazione ha acquistato un potere così grande sulluomo che utilizza il suo tempo libero e sulla sua felicità, che egli non è più in grado di apprendere e di sperimentare altro che le copie e le riproduzioni dello stesso processo lavorativo. Ciò che si imprime realmente negli animi è una sequenza automatizzata di operazioni prescritte. Al processo lavorativo nella fabbrica e nellufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso nellozio.
Il piacere del divertimento si irrigidisce in noia, poiché, per poter restare piacere, non deve costare altri sforzi, e deve quindi muoversi strettamente nei binari delle associazioni consuete. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in virtù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si rivolge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata.
[m.h. - t.a.]
(da Max Horkheimer - Theodor W. Adorno, Dialettica dellilluminismo, 1947)
Materie prime
(imperialismo, monopoli)
La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc.
Soltanto il possesso coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo contro ogni eventualità nella lotta con lavversario, perfino contro la possibilità che lavversario si trinceri dietro qualche legge di monopolio statale. Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie.
Senza dubbio i riformisti borghesi, e fra di essi in primo luogo i kautskiani di oggi, tentano di svalutare limportanza di questi fatti rilevando che si potrebbero avere le materie prime sul libero mercato senza la costosa e pericolosa politica coloniale, e che si potrebbe aumentare immensamente lofferta di materie prime con il semplice miglioramento dellagricoltura in generale. Ma simili rilievi, ben presto, non diventano altro che panegirici e imbellettamenti dellimperialismo, giacché essi sono possibili in quanto non tengono conto della più importante caratteristica del capitalismo moderno: i monopoli.
Il libero mercato appartiene sempre più al passato, ed è sempre più ridotto dai sindacati e dai trust monopolistici, mentre il semplice miglioramento dellagricoltura richiede che siano migliorate le condizioni delle masse, elevati i salari e ridotti i profitti. Dove esistono, fuori che nella fantasia dei soavi riformisti, trust capaci di curarsi della situazione delle masse, anziché di conquistare colonie?
Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani essere messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali. Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale.
Nello stesso modo che i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola due o tre volte al di sopra del vero, giacché fanno assegnamento sui profitti possibili (ma non reali) del futuro e sugli ulteriori risultati del monopolio, così il capitale finanziario, in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, con la paura di rimanere indietro nella lotta furiosa per lultimo lembo della sfera terrestre non ancora diviso, per una nuova spartizione dei territori già divisi. [v.l.]
Mediazione
Nel linguaggio [<=] corrente, per mediazione si intende lattività svolta al fine di far concludere un affare in maniera conveniente alle varie parti in causa. Esteso dal campo degli affari a quello politico-sindacale, il termine mediazione viene usato sia per lattività lobbistica, clientelare e mafiosa, tesa al procacciamento di posti, nomine, incarichi e appalti (più o meno tangenziali), sia per il sotterraneo lavorìo che conduce a compromessi, variamente sordidi e di basso livello storico, prevalentemente conclusi passando sopra la testa di coloro che sono i reali interessati. Un cospicuo esempio abbastanza recente di mediazione, in questo senso volgare ed errato, è offerto dallultimatum di Ciampi (quando era ministro del tesoro) per addivenire al miracoloso accordo sul costo del lavoro tra gli altri due angoli della triade neocorporativa [<=], padroni e sindacato. Ma lì, appunto, non vi era più nulla da mediare, essendo il protocollo governativo del luglio 1993 già il risultato reiterato di lunghi anni di una gestazione, ben altrimenti mediata, che appare quale espressione di identità raggiunta.
Pur sapendo da Lenin che il compromesso in politica può rappresentare (in particolari e limitate circostanze di stallo nella lotta di classe [<=]) una scelta saggia, la giusta e dura critica comunista [<=] allaccezione volgare di compromesso inteso piuttosto quale svendita o liquidazione, come esso è praticato da riformismo, revisionismo, opportunismo e ogni altra sorta di perdita di principî, che lhanno rabbassato a mero cedimento al dominio borghese (al punto da destreggiarsi nellappoggio a sinistri candidati ai posti di sceriffo-sindaco e quantaltro uninominalmente vada diffondendosi) ha condotto però spesso alla posizione estremamente infantile di non comprendere lazione rivoluzionaria [<=], in quanto relazione di diversi, come un lungo processo storico che, proprio per ciò, richiede mediazioni.
Per parafrasare Hegel, si può dire che essa in quanto espressione di un sapere di massa è quindi mediata in quanto assoluta verità della coscienza [<=]. Daltronde diceva il vecchio non vha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito né dovunque si voglia, che non contenga tanto limmediatezza quanto la mediazione, cosicché queste due determinazioni si mostrano come inseparate e inseparabili. Tale concetto di mediazione, pertanto lungi dal rappresentare una perdita del carattere di classe [<=] e della corrispondente capacità autonoma di lotta non rappresenta altro che lo sviluppo della conoscenza scientifica, da parte del proletariato comunista, dello stato delle contraddizioni e della trasformazione dei rapporti di forza [<=] tra le classi ed entro le classi [<=]. È dunque la conoscenza delle condizioni oggettive e soggettive della dinamica del processo, prima che della morta forma del risultato, che può imporre da un lato, e suggerire dallaltro, nella prassi rivoluzionaria lesperimento di numerosi termini medi mediazioni, appunto capaci di accompagnare la trasformazione storica in corso.
[gf.p.]
Mercato
Lespressione economia di mercato trova un uso generalizzato nel gergo giornalistico e in quello politico come sinonimo di economia capitalistica. Tuttavia proprio questuso è fonte di grande mistificazione. Utilizzare così questa categoria significa fermarsi allapparenza dei fenomeni economici in una società capitalistica. Non a caso Marx inizia il Capitale con queste parole: La ricchezza delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con lanalisi della merce. Quello che è il punto dinizio dellanalisi marxiana è il punto finale cui giunge leconomia politica moderna, espressa nel senso comune dalluso della categoria economia di mercato al posto di modo di produzione capitalistico.
La mistificazione risiede nel fatto che così scompaiono le differenze specifiche fra le diverse forme ed epoche della produzione sociale. Anzi scompare ancora prima la percezione della produzione, come elemento centrale per definire una forma sociale. Se per economia di mercato si intende una economia in cui le merci vengono scambiate tramite il denaro, gli unici attori sociali economicamente rilevanti rimangono i venditori e i compratori. Si cerca così di assolutizzare la superficiale impressione che il momento dello scambio delle merci sia quello socialmente centrale, e che la finalità dominante della società sia quella del consumo. Da qui deriva lenfasi sulla figura del consumatore come sovrano del mercato. Naturalmente i consumatori (come i cittadini) fra loro sono tutti eguali (se non per il trascurabile particolare che la quantità di denaro a loro disposizione non è la stessa!). Tutto ciò significa che la produzione di merce [<=], che pure è necessaria affinché ci sia qualcosa da scambiare, non viene indagata. Si insinua, subdolamente, la falsa rappresentazione che si tratti di una produzione semplice di merci.
Questa forma di produzione è quella che storicamente precede quella capitalistica: riguarda la produzione artigiana e del contadino indipendente. In essa il carattere fondamentale è la produzione di valori duso (oggetti utili) per altri, a cui vengono venduti mediante uno scambio. Ora questa caratteristica permane certamente nella produzione capitalistica, ma ad essa si aggiunge lacquisto della merce forza-lavoro [<=] sul mercato, dal cui uso, allinterno della produzione, si trae un profitto. Se si omettono queste differenze specificamente capitalistiche, si usa una categoria comune (economia di mercato) alla produzione artigiana ed agricola delle antiche nazioni commerciali, alle piccole attività artigiane odierne, alla produzione in una società socialista (dove la produzione di merci semplici permane, sia pure a uno stadio più elevato). Appare evidente che una tale genericità mal si presta a definire la società capitalistica in cui viviamo. Tuttavia il suo uso specifico nel caso dei paesi ex socialisti è estremamente istruttivo. Per i capitalisti queste società per diventare libere economie di mercato debbono soddisfare alcuni requisiti fondamentali: creare un libero (con libertà di licenziamento) mercato del lavoro, ripristinare la libertà dimpresa (ossia acquistare e usare mezzi di produzione e forza-lavoro), e consentire allimprenditore la libera appropriazione del suo frutto (i profitti). Quindi si fa uso di una categoria impropria libertà [<=] del mercato per occultare i caratteri specifici, propri, della produzione capitalistica.
Ci sembra che lo scopo fondamentale di questa operazione sia quello di nascondere alla coscienza collettiva [<=], dei venditori di forza-lavoro che debbono subirne gli effetti deleteri, i reali connotati della società in cui si trovano a vivere e lavorare. Se essi sono in possesso di quella particolare merce (la forza-lavoro appunto) che debbono vendere, per poter acquistare le merci necessarie a sopravvivere, sono anchessi attori del mercato (venditori e consumatori come tutti gli altri). Il fatto che la merce che loro vendono sia del tutto particolare (ovvero fonte del profitto) viene completamente oscurato. Ma ancora più grave è il fatto che tale oscurità avvolga la coscienza [<=] di coloro, come gli esponenti politici dell'asinistra democratica, che si candidano a rappresentare gli interessi dei lavoratori. Infatti le loro ripetute professioni di fede nelleconomia del libero mercato appaiono, nelle intenzioni, un puerile tentativo di ingraziarsi il favore dei capitalisti, tentativo lungamente perseguito dal socialismo utopistico ottocentesco e poi dalla socialdemocrazia novecentesca con scarso successo. Mentre, nella realtà, non sono altro che espressione della subalternità culturale, e quindi anche di linguaggio [<=], alla borghesia capitalistica. Infatti è un mistero come si possa modificare una realtà sociale che non si riesce neanche più a capire, a meno che non la si voglia conservare accontentandosi di qualche superficiale intervento estetico.
[o.l.]
Mercato mondiale # 1
(scambio ineguale)
La ripartizione del plusvalore [<=], e il movimento della circolazione [<=] mediante il quale essa si compie, oscurano la forma fondamentale semplice del processo di accumulazione. Per analizzare questultimo con esattezza è necessario prescindere, provvisoriamente, da tutti quei fenomeni che occultano il funzionamento interiore di codesto movimento. La grandezza del plusvalore limita la somma delle parti in cui esso si può suddividere, e che è già data prima di questa suddivisione. Ma il fatto che non vi sia qui un limite determinato e regolato da leggi per la ripartizione del profitto medio non sopprime il suo limite. Quando una merce è venduta sopra o sotto il suo valore, ne risulta soltanto una diversa ripartizione del plusvalore. Come questa ripartizione avvenga, è una questione in sé e per sé puramente empirica, che appartiene al regno della casualità, come la ripartizione in parti disuguali delle percentuali del profitto comune di unimpresa tra i diversi soci, in conseguenza di varie circostanze esterne: ciò non esercita nessuna influenza sui limiti di questo profitto. Nelleffettivo processo di circolazione le trasformazioni coincidono con leffettiva concorrenza, con lo scambio delle merci sopra e sotto il loro valore, sicché per il singolo capitalista il plusvalore da esso personalmente realizzato dipende non meno che dal vicendevole raggiro che dal diretto sfruttamento del lavoro.
La rendita (o il plusprofitto) di monopolio deve costituire sempre, sia pure indirettamente, ameno una parte del plusvalore di altre merci che vengono scambiate con quella merce che ha un prezzo di monopolio. Il tasso del profitto aumenta, sia se la merce venduta al di sotto del suo valore costituisce un elemento del capitale costante, sia se entra come articolo del consumo individuale, nella parte del valore che è consumata come reddito. Dal fatto che il profitto può stare al di sotto del plusvalore cioè che il capitale può scambiarsi con profitto senza valorizzarsi in senso stretto consegue che non soltanto i capitalisti individuali, ma intere nazioni, possono continuamente scambiare reciprocamente, persino ripetere continuamente lo scambio su scala sempre più vasta, senza per questo trarne un profitto uniforme. Una nazione può costantemente appropriarsi di una parte del pluslavoro dellaltra senza dar nulla in cambio, anche se non nella stessa misura dello scambio tra capitalista e lavoratore.
Il capitale commerciale non crea né valore né plusvalore, ma è unicamente il mezzo che permette la loro realizzazione. Abbiamo a che fare con un capitale che partecipa al profitto senza partecipare alla sua produzione. Perciò, poiché il capitale commerciale stesso non produce plusvalore alcuno, è chiaro che il plusvalore a esso attribuito, sotto la forma di profitto medio, costituisce una parte del plusvalore creato dal capitale produttivo complessivo. Tuttavia, poiché la fase della circolazione del capitale industriale costituisce, precisamente come la produzione, una fase del processo di riproduzione, il capitale che funziona autonomamente nel processo di circolazione deve dare un profitto: qualora esso fosse superiore a quello del capitale industriale, una parte di questultimo si trasformerebbe in capitale commerciale. Nessun capitale incontra minori difficoltà del capitale commerciale a mutare la sua destinazione.
Le spese di circolazione si presentano in parte come spese che provengono da altri agenti di circolazione, in parte come spese che sono inerenti alla specifica attività. Qualunque possa essere la natura di queste spese di circolazione (pura attività commerciale, somme che provengono dai processi di produzione complementari, ecc.) esse presuppongono sempre un capitale supplementare anticipato nellacquisto di tali mezzi. Questo elemento di costo entra interamente come elemento addizionale, ma solo come un elemento che costituisce un valore nominale, poiché esso non costituisce alcuna effettiva aggiunta di valore alla merce. Tutto questo capitale supplementare entra nella formazione del tasso generale del profitto.
Il tempo di lavoro, che queste operazioni richiedono, viene impiegato in operazioni necessarie nel processo di riproduzione del capitale, ma non aggiunge valore alcuno. Per quanto riguarda il capitale complessivo sociale ciò significa in realtà che una parte di questo capitale viene richiesta per operazioni secondarie che non entrano nel processo di valorizzazione, e che questa parte del capitale sociale deve di continuo essere riprodotta a tal fine. Il prolungamento delloperazione di circolazione rappresenta una perdita di tempo per il capitalista industriale. Per il capitalista individuale e per tutta la classe [<=] dei capitalisti industriali ne risulta una diminuzione di profitto, che si verifica a ogni aggiunta di capitale addizionale.
La massa del profitto dipende anche dalla massa di capitale impiegata nella circolazione, ed è tanto maggiore quanto maggiore è il lavoro non pagato dei suoi salariati. Come il lavoro non pagato degli operai crea direttamente plusvalore per il capitale produttivo [<=], così il lavoro non pagato dei lavoratori del commercio procura al capitale commerciale una partecipazione a quel plusvalore, ed è quindi la fonte del profitto di questultimo.
A misura che la scala della produzione si allarga, si accrescono le operazioni che devono di continuo venire eseguite per la circolazione del capitale industriale. È necessario per questo impiegare lavoratori che costituiscono lufficio vero e proprio, classe di salariati meglio pagati, il cui lavoro è qualificato, superiore al lavoro medio; ma a parte alcune eccezioni, la forza-lavoro di queste persone si deprezza con il procedere della produzione capitalistica: il loro salario diminuisce mentre il loro rendimento si accresce. Laumento di questo lavoro è sempre la conseguenza, mai la causa dellaumento del plusvalore. Tali lavoratori rendono, non perché producano direttamente plusvalore, ma perché contribuiscono a diminuire le spese della realizzazione del plusvalore, nella misura in cui compiano un lavoro in parte non pagato.
La spesa che la loro remunerazione implica, quantunque fatta nella forma di salario [<=], si distingue dal capitale variabile che viene sborsato per lacquisto di lavoro produttivo. Essa, infatti, aumenta le spese dei capitalisti industriali, la massa del capitale da anticipare, senza accrescere direttamente il plusvalore. È infatti spesa fatta per pagare lavoro che viene unicamente impiegato nella realizzazione di valore già creato. Come qualsiasi altra spesa, anche questa diminuisce il tasso di profitto, in quanto il capitale anticipato (denominatore) aumenta, ma non il plusvalore (numeratore). Il capitalista industriale cerca quindi di ridurre al minimo queste spese. [Esse dànno luogo a una specie di divisione del lavoro; in quale misura presuppongano il profitto, si vede tra laltro dal fatto che spesso una parte di questi salari, col loro accrescersi, viene pagata con percentuali sul profitto].
Il livellamento del tasso di plusvalore viene ostacolato da molteplici attriti locali, pur se esso si viene sempre più attuando col procedere della produzione capitalistica e con la subordinazione a essa di tutti i rapporti economici. È necessario esaminare anzitutto la diversità tra i tassi nazionali di plusvalore, e quindi del grado di sfruttamento del lavoro; successivamente, su queste basi, paragonare la differenza dei tassi nazionali del profitto.
I capitali investiti allestero possono offrire un tasso di profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli: il lavoro che non è pagato come lavoro di qualità superiore viene invece venduto come tale e sfruttato più intensamente. Il paese maggiormente favorito riceve una quantità di lavoro superiore, nonostante che questa differenza, come del resto avviene in ogni scambio tra lavoro e capitale, vada a vantaggio solo di una determinata classe. In quanto, dunque, il tasso del profitto è più elevato, esso può accompagnarsi a un livello inferiore dei prezzi.
La caduta tendenziale del tasso di profitto è collegata con un aumento tendenziale del tasso di plusvalore, ossia del grado di sfruttamento del lavoro: tali tendenze non sono che forme particolari dellespressione capitalistica della crescente produttività [<=] del lavoro. È un punto di vista puramente nazionale, nonostante le variazioni del corso dei cambi, chiudere risolutamente gli occhi davanti al fatto che, se la banca del paese egemone in periodi di crisi [<=] eleva il tasso di interesse, tutte le banche degli altri paesi fanno lo stesso: e il grido dallarme viene lanciato in Europa, domani risuona in America e dopodomani altrove.
Il paese più ricco si procura ossigeno facendo appello alla bancarotta contro i suoi concorrenti. Per quanto riguarda limportazione e lesportazione, si deve notare che in tutti i paesi, che vengono coinvolti uno dopo laltro nella crisi generale, vi è stata una sovraimportazione e una sovraesportazione, ossia una sovraproduzione [<=] stimolata dal credito. Per ognuno di essi i prezzi erano esageratamente elevati e il credito aveva avuto unespansione troppo forte. E lo stesso collasso colpisce tutti. Questo deflusso valutario è semplicemente un fenomeno, non la causa della crisi; lordine di successione in cui tutti i paesi vengono colpiti indica semplicemente quando è venuto per essi il loro turno di essere coinvolti nella crisi, il momento della resa finale dei conti.
Che il denaro funzioni come mezzo di circolazione o come mezzo di pagamento dipende dalla forma dello scambio delle merci. Ma è indifferente il carattere del processo di produzione da cui esse provengono; come merci [<=] esse operano sul mercato, come merci esse entrano sia nel ciclo del capitale industriale, sia nella circolazione del plusvalore in esso contenuto: è dunque il carattere onnilaterale della loro origine, lesistenza del mercato come mercato mondiale che contrassegna il processo di circolazione del capitale industriale. Ciò che vale per le merci straniere vale per il denaro straniero; come il capitale-merce di fronte a esso opera solo come merce, così di fronte a quello questo denaro opera solo come denaro; il denaro qui opera come moneta mondiale [<=]. È una questione di denaro, non di mezzo di circolazione, e nemmeno di capitale, poiché ciò che è richiesto non è il capitale, che è indifferente alla forma particolare in cui esiste, bensì il valore nella forma specifica di denaro.
Una parte determinata di capitale deve sempre trovarsi sotto forma di capitale monetario [<=] potenziale, ossia sotto forma di riserve di mezzi dacquisto, riserve di mezzi di pagamento, capitale monetario non impiegato in attesa di investimento. Il continuo movimento della parte del capitale che esiste come denaro, ma è separato dalla funzione stessa di capitale, dà luogo a lavoro speciale e a spese corrispondenti funzioni eseguite a favore di tutta la classe capitalistica da una categoria di agenti o di capitalisti che ne fanno la loro operazione esclusiva, ossia le concentrano nelle loro mani.
Sono gli scambi internazionali che hanno in un primo tempo sviluppato il commercio di denaro, costringendo chi acquista in paesi stranieri a convertire la moneta dei loro paesi in moneta locale e viceversa, oppure in moneta mondiale. Di qui ha origine lattività del cambio, che deve essere considerato come uno dei fondamenti naturali del commercio moderno di denaro. Diventando moneta mondiale, la moneta nazionale perde il suo carattere locale. [Il fluire e rifluire del denaro da una sfera di circolazione nazionale [<=] a unaltra sono causati unicamente dalla svalutazione della moneta nazionale, sono estranei alla circolazione del denaro in quanto tale, e rappresentano una semplice correzione spontanea di deformazioni volute per ragioni di stato].
Con la formazione necessaria del credito, come mezzo per attuare il livellamento del tasso di profitto, uno dei principali costi di circolazione rappresentato dal denaro stesso viene economizzato (daltro lato, il credito permette di distanziare ancora di più le operazioni di acquisto e vendita, e serve quindi di base alla speculazione [<=]). In un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve evidentemente prodursi una crisi. A prima vista sembra quindi che la crisi, nel suo complesso, sia una crisi creditizia e monetaria, trattandosi della convertibilità dei titoli in denaro. Se, per la maggior parte, i titoli rappresentano acquisti e vendite reali, esse hanno tuttavia assunto unestensione di gran lunga superiore al bisogno sociale e sono in definitiva la base di tutta la crisi.
Una massa enorme di questi titoli rappresenta soltanto affari truffaldini che vengono ora finalmente a galla e scoppiano, o rappresentano speculazioni fatte con capitali altrui e non riuscite, o ancòra capitali-merce deprezzati e del tutto invendibili, oppure riflussi che non possono più attuarsi. In quanto questi titoli obbligazionari circolano in borsa come capitale monetario, il loro prezzo diminuisce con laumento dellinteresse [<=] monetario; esso diminuisce inoltre a causa della mancanza generale di credito, che costringe il loro proprietario a svenderli in massa sul mercato per procurarsi denaro. Per le azioni, questo prezzo diminuisce, in parte a causa della riduzione del loro rendimento, in parte perché le imprese che esse rappresentano hanno troppo spesso carattere fittizio. Tutto questo sistema artificiale di ampliamento del processo di riproduzione non può naturalmente essere risanato per il fatto che una banca fornisca in carta a tutti gli speculatori il capitale che fa loro difetto. Del resto qui si presenta tutto deformato, perché in questo mondo di carta non appaiono mai il prezzo reale e i suoi reali elementi, ma soltanto denaro sonante, valute, banconote, titoli, ecc. Questa deformazione è soprattutto visibile in quei centri in cui confluiscono tutte le operazioni finanziarie, cosicché il processo nel suo insieme sfugge alla comprensione, ed è meno sensibile invece nei centri di produzione.
Fin dallinizio le grandi banche, agghindate di denominazioni nazionali, non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Non bastava che la banca desse con una mano per aver restituito di più con laltra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino allultimo centesimo che aveva dato: ciò dimostra che effetto facesse limprovviso emergere di quella genìa di bancocrati, finanzieri, redditieri, mediatori, agenti di cambio e lupi di borsa.
Molto divertente è vedere come queste persone considerino in realtà il denaro pubblico come loro proprietà, e credano di avere diritto alla costante convertibilità dei titoli da essi posseduti: è còmpito del legislatore e della banca centrale essi dicono far sì che tali titoli siano sempre convertibili, eliminare per legge la possibilità che essi possano diventare inconvertibili. Può accadere che un qualsiasi singolo capitalista possa ritirare dalla circolazione diversi miliardi in titoli e sottrarre così il denaro al mercato, creando un imbarazzo di estrema gravità!
Con i debiti pubblici [<=] è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dellaccumulazione di questo o quel popolo. Parecchi capitali che oggi si presentano negli Usa senza fede di nascita sono sangue di bambini che solo ieri è stato capitalizzato altrove. Il sovraccarico dimposte non è un incidente, ma anzi è il principio.
Il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno. Sistema coloniale, debito pubblico, peso fiscale, protezionismo, guerre commerciali, ecc., tutti questi rampolli del periodo della manifattura crescono come giganti nel periodo dinfanzia della grande industria.
[k.m.]
(le pagine di Marx sono tratte soprattutto dal Capitale e alcune dai Lineamenti; specificamente: KI. 13,7; 20; 24,6; 25 K.II. 4; 14 K.III 2; 5; 8; 14; 17; 19; 20; 22; 27; 30; 33; 38; 41; 49; 50; 51 LF.VII,59ss.)
Mercato mondiale # 2
(contraddizioni interimperialistiche)
Nella società capitalistica la guerra [<=] non è altro che uno dei metodi della concorrenza [<=] capitalista, quale si esplica sul piano delleconomia mondiale. Perciò, la guerra è una legge immanente di una società che produce sotto la pressione delle cieche regole di un mercato mondiale dallo sviluppo caotico, e non di una società che disciplini coscientemente il processo di produzione e di scambio.
Internazionalizzazione della vita economica non significa internazionalizzazione degli interessi capitalistici. Linternazionalizzazione della vita economica può inasprire, e inasprisce difatti al massimo grado, lantagonismo esistente tra gli interessi dei vari gruppi nazionali della borghesia [<=]. Il vero è che lo sviluppo degli scambi commerciali internazionali non implica affatto un rafforzamento della solidarietà tra i gruppi che vi sono interessati: al contrario, può essere accompagnato da una esasperazione della concorrenza, da una lotta per la vita o la morte.
Lo stesso si può dire dellesportazione del capitale [<=]. Anche in questo campo, non si ha sempre una coincidenza di interessi: anzi, la concorrenza per la conquista di aree di investimento del capitale può diventare estremamente acuta. Solo in un caso si può parlare, con certezza, di solidarietà di interessi: nel caso, cioè, di una compartecipazione o cofinanziamento, ossia quando si costituisce una proprietà [<=] collettiva di capitalisti di vari paesi su uno stesso oggetto, grazie al possesso comune di titoli azionari. In tal caso si forma una vera e propria Internazionale dellOro, dove non cè solo dellaffinità, ma addirittura una identità di interessi. Però, accanto a questo processo, lo sviluppo economico crea automaticamente anche una tendenza, inversa, alla nazionalizzazione degli interessi capitalistici, e lintera società umana, sotto il pesante giogo del capitale mondiale, paga a questa contraddizione il suo tributo di inauditi tormenti, di sangue e di vergogna.
[n.b.]
(da Imperialismo ed economia mondiale)
Merce
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con lanalisi della merce. La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, p. es. il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è quindi un valore duso, ossia un bene. I valori duso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare, i valori duso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio. Ma, se si prescinde dal valore duso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi allinfuori di una medesima spettrale oggettività, duna semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose rappresentano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza-lavoro umana, è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci.
Una cosa può essere valore duso senza essere valore. Il caso si verifica quando la sua utilità per luomo non è ottenuta mediante il lavoro: aria, terreno vergine, praterie naturali, legna di boschi incolti, ecc. Una cosa può essere utile e può essere prodotto di lavoro umano senza essere merce. Chi soddisfa con la propria produzione il proprio bisogno, crea sì valore duso, ma non merce. Per produrre merce, deve produrre non solo valore duso, ma valore duso per altri, valore duso sociale. E non solo per altri semplicemente. Per divenire merce il prodotto deve essere trasmesso allaltro, a cui serve come valore duso, mediante lo scambio. E, infine, nessuna cosa può essere valore, senza essere oggetto duso. Cose che in sé e per sé non sono merci, p. es., coscienza, onore, ecc., dai loro possessori possono essere considerate in vendita per denaro e così ricevere la forma di merce, mediante il prezzo loro attribuito. Così Marx spiega fin dalle primissime righe della prima sezione del primo libro del Capitale quale sia il carattere dominante della merce nella forma di società che noi dobbiamo considerare: poiché sapere per prima cosa con quale oggetto reale si ha a che fare è il solo modo scientificamente corretto di procedere nellanalisi e nella comprensione di ciò che si vuole spiegare, ed eventualmente trasformare. Altrimenti ci si rifugia nel peggiore romanticismo, acconciandosi a coccolarsi in unautoipnosi, consolatoria forse, ma frustrante per quanto si palesa essere imbelle e incapace di produrre qualsiasi cambiamento nel senso sognato e desiderato. Né potrebbe essere altrimenti, giacché quando si combatte un nemico sconosciuto, o pure se si cerca semplicemente di sfuggirgli, si fa un fracasso senza costrutto, confondendo mulini a vento con giganti mostruosi, e perdendo così ogni determinazione effettivamente conflittuale, o perfino contrattuale.
Gli è che in questi (ultimi) tempi lasinistra non di classe più o meno avvitata nel nuovismo, ma altresì radicata in una fondamentale pregressa e datata ignoranza tradizionale del marxismo si sta producendo in sortite vieppiù preoccupanti. Le categorie elementari semplici, sopra ricordate, che Marx espresse intorno alla merce, sono assolutamente ignorate. Da più parti, infatti, la forma di merce, che si presenta nella società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, viene unilateralmente rimossa. Allora, cè chi sogna di fuoriuscire-dal-mercato, verosimilmente da sé solo o con pochi amici; chi, perciò, ritiene di poter produrre valori-duso-immediati (e non già nelle accezioni previste ampiamente da Marx stesso), magari pel tramite di lavori-socialmente-utili (o necessari o dilettevoli), presumibilmente rinchiudendosi con i pochi amici di cui sopra in una sorta di riserva indiana autoghettizzante (come se essere utile, nellaccezione che a ciò è conferita dalla società esistente, che è la sola accezione che abbia senso, non fosse condizione essenziale di ogni lavoro che produce merci); chi, ancora, presume di sé grande saggezza asserendo, tanto perentoriamente quanto imprudentemente, che il capitale ormai produce merce-senza-valore-duso; o chi, infine, col conforto dei sogni di tanti più numerosi amici, proclama ad alta voce che questo o quellaltro (salute, istruzione, casa, ecc.) non è merce ciurlando deontologicamente con una negazione ontologica, affatto illusoria e volontaristica, laddove al più occorrerebbe esprimersi sommessamente con un dover non dover essere, di cui peraltro si richiede argomentata motivazione scientifica sulla base della conoscenza preliminare della realtà delle cose da considerare.
È dunque questa lignoranza dei caratteri fondamentali semplici della merce. In nome di questignoranza è dato leggere sempre più sovente su giornali, riviste, documenti e manifesti, in un crescendo che muove da toni ovattati, e in qualche misura parzialmente giustificabili che listruzione non è una merce, la salute non è una merce, e poi ancora la casa non è una merce, fino al culmine con il lavoro non è una merce. Che tutte codeste determinanti basilari della ricchezza sociale non nascano come merce è fin troppo ovvio: ma, allora, nemmeno il pane o il sale della vita. E che dunque tutte esse, in epoca moderna, nelle società in cui domina il modo di produzione capitalistico, non lo siano diventate o non lo diventino crescentemente è molto meno ovvio. E non solo, poiché è anche profondamente errato. Sullistruzione [<=] in quanto tale, a es., soprattutto nella sua forma pubblica, si può dire che essa sia una ricchezza per la collettività, che rientra in larga misura nella rubrica delle condizioni generali della produzione, di cui lo stato si fa carico per conto del capitale quando questo non è ancora in grado di sopportarne gli oneri in confronto ai vantaggi che può trarne. Ma già quando il capitale stesso ha urgenza e capacità tali per passare alla formazione diretta di forza-lavoro [<=] variamente qualificata per le proprie necessità, la trasformazione dellistruzione in merce è cosa fatta: a fronte della qual cosa, storicamente necessaria, il proletariato proprietario della forza-lavoro medesima può solo, prendendo coscienza [<=] di questa realtà, rivendicare nel salario sociale [<=], quale valore di riproduzione della propria capacità di lavoro, quanto gli occorre per riportare giornalmente senza problemi sul mercato [<=] quella peculiare merce [Brecht notava con sarcasmo che perfino per diventare buoni marxisti, prima della guerra, non bastavano 25 mila marchi-oro, circa 200 mln di lire attuali!]. Tutto ciò senza contare che, anche per listruzione fornita dallo stato, non è affatto indifferente per le famiglie di lavoratori la spesa, a essa collegata, in merci necessarie alluopo (libri, trasporti, accessori vari ecc., oltre alle tasse di iscrizione e al mancato guadagno per eventuali lavori che si potrebbero fare nel tempo corrispondente).
Un ragionamento analogo, e ancor più mercificato va fatto, e saputo, a proposito della salute, laddove lestensione dellattività capitalistica alla vendita di prestazioni sanitarie, oltreché di medicinali e di altri materiali medicali, è sotto gli occhi di tutti. Dunque occorre solo rivendicare qualità e accessibilità di tali servizi, sia includendo anche quegli oneri nei costi di riproduzione della forza-lavoro sia imponendo prezzi politici per siffatte merci. Il delirio diventa preoccupante quando il sogno, piccolo-borghese, per la casa fa fuggire lasinistra di fronte alla realtà di una delle merci più appetite dal capitale: e la faccenda non è recente, se il povero Engels ha polemizzato a lungo e invano sulla questione delle abitazioni. Cosicché, negando unilateralmente alla casa il carattere di merce di sussistenza, cade ogni lotta per ottenere il potere dacquisto necessario alla bisogna, e si lasciano i proletari in balìa di prezzi di acquisto o di affitto assolutamente insostenibili. Il massimo di oniricità ma su tale tema occorre soffermarsi dettagliatamente, nonostante le ripetute volte in cui esso è già stato da noi affrontato si raggiunge sulla pretesa negazione del lavoro (ossia della forza-lavoro) come merce: per sembrar più umani si nega ai lavoratori, addossandone le colpe al contratto di lavoro [<=], lunico loro valore, fonte di ricchezza.
[gf.p.]
Microcredito
(macrosfruttamento)
Da sempre il rimedio alla
povertà sociale è stato lelemosina. Inoltre, come
il capitalismo ha stabilizzato il debito pubblico, privata
ha invece custodito la ricchezza, e conseguentemente la facoltà
di dare o avere credito. Questa, nella storia, la società
organizzata dal dominio di classe. Il rimedio ad uno strappo è
sempre un rammendo, o una toppa (vedi le varie tasse sui
poveri). Ma se il tessuto è liso, lo strappo diventa uno
squarcio e compromette quello per intero. Magari, quella
fenditura locale sta a preannunciare un cedimento globale.
Non solo nellanalogia, o in astratto.
Al cimitero londinese, sullepitaffio
della tomba di Robert Owen, tra gli altri indubbi meriti
menzionati, si può leggere il fine delle sue azioni:
laspirazione ad un più elevato stato sociale
mediante la composizione degli interessi tra capitale e
lavoro. La costante che ha animato il socialismo
utopistico può riassumersi con le sue stesse parole:
Mia intenzione ... era quella di mutare le condizioni di
vita della gente, le cui circostanze esercitavano
uninfluenza negativa sul carattere dellintera
popolazione ... La comunità era consegnata allo squallore e il
vizio e limmoralità erano mostruosamente in
estensione.
Di qui i tentativi delle riforme sociali tra
cui, per ciò che qui interessa, la cooperazione, lauto
aiuto etico, la fiducia nellaltro, (nellhonor
system in cui però si riversava easy
money), lEquitable labor exchange
(ele, il cui presupposto si fondava su uno scambio equo di
prodotti, basati sul principio di lavoro a fronte di lavoro),
lEquitable banks of exchange (i cui
buoni-lavoro però trovavano accettazione solo
allinterno dellele), ecc.
Circa due secoli più tardi, il premio Nobel
per la pace Muhammad Yunus si pregia di affermare: Nel
1977 non avevamo nessuna idea di come gestire una banca dei
poveri. Dovevamo imparare tutto da zero [M. Yunus, Il
banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1998]. Sembra
proprio una disdicevole ignoranza dello sviluppo capitalistico
nella storia europea o, al contrario, un furbesco ricavare
dallinsegnamento di questo, negato a parole, la ricetta
speciale della massificazione del credito nel secolo xx e xxi. Il
doveroso riferimento a Owen cerca di ristabilire una distanza tra
gli intenti, sinceri e generosamente umanitari, di quello che fu
il socialismo ottocentesco fallito e la sua
appropriazione di facciata, ma ragionevolmente
capitalistica, a mascheramento di profitti e interessi bancari.
La Grameen bank (sorta in Bangladesh
negli anni 80, unitamente a Fondi etici in Usa e Gran
Bretagna), da 42 persone cui nel 76 furono prestati 27 $,
conta oggi più di 7 milioni di clienti e 2.000 mrd $ di
movimento; è inoltre diventata la seconda banca in Bangladesh
oltre ad essere presente in ben 57 Paesi. Eppure questa
banca dei poveri si comporta esattamente
allopposto delle altre banche dichiara Yunus. Al
posto di grandi crediti li fornisce minimi (il massimo dichiarato
è di 20 mila $, il medio di 309 $), non chiede garanzie né
avalli ma si basa sulla fiducia, presta
preferenzialmente a donne (94% o 95%) invece che a uomini, non
trae profitti ma consente a un reddito più proficuo, non
ha a che fare con il capitale finanziario ma con il
capitale umano, risponde a bisogni sociali, si batte
contro le imprese basate sulla cupidigia e per la riduzione
dellintervento statale, si autodefinisce tra pubblico e
privato, come settore privato guidato dallimpegno
sociale, ecc.
I poveri assicura Yunus hanno
imparato a muoversi in una logica di mercato; non sono loro, ma
noi che andiamo incontro ai bisognosi. Attraverso questi viene
così a maturarsi un nuovo diritto umano:
linalienabile diritto al credito, dal quale poi
si ottiene un profitto individuale e
collettivo. Un arcano, in questo sistema!
Con la rivoluzione del
microcredito, si vorrebbe mostrare che il vero obbiettivo è
leradicazione della povertà, non il profitto. Alcuni, da
beneficiari, vengono inseriti in qualità di azionisti con i loro
depositi, con cui la banca si finanzia. La Grameen è ora una holding
cui fanno capo diciassette istituzioni nei campi delle
comunicazioni, dellinformatica, dellabbigliamento,
dellistruzione [cfr. in rete la Repubblica].
Progetti di microfinanziamenti sono ora
inseriti anche allinterno della Banca Mondiale, e tale
strumento è diffuso in oltre un centinaio di nazioni sul modello
della Grameen. Questa, quale garanzia di copertura dei prestiti,
si serve dei gruppi di solidarietà (in genere
del villaggio in cui viene erogato il credito, pena la non
erogazione di ulteriori prestiti ad altri, in caso di mancata
restituzione). Il recupero crediti sembra si aggiri sul 98%, il
più alto del mondo. Il criterio basilare, è quello per cui
anche un poverissimo (si escludono dal diritto di cui
sopra solo quelli che vivono con 1 $ al giorno) ha la
possibilità di sviluppare ricchezza.
Ciò che pudicamente si omette è che a
creare ricchezza è sempre la forza-lavoro libera
con qualsivoglia livello di sussistenza e che una
quota, anche se minima di questa, viene appropriata in questo
caso dal creditore munifico sotto forma dinteresse, anche
se minimo. Non a caso si insiste sulla conquista
dellautonomia microimprenditoriale o del lavoro
indipendente (chi ottiene un prestito che mandi i figli a
scuola, non faccia o subisca ingiustizie,
ecc.). Solo la libera vendita della propria forza-lavoro
garantisce la libera (da ogni obbligo) requisizione del
mini-plusvalore prodotto, ma in quantità tanto più estensibili
quanto più aumentano i poveri-laboriosi del mondo. Se il
capitale non può non produrre sempre più poveri, questi devono
pur costituire una risorsa sempre più in crescita! Yunus ha trovato
questa scorta di forza-lavoro sociale, disponibile
allipersfruttamento da parte degli usurai, o schiava di sé
stessa, e lha arruolata nei più modesti canoni dello
sfruttamento capitalistico, compatibile con una sussistenza
minima già garantita dalla regolazione sociale.
Compatibile cioè con il recupero crediti
ragionevolmente possibile. Larcano del suo
non sfruttamento allora come Yunus ama
proclamare va confrontato con lincremento
vertiginoso del suo capitale monetario e delle sue filiali
mondiali.
Altre strutture di microfinanza legate a
microattività potenziali o già in atto sono operative mediante ong,
onlus, organizzazioni senza fini di lucro, istituti di
carità, governi, agenzie ecc. Attraverso questi istituti si
viene a conoscenza delle condizioni di vita e del miglioramento
possibile dei poveri, affetti dalla sindrome della
dipendenza da aiuto, cui si provvede con meccanismi
redistributivi. In questi ed altri programmi di lotta alla
povertà, viene a registrarsi un incremento di siffatte
istituzioni, che però lasciano inalterato lobiettivo
propostosi. Il miglioramento obiettivo, dovuto al microcredito,
di alcune situazioni singole o di piccoli gruppi con investimento
lavorativo, non incide infatti sulle cause strutturali della
povertà, che continuamente viene riprodotta. Se cioè per alcuni
singoli è possibile un minimale o parziale miglioramento dei
livelli di sussistenza, ciò rientra sempre nel continuo fluttuare
o stagnare del loro essere esercito di riserva lavorativa,
con un massimo tempo di lavoro e un minimo di salario
[Marx, Il capitale, I, 3] proprio della
sovrappopolazione relativa prodotta dalle leggi
capitalistiche. La vera utilità della microfinanza è
riservata invece al capitale, che con esso razionalizza in modo
capillare la sua accumulazione di plusvalore. Ad esempio, nella
predisposizione della itticoltura in Bangladesh (1986), di cui
Yunus va fiero, con la sottrazione di risorse idriche
allabbandono e quindi a disastri ambientali - o alla
gestione inefficiente di mafie locali, è stato realizzato un
investimento profittevole, unitamente ad un aumento delle risorse
alimentari sociali. Leliminazione degli sprechi, di una
ricchezza cioè appropriata senza reinvestimento produttivo, e
acquisita invece entro il meccanismo di
unautovalorizzazione costante, ha permesso
lestensione del mercato capitalistico funzionale a
unaddizionale accumulazione di plusvalore altrimenti
irrecuperabile. Lobiettivo dichiarato di Yunus fu infatti
quello di sviluppare uneconomia di mercato vincente. Anche
il microcredito, in altri termini, è costretto a
migliorare condizioni di vita sociale nella misura in cui il suo
unico fine è lappropriazione di plusvalore, fin dove
possibile. Non il contrario.
Casi in cui è possibile una verifica di
quanto detto si hanno nelle motivazioni che sconsigliano
lerogazione dei crediti, laddove questi non impegnerebbero
direttamente i beneficiari in attività lavorative, bensì
servirebbero a combattere il degrado sociale o ambientale. Un
solo esempio emblematico: in Etiopia, dove su quasi 75 milioni di
abitanti circa il 50% (al 2004) vive sotto la soglia di
povertà, la Yessaca saving and credit
cooperative ha avviato nel 97 una serie di corsi
formazione, con assistenza economica e logistica per ragazzi, con
lobiettivo di poter rendere autonomi e autosufficienti i
beneficiari, una volta usciti dal programma [cfr. Rapporto
dello studio di fattibilità (3.7. 2006) per
limplementazione di un programma per la cooperativa Yessaca].
Nonostante il fine di questa cooperativa, non è risultato essere
il credito lobiettivo della stessa. La valorizzazione degli
individui, la loro socializzazione (ragazzi di strada), la
mancanza di competenze dei componenti (ragazzi tra i 15 e i 24
anni), la predefinizione di regole statutarie, luso dei
prestiti per il consumo, la mancanza di cultura del credito e
quindi lincapacità di restituzione dello stesso entro
tempi pattuiti, ecc., hanno determinato il fallimento del
programma con decisione di non effettuare più prestiti.
Nel febbraio 1997, a Washington, 3000 persone
provenienti da 137 paesi si sono riunite in un vertice mondiale
del microcredito. Nella dichiarazione entusiasta di Hillary
Clinton, promotrice del rapporto di interconnessione e di
interdipendenza degli esseri umani, è utile sottolineare
la sua valutazione del microcredito che si ripercuote
beneficamente sullintera comunità, creando un fertile
terreno perché la democrazia possa vivere e prosperare, e
perché la gente possa avere la speranza nel futuro.
Latouche, nellEconomia senza giustizia (2003), mostra linvoluzione civile e sociale delle società opulente, in cui quindi appare sempre più necessario un cambiamento di tendenza. Leconomia di Comunione con tutte le finanze etiche e commercio equo e solidale vengono visitate come progetti di mistificazione per anime belle, funzionali alla rassicurazione delle coscienze, ma nei fatti interni ai meccanismi di mercato oggettivamente disumani nel senso di cui sopra, con finalità esclusivamente volte alla realizzazione di profitti anche se soggettivamente agiti con intenzionalità solidaristiche. Queste però contribuiscono comunque a trasporre su piani morali e ideali quanto invece attiene alla necessità materiale di leggi economiche, immodificabili alla sola luce della buona volontà. Con leconomista Robert Pollin si può concludere che nei due paesi Bangladesh e Bolivia a più alto tasso di successo del microcredito, la povertà rimane ai primi livelli del pianeta. Il premio Nobel assegnato a Yunus (1,4 milione di $) sembra sia il premio alla sua lotta al neoliberismo. Da quando il Fmi e la Banca mondiale hanno reso il microcredito un vero e proprio impero, questo è stato definito un macro-racket. Lindebitamento ha raggiunto tassi molto alti e le sanzioni per le inadempienze sono selvagge. I cittadini indebitati vengono lasciati soli dai rispettivi governi e spesso si rivolgono di nuovo agli usurai per ripagare i debiti contratti con le banche. La nuova industria del microcredito, sorta dal bisogno sociale, di questo si nutre agli ordini di un profitto privato, generatore di nuovo impoverimento sociale.
[c.f.]
Militarismo
(guerra e classe operaia)
Già il congresso di Bruxelles dellInternazionale, nellanno 1868, indica misure pratiche per impedire la guerra. Nella sua risoluzione è detto fra laltro: che i popoli possono già attualmente limitare il numero delle guerre, opponendosi a coloro che le guerre le fanno e dichiarano: che questo diritto spetta in modo particolare alle classi operaie, che sono quasi le sole che vengono chiamate al servizio militare e che per questa ragione sono le sole che possano dare una sanzione; che a tale scopo esse hanno a disposizione un mezzo pratico, legale e di immediata realizzazione; che la società non potrebbe infatti continuare a vivere se la produzione venisse a cessare per qualche tempo. I lavoratori-produttori non avrebbero quindi che da cessare di produrre per rendere impossibili ai governi personali e dispotici di porre in atto le loro imprese; il congresso di Bruxelles dellAssociazione internazionale dei lavoratori dichiara di protestare energicamente contro la guerra e invita tutte le sezioni dellassociazione nei singoli paesi, come pure tutte le società operaie e le organizzazioni operaie senza distinzione, ad agire con il massimo impegno onde evitare una guerra tra popolo e popolo che, al giorno doggi, in quanto guerra fatta fra lavoratori, quindi fratelli e cittadini, sarebbe da ritenersi una guerra civile. Il congresso raccomanda ai lavoratori specialmente la sospensione del lavoro nel caso che nei loro rispettivi paesi scoppiasse una guerra.
Lascio da parte le altre numerose risoluzioni della vecchia internazionale e passo al congresso della nuova Internazionale. Il congresso di Zurigo del 1893 dichiarava: La posizione dei lavoratori nei confronti della guerra è nettamente definita dalle conclusioni del congresso di Bruxelles sul militarismo. La socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale deve opporsi in tutti i paesi e con tutte le sue forze alle brame schiavistiche della classe dominante; rinsaldare sempre più fermamente il legame di solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi; operare senza tregua per leliminazione del capitalismo che divide lumanità in due campi nemici e aizza i popoli gli uni contro gli altri. Con il superamento del dominio di classe scompare anche la guerra. La caduta del capitalismo è la pace del mondo.
Il congresso di Londra del 1896 dichiara: Soltanto la classe operaia può avere la seria volontà e conseguire il potere di stabilire la pace nel mondo. A tale scopo chiede:
- contemporanea abolizione degli eserciti permanenti in tutti gli Stati e istituzione dellarmamento popolare;
- istituzione di un tribunale arbitrale internazionale, le cui decisioni abbiano forza di legge;
- decisione definitiva su guerra o pace direttamente da parte del popolo, nel caso che i governi non intendessero accettare la decisione del tribunale arbitrale.
Il congresso di Parigi del 1900 consiglia specialmente come mezzo pratico di lotta contro il militarismo che i partiti socialisti intraprendano ovunque leducazione e lorganizzazione dei giovani allo scopo di combattere il militarismo e proseguano nello sforzo con il massimo fervore.
Mi permettano ancora di riportare un passo importante della risoluzione del congresso di Stoccarda del 1907, nel quale è raccolta con grande plasticità tutta una serie di misure pratiche da prendersi da parte della socialdemocrazia nella lotta contro la guerra. È detto: In realtà, a partire dal congresso internazionale di Bruxelles il proletariato ha intrapreso le più svariate forme di azione nella sua lotta instancabile contro il militarismo con crescente energia e successo, rifiutando i mezzi per larmamento di terra e di mare, tentando di democratizzare lorganizzazione militare, nellintento di evitare lo scoppio di guerre o di farle cessare, nonché in quello di sfruttare gli squilibri della società provocati dalla guerra a vantaggio della liberazione della classe operaia: così specialmente laccordo dei sindacati inglesi e francesi dopo lincidente di Fasciola, per assicurare la pace e il ristabilimento di amichevoli relazioni tra Francia e Inghilterra; latteggiamento dei partiti socialisti al parlamento tedesco e a quello francese nel corso della crisi marocchina; le manifestazioni avvenute allo stesso scopo a opera dei socialisti francesi e tedeschi; lazione comune dei socialisti austriaci e italiani che si riunivano a Trieste per evitare un conflitto tra i due Stati; inoltre, lintervento energico delle masse operaie socialiste svedesi al fine di impedire un attacco alla Norvegia; da ultimo leroico sacrificio e le lotte di massa degli operai e dei contadini socialisti di Russia e Polonia per opporsi alla guerra scatenata dallo zarismo, per farla cessare e per utilizzare la crisi per la liberazione del paese e delle classi lavoratrici.
Tutti questi sforzi testimoniano la potenza crescente del proletariato e il suo crescente impulso ad assicurare il mantenimento della pace mediante interventi decisivi.
[r.l.]
(da Rosa Luxemburg, Autodifesa
per laccusa di incitazione alla diserzione, II sezione penale del Tribunale di Francoforte, febbraio 1914)
Miseria delleconomia #1
(il metodo)
Gli economisti hanno un singolare modo di
procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni,
quelle dellarte e quelle della natura. Le istituzioni del
feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia
sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti
assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorta di
religioni. Ogni religione che non sia la loro è
uninvenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione
di Dio. Dicendo che i rapporti attuali i rapporti della
produzione borghese sono naturali, gli economisti fanno
intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la
ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle
leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi
naturali indipendenti dallinfluenza del tempo. Sono leggi
eterne che debbono sempre reggere la società. Così cè
stata storia, ma ormai non ce nè più. Cè stata
storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in
queste istituzioni feudali si trovano rapporti di produzione del
tutto differenti da quelli della società borghese, che gli
economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni. Anche
il feudalesimo aveva il suo proletariato: i servi della gleba, in
cui erano racchiusi i germi della borghesia. Anche la produzione
feudale aveva elementi antagonistici; che, se si vuole, possono
essere ben designati come il lato buono ed il lato
cattivo del feudalesimo, senza pensare che è quello
cosiddetto cattivo che finisce sempre con lavere il
sopravvento. È, il lato cattivo a produrre il movimento che fa
la storia, determinando la lotta. Se allepoca del regime
feudale gli economisti, entusiasmati dalle virtù cavalleresche,
dalla bella armonia fra i diritti e i doveri, dalla vita
patriarcale delle città, dalle condizioni prospere
dellindustria domestica nelle campagne, dallo sviluppo
dellindustria organizzata in corporazioni, e corpi
dei consoli e maestri darte, ecc., infine da tutto ciò che
costituisce il lato buono del feudalesimo, si fossero posti il
problema di eliminare tutto ciò che offusca questo quadro
servitù, privilegi, anarchia che sarebbe avvenuto?
Sarebbero stati annullati tutti gli elementi che costituivano la
lotta e si sarebbe soffocato in germe lo sviluppo della
borghesia. Insomma, si sarebbe posto lassurdo problema di
eliminare la storia.
Quando la borghesia lebbe vinta, non vi fu più questione
né del lato buono né di quello cattivo del feudalesimo. Ad essa
andarono le forze produttive che si erano sviluppate per mezzo
suo sotto il regime feudale. Tutte le vecchie forme economiche,
le relazioni di diritto civile loro corrispondenti, lo stato
politico che era lespressione ufficiale dellantica
società civile, vennero spezzati. Così, per ben giudicare la
produzione feudale, è necessario considerarla come un modo di
produzione fondato sullantagonismo. Bisogna mostrare come
la ricchezza veniva prodotta allinterno di questo
antagonismo, come le forze produttive si sviluppavano di pari
passo allantagonismo delle classi, come una di queste
classi, il lato cattivo, linconveniente della società,
andasse sempre crescendo finché le condizioni materiali della
sua emancipazione non furono pervenute al punto di maturazione.
Non è tutto ciò sufficiente per dire che il modo di produzione,
i rapporti in cui si sviluppano le forze produttive, sono
tuttaltro che leggi eterne, ma corrispondono invece a un
grado di sviluppo determinato degli uomini e delle loro forze
produttive, e che un mutamento sopravvenuto nelle forze
produttive degli uomini comporta necessariamente un mutamento
nei loro rapporti di produzione? Poiché innanzi tutto importa
non essere privati dei frutti della civiltà, delle forze
produttive acquisite, è necessario infrangere le forme
tradizionali nelle quali quelle sono state prodotte. Da questo
momento, la classe rivoluzionaria diviene conservatrice.
La borghesia ha inizio con un proletariato che a sua volta è un
resto del proletariato dei tempi feudali. Nel corso del suo
sviluppo storico, la borghesia svolge necessariamente il suo
carattere antagonistico, che allinizio si trova ad essere
più o meno dissimulato, non esiste che allo stato latente. A
misura che la borghesia si sviluppa, si sviluppa nel suo seno un
nuovo proletariato, un proletariato moderno; si sviluppa una
lotta fra la classe proletaria e la classe borghese, lotta che,
prima di essere sentita dalle due parti, individuata, valutata,
compresa, ammessa e infine proclamata ad alta voce, non si
manifesta, allinizio, che attraverso conflitti parziali e
momentanei, attraverso episodi di sovversivismo. Daltra
parte, se tutti i membri della moderna borghesia hanno i medesimi
interessi in quanto formano una classe contrapposta a
unaltra, hanno però interessi opposti, antagonistici, in
quanto si trovano gli uni contrapposti agli altri. Questa
opposizione di interessi deriva dalle condizioni economiche della
loro vita borghese. Di giorno in giorno diventa dunque più
chiaro che i rapporti di produzione entro i quali si muove la
borghesia non hanno un carattere unico, semplice, bensì un
carattere duplice; che negli stessi rapporti entro i quali si
produce la ricchezza, si produce altresì la miseria; che entro
gli stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produttive,
si sviluppa anche una forza produttrice di repressione; che
questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la
ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare
continuamente la ricchezza di alcuni membri di questa classe, e a
patto di dar vita a un proletariato ognora crescente. Più il
carattere antagonistico viene in luce, più gli economisti, i
rappresentanti scientifici produzione borghese, entrano in
contraddizione con le loro stesse teorie; e nascono diverse
scuole.
Abbiamo così gli economisti fatalisti, che nella loro
teoria sono indifferenti a ciò che essi chiamano gli
inconvenienti della produzione borghese, come lo sono, nella
pratica, i borghesi di fronte alle sofferenze dei proletari, che
li aiutano ad acquistare le loro ricchezze. In questa scuola
fatalista vi sono i classici e i romantici. I classici, come Adam
Smith e Ricardo, rappresentano una borghesia che, lottando ancora
contro i resti della società feudale, opera solo per epurare i
rapporti economici dai residui feudali, per aumentare le forze
produttive e dare un nuovo impulso allindustria e al
commercio. Il proletariato, che partecipa a questa lotta,
assorbito in questo lavoro febbrile, non ha che sofferenze
accidentali, passeggere, che esso stesso considera come tali.
Gli economisti come Adam Smith e Ricardo, che sono gli storici di
questepoca, hanno soltanto la missione di dimostrare come
si acquisti la ricchezza entro i rapporti di produzione borghesi,
di formulare in secondo luogo questi rapporti in categorie, in
leggi, di dimostrare infine quanto queste leggi, queste
categorie, siano, per la produzione delle ricchezze, superiori
alle leggi e alle categorie della società feudale. La miseria,
ai loro occhi, non è che il dolore che accompagna ogni parto,
nella natura come nellindustria.
I romantici appartengono alla nostra epoca, in cui la
borghesia si trova in diretta opposizione al proletariato, in cui
la miseria si produce con unabbondanza pari alla
ricchezza. Gli economisti posano allora a fatalisti annoiati,
che, dallalto della loro posizione, gettano un superbo
sguardo di disdegno sugli uomini-macchine che fabbricano le
ricchezze. Essi ripetono tutte le spiegazioni già date dai loro
predecessori, ma lindifferenza, che per questi era
ingenuità, diviene in loro civetteria.
Viene appresso la scuola umanitaria, che si prende a cuore
il lato cattivo degli attuali rapporti di produzione. Questa
scuola cerca, per scarico di coscienza, di trovare almeno dei
palliativi ai contrasti reali: deplora sinceramente le miserevoli
condizioni del proletariato, la concorrenza sfrenata dei borghesi
fra loro; consiglia agli operai di essere sobri, di lavorare bene
e di mettere al mondo pochi figli; raccomanda ai borghesi di
mettere nella produzione un ardore ponderato. Tutta la teoria di
questa scuola si basa su interminabili distinzioni fra la teoria
e la pratica, fra i princìpi e i risultati, fra lidea e
lattuazione, fra il contenuto e la forma, fra
lessenza e la realtà, fra il diritto e il fatto, fra il
lato buono e quello cattivo.
La scuola filantropica poi è la scuola umanitaria
perfezionata. Essa nega la necessità dellantagonismo; vuol
fare di tutti gli uomini dei borghesi; vuole realizzare la
teoria, per quel tanto che essa si distingue dalla pratica e non
racchiude antagonismi. È superfluo dire che nella teoria è
facile fare astrazione dalle contraddizioni che si incontrano ad
ogni istante nella realtà. Questa teoria sarebbe dunque la
realtà idealizzata. I filantropi vogliono insomma conservare le
categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza
lantagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile.
Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese e sono
più borghesi degli altri.
Come gli economisti sono i rappresentanti scientifici
della classe borghese, così i socialisti e i comunisti
sono i teorici della classe proletaria. Finché il proletariato
non si è ancora sufficientemente sviluppato per costituirsi in
classe, e di conseguenza la lotta del proletariato con la
borghesia non ha ancora assunto un carattere politico, e finché
le forze produttive non si sono ancora sufficientemente
sviluppate in seno alla stessa borghesia, tanto da lasciar
intravedere le condizioni materiali necessarie
allaffrancamento del proletariato e alla formazione di
una società nuova, questi teorici non sono che utopisti, i
quali, per soddisfare i bisogni delle classi oppresse,
improvvisano sistemi e rincorrono le chimere di una scienza
rigeneratrice. Ma a misura che la storia progredisce e con essa
la lotta del proletariato si profila più netta, essi non hanno
più bisogno di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo
rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai loro occhi e
farsene portavoce. Finché cercano la scienza e costruiscono solo
dei sistemi, finché sono allinizio della lotta, nella
miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato
rivoluzionario, sovvertitore, che rovescerà la vecchia società.
Ma quando questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal
movimento storico e al quale si è associata con piena
cognizione di causa ha cessato di essere dottrinaria per
divenire rivoluzionaria.
[k.m.]
Miseria delleconomia #2
(antitesi e tesi, antidoto e ipotesi)
Proudhon è un altro dottor Quesnay. È il
Quesnay della metafisica delleconomia politica. Ora la
metafisica, la filosofia tutta intera, si riassume, secondo
Hegel, nel metodo. Vediamo ora a quali modificazioni Proudhon
sottopone la dialettica di Hegel applicandola alleconomia
politica. Per lui, per Proudhon, ogni categoria economica ha due
lati, luno buono, laltro cattivo. Egli si prospetta
le categorie come il piccolo borghese si prospetta i grandi
uomini della storia: Napoleone è un granduomo; ha
fatto molto di bene, ma ha fatto anche molto di male. Il lato
buono e il lato cattivo, il vantaggio e lo svantaggio
presi assieme formano, per Proudhon, la contraddizione in ogni
categoria economica. Tutto il problema da risolvere consiste nel
conservare, il lato buono, eliminando quello cattivo.
La schiavitù è una categoria economica come
unaltra, dunque anche essa ha i suoi due lati. Così la
schiavitù, essendo una categoria economica, è sempre stata
nelle istituzioni dei popoli. I popoli moderni non hanno saputo
fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e
lhanno imposta senza maschera al nuovo mondo. A che
ricorrerà Proudhon per salvare la schiavitù? Egli porrà il problema:
conservare il lato buono di questa categoria economica, eliminare
il cattivo.
Hegel non ha problemi da porre: non possiede che la dialettica.
Proudhon, della dialettica di Hegel, non possiede che il
linguaggio. Il movimento dialettico proprio di Proudhon è la
distinzione dogmatica del bene e del male. Prendiamo per un
istante il medesimo Proudhon come categoria. Esaminiamo il suo
lato buono e il suo lato cattivo, i suoi vantaggi e i suoi
inconvenienti. Ciò che costituisce il movimento dialettico è la
coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e il loro
passaggio in una nuova categoria. Basta porsi il problema di
eliminare il lato cattivo, per liquidare di colpo il movimento
dialettico. Al posto della categoria, che si pone e si oppone a
sé stessa per la sua natura contraddittoria, sta Proudhon che si
infervora, si dibatte, si dimena fra i due lati della categoria.
Preso così in un ginepraio donde è difficile uscire con mezzi
leciti, Proudhon spicca un vero e proprio salto che lo trasporta
di colpo in una nuova categoria. È allora che al suo sguardo
stupefatto si svela la serie nellintelletto. Egli
afferra la prima categoria che gli capita e le attribuisce
arbitrariamente la proprietà di rimediare agli inconvenienti
della categoria che vuole purificare. Così le tasse rimediano
a sentire Proudhon agli inconvenienti del
monopolio; la bilancia commerciale agli inconvenienti delle
tasse; la proprietà fondiaria agli inconvenienti del credito.
Certo, dal momento che il processo del movimento dialettico si
riduce al semplice procedimento di opporre il bene al male, di
porre problemi che tendono alleliminazione del male e a
fornire una categoria come antidoto allaltra, le categorie
non hanno più spontaneità; lidea non funziona
più; non ha più vita in sé. Non si pone, né si
decompone più in categorie. La successione delle categorie è
divenuta una sorta di impalcatura. La dialettica non è
più il movimento della ragione assoluta. Non vi è più
dialettica; tuttal più cè solo un po di
morale allo stato puro.
Quando Proudhon parlava della serie nellintelletto,
della successione logica delle categorie, dichiarava
positivamente di non voler fornire una storia secondo
lordine dei tempi, ossia, secondo Proudhon, la
successione storica nella quale le categorie si sono manifestate.
Tutto, allora, secondo lui avveniva nelletere puro della
ragione. Tutto doveva derivare da questo etere per mezzo
della dialettica. Ora che si tratta di mettere in pratica questa
dialettica, la ragione gli vien meno. La dialettica di Proudhon
prende in giro la dialettica di Hegel, ed ecco che Proudhon ci
deve dire che lordine nel quale egli espone le categorie
economiche non è più lordine nel quale esse si generano
luna dallaltra. Le evoluzioni economiche non sono
più le evoluzioni della ragione stessa.
Che cosa ci dà allora Proudhon? La storia reale, ossia, secondo
lintendimento di Proudhon, la successione secondo la
quale le categorie si sono manifestate nellordine
dei tempi? No. La storia quale si svolge nellidea stessa?
Meno ancora. E allora, né la storia profana delle categorie, né
la loro storia sacra! Quale è dunque la storia che egli ci dà?
La storia delle sue proprie, private contraddizioni.
Ammettiamo con Proudhon che la storia reale, la storia secondo
lordine dei tempi, sia la successione storica in cui le
idee, le categorie, i princìpi si sono manifestati. Ogni
principio ha avuto il suo secolo, per manifestarsi. Il principio
dautorità, per esempio, ha avuto lxi secolo, mentre
il principio dellindividualismo ha avuto il xviii secolo.
Di conseguenza in conseguenza, era dunque il secolo che
apparteneva al principio e non il principio al secolo. In altri
termini era il principio a fare la storia e non la storia a fare
il principio. Quando infine, per salvare sia i princìpi che la
storia, ci si domanda perché il tale principio si sia
manifestato nellxi o nel xviii secolo piuttosto che nel tal
altro, ci si trova necessariamente costretti a esaminare
minuziosamente quali fossero gli uomini dellxi secolo,
quali quelli del xviii, quali fossero le rispettive necessità,
le loro forze produttive, il loro modo di produzione, le materie
prime della loro produzione, e quali fossero i rapporti fra uomo
e uomo, risultanti da queste condizioni di esistenza. Ora,
approfondire tutte queste questioni, non significa appunto fare
la storia reale, profana, degli uomini in ciascun secolo,
rappresentare questi uomini come gli autori e
contemporaneamente gli attori del loro dramma? Ma dal momento che
si rappresentano gli uomini come autori e come attori della loro
storia, si è dunque ritornati esattamente, dopo un lungo giro,
al vero punto di partenza, avendo abbandonato i princìpi eterni
donde avevate preso le mosse.
Incamminiamoci con Proudhon per la via traversa. Ammettiamo che i
rapporti economici, considerati come leggi immutabili,
come princìpi eterni, come categorie ideali, siano anteriori
agli uomini vivi e attivi; ammettiamo anche che queste leggi, che
questi princìpi, queste categorie abbiano sonnecchiato fin
dallorigine dei tempi nella ragione impersonale
dellumanità. Abbiamo già visto che con tutte queste
eternità immutabili non cè più storia, cè
tuttal più la storia nellidea, cioè la storia che
si riflette nel movimento dialettico della ragione pura. Ma,
dicendo che nel movimento dialettico le idee non si
differenziano più, Proudhon ha annullato e lombra
del movimento e il movimento delle ombre, per mezzo
delle quali cose sarebbe stato almeno possibile creare un
simulacro della storia. Invece egli imputa alla storia la sua
impotenza personale.
Non è dunque esatto dire, afferma Proudhon filosofo,
che qualche cosa avviene, che qualche cosa si produce:
nella civiltà come nelluniverso tutto esiste, tutto agisce
da sempre... Altrettanto avviene per tutta leconomia
sociale [vol. ii, p. 102]. Tanta è la forza creatrice
delle contraddizioni che agiscono su Proudhon e lo fanno
funzionare, che volendo spiegare la storia egli è costretto a
negarla, volendo spiegare il susseguirsi dei rapporti sociali
egli nega che qualche cosa possa avvenire, E volendo spiegare la
produzione con tutte le sue fasi egli contesta che qualche
cosa possa prodursi.
La ragione umana non crea la verità, che è nascosta
nel fondo della ragione assoluta, eterna. Essa non può che
svelarla. Dunque, essendo anche le categorie economiche verità
scoperte, rivelate dalla ragione umana, dal genio sociale, esse
sono egualmente incomplete e racchiudono il germe della
contraddizione. Prima di Proudhon, il genio sociale non ha visto
che gli elementi antagonistici e non la formula
sintetica nascosti entrambi simultaneamente nella ragione
assoluta. Ma poiché i rapporti economici non fanno che
realizzare sulla terra queste verità insufficienti, queste
categorie incomplete, queste nozioni contraddittorie, sono essi
stessi contraddittori, e presentano due lati, luno buono e
laltro cattivo.
Come lantitesi si trasforma in antidoto così
la tesi diviene ora ipotesi. In Proudhon questo
scambio di termini non ci può più sorprendere. La ragione
umana, che è tutto meno che pura, poiché la sua visuale è
limitata, incontra ad ogni passo nuovi problemi da risolvere.
Ogni nuova tesi, che essa scopre nella ragione assoluta e che è
la negazione della tesi precedente, diventa per essa una sintesi,
che viene accettata abbastanza ingenuamente come la soluzione del
problema in questione. Così questa ragione si dibatte in
contraddizioni sempre nuove, finché, arrivata alla fine di tali
contraddizioni, si accorge che tutte le sue tesi e sintesi non
sono che ipotesi contraddittorie. Nella sua perplessità, la
ragione umana, il genio sociale, ritorna di colpo su tutte
le sue posizioni anteriori e con una sola formula risolve tutti i
suoi problemi.
Questa formula unica, sia detto tra parentesi, costituisce la
vera e propria scoperta di Proudhon. È il valore costituito.
Le ipotesi si fanno solo in vista di uno scopo determinato. Lo
scopo che si proponeva in primo luogo il genio sociale che parla
per bocca di Proudhon era di eliminare ciò che vi è di cattivo
in qualsiasi categoria economica, lasciandone solo il lato buono.
Per lui il bene è il bene supremo, il vero scopo da raggiungere
è leguaglianza. E perché il genio sociale si
proponeva leguaglianza piuttosto che lineguaglianza,
la fraternità, il cattolicesimo, o un qualsiasi altro principio?
Perché lumanità ha realizzato successivamente tante
ipotesi particolari solo in vista di una ipotesi superiore,
che è precisamente leguaglianza. In altre parole:
perché leguaglianza è lideale di Proudhon. Egli
immagina che la divisione del lavoro, il credito, la fabbrica,
tutti i rapporti economici, insomma, siano stati inventati
semplicemente a profitto delleguaglianza, anche se hanno
sempre finito per rivolgersi contro di essa.
Dal fatto che la storia e la finzione di Proudhon si
contraddicono ad ogni pie sospinto, il nostro conclude che
vi è contraddizione. Ma se contraddizione esiste, essa esiste
solo tra lidea fissa di Proudhon e il movimento reale.
Siamo ormai al punto che il lato buono di un rapporto economico
è sempre quello che afferma leguaglianza; il lato cattivo
è quello che la nega e che afferma lineguaglianza. Ogni
nuova categoria è unipotesi del genio sociale, per
eliminare lineguaglianza generata dallipotesi
precedente.
Riassumendo: leguaglianza è lintenzione primitiva,
la tendenza mistica, lo scopo provvidenziale che il
genio sociale ha costantemente dinnanzi agli occhi, pur
aggirandosi entro la cerchia delle contraddizioni economiche.
Così la Provvidenza è la locomotiva che fa marciare
tutto il bagaglio economico di Proudhon meglio assai della sua
ragione pura e nebulosa: ecco la grande parola di cui ci si serve
oggi per spiegare il procedere della storia. In effetti la parola
non spiega nulla. È tuttal più una forma declamatoria,
una maniera come unaltra di parafrasare i fatti. Proudhon
vuole essere la sintesi. Ed è invece un errore composto.
Vuole librarsi come uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei
proletari; e non è che il piccolo borghese, sballottato
costantemente fra il capitale e il lavoro, fra leconomia
politica e il comunismo.
[k.m.]
(Miseria della filosofia)
Miseria o povertà
(dalla fatalità alla coscienza)
Beati voi, o poveri, ché vostro è il regno di Dio [Luca, VI, 20]. Che la povertà si riferisca qui solo allo spirito [come in Matteo] od anche, e magari prevalentemente, allo stato sociale della carne, rimane incerto. La povertà, comunque, la mancanza, reclama il suo opposto, assoluto, in cui perdersi e conciliarsi. In unaltra vita però, questa beatitudine, in un altro regno. Nella cultura ebraica arcaica essa è talmente segno di una giustizia assente, che esige almeno la promessa di un riscatto, garante il divino. Povertà e male ineliminabile dalla storia sembrano qui coincidere; alla sua accettazione e sopportazione restano le sole virtù teologali: fede e speranza suffragate dalla carità.
Nellillustrazione dellarte drammatica Bertolt Brecht propone di togliere al naturalismo lelemento fatalistico [Diari, 3.4.1941]. Basta trattare povertà e stupidità non come dati di fatto ma considerando le loro connessioni e la possibilità di eliminarle.
In questa concezione di unumanità non più legata alla presenzialità del divino per farsi e giustificare sé stessa, ma ormai consapevole del proprio ruolo storico, è utile fare riferimento alle lezioni sulla filosofia del diritto di G.W.F. Hegel. Secondo questanalisi che già comprende quella di A. Smith relativa a La ricchezza delle nazioni il grande principio caratterizzante il mondo moderno è lo sviluppo autonomo delle particolarità. Nellanalisi concettuale delle determinazioni materiali, consolidate e tramandate dallassetto giuridico, si configura, unitamente a quelle particolarità, la sfera della proprietà privata. Questa, successivamente, va considerata in unità allesproprio col quale costituisce lintero, ossia la verità reale. Isolata, questa sfera è limitata, astratta, costituita comè di bourgeois, ovvero di individui privati tutti immersi nei loro interessi particolari. A questo livello non cè comunità politica costituita invece dai citoyens, rappresentanti della libertà e universalità etica e non cè conciliazione. Lo spettacolo che ci si presenta è impressionante, dirà Hegel: da una parte la fame disperata e dallaltra i mezzi che potrebbero porvi rimedio; epperò di mezzo cè un abisso insormontabile. Questo abisso è il diritto, la cui contraddizione con il benessere non è una collisione meramente causidica, ma unantitesi di sempre e di necessità presente, stridente in specie nella società sviluppata [L. 1822-3: § 126].
Lindividuo è sì fine a sé stesso, ma per lappagamento dei suoi bisogni sono necessari anche altri, da cui dipende nella sempre maggior complessità relazionale soprattutto in una società evoluta. Rinunciare alla propria volontà particolare significa allora agire in conformità alle caratteristiche anche dellaltro, rimuovendo da sé il particolare. Il processo della cultura nella società civile è questo asportare il particolare [G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto (a cura di D. Losurdo)]. Abbandonata allo svolgersi materiale dei suoi meccanismi, la società civile moderna sviluppa la ricchezza e con ciò un accrescimento altrettanto infinito dellindigenza. Quanto più aumenta il lusso, tanto più aumenta daltro canto lindigenza; ne vedremo in seguito lulteriore connessione. Cadere in miseria è dunque un effetto di questo sviluppo, il povero non ha a che fare con la natura ma con linfinita resistenza dei proprietari. Luno gode, laltro soffre privazioni, ma laccidentalità è solo parvenza. Nelle apparenze operano solo individui. La scienza, al contrario (in questo caso leconomia politica), scopre leggi che riguardano masse, scorge determinazioni universali e necessità. Con due categorie fondamentali del leconomia politica, la connessione e la mediazione, si coglie che tutti i singoli, il collettivo, sono una cosa diversa che non i singoli stessi. Per indagare allora le cause della miseria è necessario partire dalle masse, dalla totalità sociale in cui lindividuo è inscritto in quanto particolarità, o bisogno soggettivo la cui oggettivazione è lappaga mento.
Luomo che muore di fame ha il diritto assoluto di violare la proprietà di un altro. Nellestremo pericolo e nella collisione con la proprietà giuridica dun altro, la vita ha un diritto necessario da pretendere, giacché, da un lato, sta linfinita violazione del lesistenza e con ciò la totale mancanza di diritto, e, dallaltro lato, soltanto la violazione duna singola esistenza limitata della libertà. Lassolutizzazione del diritto di proprietà ha qualcosa di rivoltante per ogni uomo, e ciò per il fatto che luomo diventa privo di diritti allorché si pretende che dovrebbe qui rispettare il diritto limitato.
Un uomo in condizioni di fame disperata è privato della totalità dei suoi diritti, non viene più riconosciuto come soggetto giuridico, come appunto avviene per chi subisce una violenza criminale o per lo schiavo. Ecco dunque che il potere politico deve intervenire per garantire il diritto alla vita, se ci sono disoccupati, questi hanno il diritto di esigere che gli venga procurato lavoro. Non con una mera calamità naturale ha da lottare il povero nella società civile; la natura che il povero ha di fronte non è un mero essere, ma la mia volontà. Il povero si sente in rapporto con larbitrio, con lumana accidentalità e in ultima analisi è rivoltante che venga messo in questo dissidio dallarbitrio [L, 1819-20: p. 195, ib.]
Se la miseria è una questione sociale, si configura come ingiustizia com messa ai danni di questa o quella classe [L, 1824-5: § 244], non si tratta più di casualità legata a individui bensì di riproducibilità sociale di un sistema di classi. La povertà, come la ricchezza, si trasmette ormai per via ereditaria, e così la cultura, ed ogni altro controllo sulla propria vita. Così il povero viene programmaticamente costruito nellimpotenza sostanziale, nascosta dalleguaglianza formale: facilmente il povero perde la tutela giuridica; senza spendere soldi non è possibile ottenere giustizia, senza denaro non è possibile intentare un processo [L, 1824-5: § 241].
Si fa strada però una chiarezza sempre maggiore. Alla povertà ingenua, che legava la sua condizione alla fatalità, subentra una disposizione danimo che impara a chiamare diritto quello alla sussistenza, senza il quale si configura una violazione che a sua volta dà luogo al risentimento, poi allinteriore ribellione contro i ricchi, contro la società, il governo [L, 1824-5: § 244]. La povertà in quanto tale, come solo dato oggettivo, produce abiezione e degrado ma si trasmuta necessariamente in coscienza di rivendicazione.
Già in Shakespeare [cfr. Coriolano, scritto nel 1610 circa] è visibile il passaggio al per sé, allattività consapevole: Noi siamo i poveri cittadini; buoni i patrizi. Se ci avessero voluto concedere soltanto il loro superfluo quando era ancora in buono stato noi avremmo potuto credere che ci soccorrevano umanamente: ma essi ci trovavano fin troppo costosi. La magrezza che affligge, risultato della nostra miseria, è come linventario che stabilisce la loro ricchezza. La nostra miseria è profitto per loro. Rivendichiamolo con le nostre picche prima che diveniamo buoni a nulla. Gli Dei sanno che io parlo così, non già per sete di vendetta ma per fame di pane ... Essi [i patrizi] finora non si so no mai occupati di noi. Lasciano che noi soffriamo la fame mentre i loro granai rigurgitano di frumento. Fanno editti sullusura per favorire gli usurai: giorno per giorno abrogano una di quelle leggi che furono stabilite a moderazione dei ricchi e giorno per giorno si occupano a promulgare statuti per incatenare ed opprimere i poveri. Se non ci divora la guerra ci divoreranno loro: e questo è tutto lamore che essi hanno per noi!.
Sarà Hegel non più agli albori del capitalismo inglese, ma nella sua fase storica matura, ormai continentale a parlare di lotta per il riconoscimento da parte di questa plebe cosciente di sé, della sua condizione privata della libertà, al pari della schiavitù. Nel concetto di plebe si annidano però ambigue identificazioni con le classi moderne. O è la bestialità, lo strame, la canaglia odiata da Coriolano il sottoproletariato senza dignità o il proletariato industriale parcellizzato e precarizzato capace pe rò di coscienza organizzata, ma sempre alle soglie del pauperismo, in cui la ricorrente assenza di lavoro ne minaccia la caduta.
Nel suo accrescersi continua lanalisi hegeliana il sistema dei bisogni accresce anche i mezzi del loro appagamento; il lusso, che necessariamente consegue, contiene in sé il momento della liberazione, luomo si comporta in modo universale e non è più in rapporto con limmediata necessità naturale. Nel conformare il mondo esterno al suo bisogno, luo mo diviene reale e accresce la sua dipendenza da altri a loro volta dipendenti. Il lavoro diviene la mediazione fondamentale non solo con la natura e lappagamento dei bisogni, ma anche per lo sviluppo della cultura, in quanto determinazione e padronanza di sé.
Storicamente il lavoro, soggetto a continuo mutamento, diviene sempre più meccanico, ottunde loperaio nelle sue abilità e ne degrada lo spirito. Come lo sviluppo della ricchezza genera la povertà, così quello delle forze produttive induce la disumanizzazione. Oggi, infine, ad ulteriore aggravio, quellottundimento appare rimosso da una proliferazione di desideri consumistici o fittizi (a negazione dei bisogni reali, parzialmente o debolmente percepiti), oggetto solo di nuovi affari privatamente appropriabili. È il circolo vizioso, o la cattiva infinità, del perpetuo accrescimento dei profitti sullappagamento, ancorché fittizio, di bisogni indotti da modelli sociali cui corrispondere, non sostanziali per la vita. La miseria sposta geograficamente la sua disperazione in aree-senza-diritti, mentre in quelle storicamente coscienzializzate si aggiunge e si contrappone la nuova miseria della disacculturazione di ritorno.
I dati di Merrill Lynch che da decenni esaminano patrimoni, rilevano che la fascia di ricchi da oltre un milione di $ (800 mila ) cresce in percentuale maggiore nei paesi cosiddetti emergenti (Asia-Pacifico +7,3%, America Latina +9,7%, Medio Oriente +9,8%), piuttosto che nei paesi secolarmente dominanti (Usa +6,9%, Europa +4,5%). Questa maggiore crescita coincide con le aree a più basso reddito retributivo.
La nuova povertà si arricchisce di nuova impotenza a trasformarsi in attività organizzata, nella dispersa generalizzazione mondiale. Tutto lascia pensare a una coscienza plurima e poliforme in fieri, sul supporto di variegate esperienze storiche che, seppure possano essere asportate dalla memoria degli individui, non sono cancellabili da istituzioni, costumi, cose, realtà sociali, ecc. impossibili da far regredire. Proprio come inevitabili danni collaterali dello sviluppo, su cui tutte le forze privatizzate continuamente premono.
[c.f.]
Modo di produzione #1
(in generale)
Oggetto della nostra analisi è anzitutto la
produzione materiale.
Il punto di partenza è costituito
naturalmente dagli individui che producono in società e
perciò dalla produzione socialmente determinata degli individui.
Il singolo e isolato cacciatore e pescatore con cui cominciano
Smith e Ricardo, appartengono alle immaginazioni prive di
fantasia che hanno prodotto le robinsonate del xviii sec. Quando
si parla dunque di produzione, si parla sempre di produzione a un
determinato livello di sviluppo sociale della produzione
di individui sociali. Da ciò potrebbe sembrare che, per parlare
in generale della produzione, noi dovessimo o seguire il processo
di sviluppo storico nelle sue diverse fasi, oppure dichiarare fin
dallinizio che abbiamo a che fare con una determinata epoca
storica, e quindi a esempio con la moderna produzione borghese,
che in effetti è il tema specifico della nostra analisi. Ma
tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune,
certe determinazioni comuni. La produzione in generale è
unastrazione, ma unastrazione che ha un senso,
nella misura in cui mette effettivamente in rilievo lelemento
comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo
elemento generale, ovvero lelemento comune che viene
astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso qualcosa
di complessamente articolato, che si dirama in differenti
determinazioni.
Di queste, alcune appartengono a tutte le
epoche; altre sono comuni solo ad alcune. Alcune determinazioni
saranno comuni tanto allepoca più moderna quanto alla più
antica. Senza di esse sarà inconcepibile qualsiasi produzione;
allora bisogna isolare proprio ciò che costituisce il loro
sviluppo, ossia la differenza da questo elemento generale, mentre
le determinazioni che valgono per la produzione in generale
devono essere isolate proprio affinché per lunità
che deriva già dal fatto che il soggetto, lumanità,
e loggetto, la natura, sono i medesimi non venga poi
dimenticata la diversità essenziale. In questa
dimenticanza consiste appunto tutta la saggezza degli economisti
moderni che dimostrano leternità e larmonia dei
rapporti sociali esistenti. Un esempio di questa dimostrazione:
nessuna produzione è possibile senza uno strumento di
produzione, non fossaltro questo strumento che la mano;
nessuna produzione è possibile senza lavoro passato, accumulato,
non fossaltro questo lavoro che labilità
assommata e concentrata nella mano del selvaggio mediante lesercizio
ripetuto; il capitale è tra laltro anche uno
strumento di produzione, anche lavoro passato,
oggettivato; dunque il capitale è un rapporto naturale eterno,
universale. Ovverosia, a condizione che io tralasci proprio quellelemento
specifico che solo trasforma uno strumento di
produzione, un lavoro accumulato, in un capitale.
Ogni produzione è unappropriazione
della natura da parte dellindividuo, entro e mediante
una determinata forma di società. In questo senso è una
tautologia dire che la proprietà (lappropriazione) è una
condizione della produzione. Ma è ridicolo saltare da questo
fatto a una determinata forma della proprietà, per
esempio alla proprietà privata (il che per giunta suppone una
forma antitetica, la non-proprietà, anchessa come
condizione).
La storia mostra piuttosto che la proprietà
comune è la forma più originaria, una forma che, nella veste di
proprietà comunale, svolge ancora per lungo tempo una funzione
importante. Leconomia borghese come mera forma
storica del processo di produzione rinvia, al di là di se
stessa, a precedenti modi storici di produzione. Non è
necessario perciò, per enucleare le leggi delleconomia
borghese, scrivere la storia reale dei rapporti di produzione.
Ma lesatta intuizione e deduzione di tali rapporti in
quanto sono essi stessi sorti storicamente, conduce sempre a
prime equazioni che rinviano ad un passato che sta alle spalle
di questo sistema. Queste indicazioni, unite allesatta
comprensione del presente, offrono poi anche la chiave per
intendere il passato che è un lavoro a sé a cui pure
speriamo di arrivare. Questa osservazione esatta porta daltra
parte a individuare anche dei punti nei quali cè lindizio
di un superamento dellattuale forma dei rapporti di
produzione e quindi un presagio del futuro, un movimento
che diviene. Se da una parte le fasi preborghesi si
presentano come fasi soltanto storiche, cioè come
presupposti superati, le attuali condizioni della produzione si
presentano daltra parte come condizioni che superano
anche sé stesse e perciò pongono i presupposti storici
per una nuova situazione sociale.
Le condizioni originarie della produzione
(o, che è lo stesso, la riproduzione degli uomini, il cui
numero aumenta attraverso il processo naturale dei due sessi;
giacché questa riproduzione, se da un lato si presenta come
appropriazione degli oggetti da parte dei soggetti, dallaltro
si presenta altresì come formazione degli oggetti, come
sottomissione degli oggetti a uno scopo soggettivo, come
trasformazione di questi in risultati e ricettacoli dellattività
soggettiva) non possono essere originariamente prodotte
esse stesse essere cioè risultati della produzione.
Non è lunità degli uomini viventi e attivi con le
condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale
con la natura, e per conseguenza la loro appropriazione della
natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato
di un processo storico, ma la separazione di queste condizioni
inorganiche dellesistenza umana da questa esistenza attiva,
una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto tra
lavoro salariato e capitale.
Proprietà significa dunque,
originariamente, nientaltro che il rapporto delluomo
con le condizioni naturali della produzione in quanto gli
appartengono, in quanto sono sue, e in quanto sono presupposte
con la sua propria esistenza; il rapporto con esse in
quanto presupposti naturali di se stesso, i quali formano
per così dire solo il prolungamento del suo corpo. Egli non ha,
a rigore, un rapporto con le proprie condizioni di produzione;
egli esiste bensì in duplice modo, soggettivamente in quanto
uomo stesso, oggettivamente in queste condizioni naturali
inorganiche della sua esistenza. Un grado determinato dello
sviluppo delle forze produttive dei soggetti che lavorano
a cui corrispondono rapporti determinati tra questi e con la
natura: ecco in che cosa si dissolve, in ultima istanza, sia
la loro comunità, sia la proprietà, che su di essa si basa.
Fino a un certo punto cè riproduzione. Poi questa si
rovescia in disgregazione. Originariamente, dunque, proprietà
significa rapporto del soggetto che lavora (che produce) (e che
si riproduce) con le condizioni della sua produzione o
riproduzione in quanto gli appartengono. Essa avrà pertanto
anche diverse forme secondo le condizioni di questa produzione.
La produzione stessa ha per scopo la riproduzione del produttore
in, e con, queste sue condizioni oggettive di esistenza. La
questione che qui ci interessa in primo luogo è questa: il
rapporto del lavoro col capitale, ossia con le condizioni
oggettive del lavoro come capitale, presuppone un processo
storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è
proprietario o il proprietario lavora.
[k.m.]
Modo di produzione #2
(capitalistico e forme precedenti)
La questione che qui ci interessa in primo
luogo è questa: il rapporto del lavoro col capitale, ossia con
le condizioni oggettive del lavoro come capitale, presuppone un
processo storico che dissolve le diverse forme in cui il
lavoratore è proprietario o il proprietario lavora.
Dunque innanzitutto: 1) Dissoluzione del rapporto con la
terra col suolo quale condizione naturale di
produzione, con cui egli sta in rapporto come con la sua propria
esistenza inorganica, laboratorio delle sue forze e dominio della
sua volontà. Tutte le forme in cui si presenta questa proprietà
presuppongono una comunità, i cui membri, pur se tra loro
possono esistere differenze formali, in quanto suoi membri sono
proprietari. La forma originaria di questa proprietà è
pertanto la stessa proprietà comune diretta (forma
orientale, modificata nella forma slava; sviluppata fino
allopposto, ma pur sempre base nascosta anche se
contraddittoria nella proprietà antica e germanica). 2) Dissoluzione
dei rapporti in cui egli figura come proprietario dello
strumento. Come la forma suddetta di proprietà fondiaria
presuppone una comunità reale, cosi questa proprietà del
lavoratore sullo strumento presuppone una particolare forma di
sviluppo del lavoro manifatturiero come lavoro artigiano;
a questo è connesso il sistema delle corporazioni, ecc. (Qui il
lavoro stesso è ancora per metà artigianale, per metà fine a
se stesso; ecc. Lorganizzazione dei maestri artigiani. Il
capitalista stesso è ancora maestro. Labilità particolare
nel lavoro garantisce anche il possesso dello strumento, ecc.
Ereditarietà quindi, in certo qual modo, della tecnica di
lavoro, insieme con lorganizzazione del lavoro e lo
strumento del lavoro. Le città medievali. Il lavoro è ancora
lavoro personale; un determinato sviluppo autosufficiente di
capacità unilaterali, ecc.). 3) Ambedue i casi implicano che
egli prima di produrre possegga i mezzi di consumo necessari
per vivere come produttore durante la sua produzione,
quindi prima del completamento di questa. Come
proprietario fondiario egli appare provvisto direttamente del
fondo di consumo necessario. Come maestro artigiano egli lo ha
ereditato, guadagnato, risparmiato, e come garzone artigiano egli
è dapprima apprendista, condizione questa in cui egli non
figura ancora affatto come vero e proprio lavoratore autonomo, ma
siede in modo patriarcale alla mensa del maestro. Come lavorante
(effettivo), esiste una certa comunanza del fondo di consumo
posseduto dal maestro. Anche se questo non è proprietà del
lavorante, in virtù delle leggi della corporazione, delle sue
tradizioni ecc. egli è per lo meno associalo al possesso, ecc.
4) Dissoluzione, daltra parte, anche dei rapporti in
cui gli stessi lavoratori, le stesse capacità di
lavoro vive fanno ancora parte direttamente delle
condizioni oggettive della produzione e come tali vengono
appropriate in cui cioè sono schiavi o servi della gleba.
Per il capitale, condizione della produzione non è il
lavoratore, ma solo il lavoro. Se può farlo compiere dalle
macchine o addirittura dallacqua, dallaria, tanto
meglio. E il capitale non si appropria del lavoratore, ma del suo
lavoro non immediatamente ma mediatamente attraverso lo
scambio.
Questi sono ora, da un lato, i presupposti
storici necessari per trovare il lavoratore come lavoratore
libero, come capacità lavorativa priva di oggettività,
puramente soggettiva, che si contrappone alle
condizioni oggettive della produzione come alla sua non
proprietà, come a proprietà altrui, a valore
per se stante, a capitale. Da una parte si presuppongono processi
storici che hanno posto una massa di individui di una nazione,
ecc. nella condizione se non inizialmente di lavoratori
effettivamente liberi, tuttavia di lavoratori che lo sono
potenzialmente [d???µe?], la cui unica proprietà è la
loro capacità lavorativa e la possibilità di scambiarla con
valori esistenti; individui ai quali tutte le condizioni
oggettive della produzione stanno di fronte come proprietà
altrui, come loro non-proprietà, ma al tempo stesso
scambiabili come valori, e pertanto appropriabili fino a
un certo grado, mediante lavoro vivo. In tutti questi processi di
dissoluzione si vedrà, a un esame più attento, che vengono
dissolti rapporti di produzione in cui predomina il valore duso,
la produzione per luso immediato; il valore di scambio e la
sua produzione presuppone il predominio dellaltra forma.
Ciò che in primo luogo qui ci interessa è
questo: il processo di dissoluzione, che trasforma una massa di
individui di una nazione, ecc, in salariati d???µe? liberi
individui costretti solo dalla loro mancanza di proprietà
a lavorare e a vendere il loro lavoro presuppone daltra
parte non che le tradizionali fonti di reddito e,
parzialmente, le condizioni di proprietà di questi individui
siano scomparse, ma al contrario, che sia mutata soltanto
la loro utilizzazione, che il loro modo di esistenza si sia
trasformato, sia passato come libero fondo in altre mani,
o anche in parte sia rimasto nelle stesse mani. Ma una
cosa è chiara; il processo che ha separato una massa di
individui dai loro tradizionali rapporti in un modo o nellaltro
positivi con le condizioni oggettive del lavoro, che ha
negato questi rapporti e così ha trasformato questi individui in
lavoratori liberi, è lo stesso processo che ha liberato
queste condizioni oggettive del lavoro terra, materia
prima, mezzi di sussistenza, strumenti dì lavoro, denaro, o
tutto ciò insieme dal loro tradizionale legame con
gli individui che ne sono stati poi staccati. Lo stesso processo
che ha contrapposto alle condizioni oggettive del lavoro
la massa sotto forma di lavoratori, liberi, ha anche
contrapposto ai lavoratori liberi queste condizioni sotto forma
di capitale. Il processo storico è consistito nella
separazione di elementi tradizionalmente uniti il suo
risultato non è pertanto la scomparsa di uno degli elementi, ma
la comparsa di ciascuno di questi in una relazione negativa con laltro
il lavoratore libero (potenzialmente) da una parte, il
capitale (potenzialmente) dallaltra. La separazione delle
condizioni oggettive al polo delle classi che sono state
trasformate in lavoratori liberi deve presentasi altresì come
una autonomizzazione di queste stesse condizioni al polo opposto.
Se si considera il rapporto tra capitale e
lavoro salariato non come rapporto che già di per sé regola e
domina la totalità della produzione, ma nella sua genesi storica
cioè se si considera la trasformazione originaria di
denaro in capitale, il processo di scambio tra il capitale che
esiste soltanto d???µe? da una parte, e i liberi lavoratori
che esistono d???µe? dallaltra allora
si impone naturalmente quella semplice osservazione su cui fanno
tanto chiasso gli economisti: che la parte che si presenta come
capitale deve possedere le materie prime, gli strumenti di lavoro
e i mezzi di sussistenza affinché il lavoratore possa vivere
durante la produzione, prima cioè che questa sia compiuta. E
ciò implica inoltre che deve esserci stata dalla parte del
capitalista unaccumulazione unaccumulazione
precedente al lavoro e non scaturita da esso che lo mette
in condizione di far lavorare il lavoratore, di mantenerlo
efficiente, di mantenerlo come forza-lavoro viva. Questa azione
del capitale, indipendente dal lavoro, non posta da esso, viene
poi ulteriormente trasferita da questa storia della sua genesi al
presente, viene trasformata in un momento della sua realtà e
della sua efficienza, della sua autoformazione. Finalmente poi da
ciò viene dedotto il diritto eterno del capitale ai frutti del
lavoro altrui, o piuttosto il suo modo di guadagno viene
sviluppato dalle semplici e giuste leggi
dello scambio di equivalenti. La ricchezza esistente sotto
forma di denaro può essere permutata con le condizioni
oggettive del lavoro solo perché e se queste sono staccate
dal lavoro stesso.
Le condizioni essenziali sono poste nel
rapporto stesso così come si presenta originariamente: 1)
da una parte, la presenza della forza-lavoro viva come mera
esistenza soggettiva, separata dai momenti della sua
realtà oggettiva, e perciò separata tanto dalle condizioni
del lavoro vivo quanto dai mezzi di esistenza, dai mezzi
di sussistenza, dai mezzi di autoconservazione della forza-lavoro
viva; da un parte, dunque, la possibilità vivente del lavoro in
questa assoluta astrazione; 2) il valore che si trova
dallaltra parte, o lavoro oggettivato, deve essere unaccumulazione
di valori duso, abbastanza grande da fornire le condizioni
materiali non soltanto per la produzione dei prodotti o valori
necessari a riprodurre o a conservare la forza-lavoro viva; ma anche
per assorbire pluslavoro per fornirle il materiale oggettivo;
3) un libero rapporto di scambio circolazione di
denaro tra le due parti; una relazione tra gli estremi
basata sui valori di scambio non su rapporti di signoria e
di servitù; il che vuol dire, quindi, una produzione che non
fornisce immediatamente i mezzi di sussistenza al produttore, ma
è invece mediata dallo scambio, e che tanto meno può
impossessarsi immediatamente del lavoro altrui, ma deve invece
comprarlo dal lavoratore stesso, ottenerlo mediante lo scambio;
infine 4) una delle due parti quella che
rappresenta le condizioni materiali del lavoro sotto forma di
valori autonomi, per sé stanti deve presentarsi come valore
e contemplare come scopo ultimo la creazione del valore, lautovalorizzazione,
la creazione di denaro e non immediatamente il godimento e
la creazione di un valore duso.
Nella fase che precede la società
capitalistica, il commercio domina lindustria: il
contrario avviene nella società moderna. Il commercio reagirà
naturalmente più o meno sulle comunità che vi partecipano;
sottometterà sempre più la produzione al valore di scambio,
facendo dipendere sempre maggiormente godimenti e sussistenza
dalla vendita, anziché dalluso immediato dei prodotti.
Esso dissolve con ciò gli antichi rapporti. Aumenta la
circolazione monetaria. Si impadronisce non più semplicemente
della eccedenza della produzione, ma a poco a poco investe la
produzione stessa e sottomette al suo potere interi rami di
produzione. Questo effetto dissolvente tuttavia dipende
grandemente dalla natura delle comunità produttrici.
Lo sviluppo del commercio e del capitale
commerciale orienta dovunque la produzione verso il valore
di scambio, ne aumenta il volume, ne accresce la varietà e
le imprime un carattere internazionale, trasforma il denaro in
moneta mondiale. Il commercio esercita perciò dovunque unazione
più o meno disgregatrice sulle organizzazioni
preesistenti della produzione, le quali, in tutte le loro
diverse forme, sono principalmente orientale verso il valore duso.
Quale efficacia abbia tuttavia questa azione disgregatrice sullantico
modo di produzione, dipende soprattutto dalla solidità e dallintima
struttura di questultimo. E dove sfoci questo processo di
disgregazione, ossia quale nuovo modo di produzione si
sostituisca allantico, non dipende dal commercio, ma dal
carattere stesso del vecchio modo di produzione. Nel mondo
moderno esso sfocia nel modo capitalistico di produzione.
La struttura economica della società
capitalistica è derivata dalla struttura economica della
società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli
elementi di quella. Il produttore immediato, il lavoratore,
ha potuto disporre della sua persona soltanto dopo aver cessato
di essere legato alla gleba e di essere servo di unaltra
persona o infeudato ad essa. Per divenire libero venditore di
forza-lavoro, che porta la sua merce ovunque essa trovi un
mercato, il lavoratore ha dovuto inoltre sottrarsi al dominio
delle corporazioni, ai loro ordina-menti sugli apprendisti e sui
garzoni e allimpaccio delle loro prescrizioni per il
lavoro. Così il movimento storico, che trasforma i produttori in
lavoratori salariati si presenta, da un lato, come loro
liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per
i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dallaltro
lato questi affrancati diventano venditori di se stessi soltanto
dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e
di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche
istituzioni feudali.
I capitalisti industriali, questi nuovi
potentati, hanno dovuto per parte loro non solo soppiantare i
maestri artigiani delle corporazioni, ma anche i signori feudali
possessori delle fonti di ricchezza. Da questo lato lascesa
dei capitalisti si presenta come frutto di una lotta vittoriosi
tanto contro il potere feudale e contro i suoi rivoltanti
privilegi, quanto contro le corporazioni e contro i vincoli posti
da queste al libero sviluppo della produzione e al libero
sfruttamento delluomo da parte delluomo. Fanno
epoca, dal punto di vista storico, tutti i rivolgimenti che
servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma
soprattutto i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono
staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di
sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege.
Lespropriazione dei produttori rurali, dei
contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce
il fondamento di tutto il processo. Così la popolazione rurale
espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa
vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il
terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a
fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al
sistema del lavoro salariato.
Non basta che le condizioni di lavoro si
presentino come capitale a un polo e che allaltro polo si
presentino uomini che non abbiano altro da vendere che la propria
forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a
vendersi volontariamente. Man mano che la produzione
capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che
per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi
naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. Lorganizzazione
del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni
resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione
relativa tiene la legge dellofferta e della domanda di
lavoro, e quindi il salario, entro un binario che corrisponde
ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa
coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del
capitalista sul lavoratore. Si continua, è vero, sempre a usare
la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il
corso ordinario delle cose il lavoratore può rimanere affidalo
alle leggi naturali della produzione, cioè
alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse
condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata
da esse. [k.m.]
(C. i, 20; iii, 23. LF. m;iv;v)
Mondo
(critica della globalizzazione)
Lessere che tutto abbraccia è unico. Nella sua autosufficienza esso non ha niente accanto a sé o sopra di sé. Associargli un secondo essere significa farlo diventare ciò che non è, cioè una parte o un elemento costitutivo di un tutto più ampio. Poiché noi distendiamo il nostro pensiero unitario, per così dire, come una cornice, niente di ciò che deve rientrare in questa unità di pensiero può contenere in sé una dualità. Ma niente può neppure sottrarsi a questa unità di pensiero. Lessenza di tutto il pensiero consiste nella riunione degli elementi della coscienza in una unità. Proprio lunità puntuale della sintesi fa sorgere il concetto del mondo indivisibile e riconoscere luniverso, come già dice la parola, come qualche cosa in cui tutto è riunito in una unità. Così Dühring.
Lessere che tutto abbraccia è unico. Se è una tautologia, semplice ripetizione nel predicato ciò che è già espresso nel soggetto, costituisce un assioma, qui ne abbiamo uno della più bellacqua. Nel soggetto Dühring ci dice che lessere abbraccia tutto e nel predicato afferma intrepido che allora niente è fuori di esso. Che colossale idea creatrice di un sistema! Creatrice di un sistema, infatti. Non sono ancora passate altre sei righe ed ecco che Dühring, per mezzo del nostro pensiero unitario, ha trasformato lunicità dellessere nella sua unità. Poiché lessenza di tutto il pensiero consiste nellattività sintetica unitaria, lessere, appena viene pensato, viene pensato come unitario: il concetto del mondo è un concetto indivisibile; e poiché lessere pensato il concetto del mondo è unitario, lessere reale, il mondo reale, è parimenti ununità indivisibile. Come arriviamo dallunicità dellessere alla sua unità?
In generale col pensarlo nella nostra mente. Lessere unico diventa nel pensiero un essere unitario, ununità ideale, non appena intorno a esso tendiamo il nostro pensiero unitario come una cornice; infatti, lessenza di tutto il pensiero consiste nella riunione di elementi della coscienza [<=] in ununità: questa proposizione è semplicemente falsa. Il pensiero non può che raccogliere in ununità quegli elementi della coscienza nei quali, o nei prototipi reali dei quali, questa unità esisteva già da prima. Se si sussume una spazzola da scarpe sotto lunità mammifero, ci vuol altro perché le crescano le mammelle. Lunità dellessere., ossia la legittimità del fatto che esso venga concepito nel pensiero come unità, è quindi proprio ciò che si doveva dimostrare.
Il socialismo moderno, considerato nel suo contenuto, è anzitutto il risultato della visione, da una parte, degli antagonismi di classe, dominanti nella società moderna, tra possidenti e non possidenti, salariati e borghesi; dallaltra, dellanarchia dominante nella produzione. Dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo, lintelletto pensante fu applicato a tutto come unica misura. Era il tempo in cui come dice Hegel il mondo venne poggiato sulla testa, dapprima nel senso che la testa delluomo e i princìpi trovati dal suo pensiero pretendevano di valere come base di ogni azione e di ogni associazione umana; ma più tardi anche nel senso più ampio che la realtà che era in contraddizione con questi princìpi fu effettivamente rovesciata da cima a fondo. Tutte le forme sociali e politiche che fino allora erano esistite, tutte le antiche concezioni che si erano tramandate, furono gettate in soffitta come cose irrazionali.
Noi sappiamo ora che questo regno della ragione non fu altro che il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna trovò la sua realizzazione nella giustizia borghese [<=]; che leguaglianza andò a finire nella borghese eguaglianza davanti alla legge; che la proprietà borghese fu proclamata proprio come uno dei più essenziali diritti delluomo; e che lo stato [<=] conforme a ragione, il contratto sociale di Rousseau, si realizzò, e solo così poteva realizzarsi, come repubblica democratica borghese.
Ma, accanto allantagonismo [<=] tra nobiltà feudale e borghesia, sussisteva lantagonismo generale tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi oziosi e lavoratori poveri. E precisamente questa circostanza rendeva possibile ai rappresentanti della borghesia di ergersi a rappresentanti non soltanto di una classe [<=] particolare, ma di tutta lumanità sofferente. E cè di più. Fin dalla sua origine la borghesia era affetta dallantagonismo che le è proprio: non possono esserci capitalisti senza lavoratori salariati. E sebbene nel complesso la borghesia avesse il diritto di pretendere di rappresentare contemporaneamente, nella lotta contro la nobiltà, linteresse delle diverse classi lavoratrici di quellepoca, pure, in ogni grande movimento borghese, scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che era la precorritrice più o meno sviluppata del proletariato moderno.
Gli illuministi vogliono liberare non una classe determinata, ma tutta lumanità. Il mondo borghese, ordinato secondo i princìpi di questi illuministi è irrazionale e ingiusto e trova il suo posto nel secchio dellimmondizia. Questo modo di vedere è sostanzialmente quello di tutti i socialisti. Il socialismo è lespressione dellassoluta verità, dellassoluta ragione, dellassoluta giustizia [<=] e basta che sia scoperto perché conquisti il mondo con la propria forza; poiché la verità assoluta è indipendente dal tempo, dallo spazio e dallo sviluppo storico delluomo, è un semplice caso quando e dove sia scoperta. Inoltre poi la verità, la ragione e la giustizia assolute a loro volta sono diverse per ogni caposcuola; e poiché la forma particolare che la verità, la ragione e la giustizia assolute assumono è a sua volta condizionata dallintelletto soggettivo, dalle condizioni di vita, dal grado di cognizioni e di educazione a pensare di ognuno di essi, in questo conflitto di assolute verità non cè nessuna altra soluzione possibile se non che esse si elidano vicendevolmente.
Così stando le cose, non poteva allora venir fuori altro che una specie di socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna fino a oggi nella testa della maggior parte dei lavoratori socialisti; una miscela che ammette uninfinita molteplicità di sfumature, e che risulta da ciò che hanno di meno incisivo le invettive critiche, i princìpi di economia e le rappresentazioni della società futura dei vari fondatori di sètte; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più ai singoli elementi componenti, nel corso della discussione, vengono smussati gli angoli acuti della precisione, come ciottoli levigati nel torrente. Per fare del socialismo una scienza bisognava anzitutto farlo poggiare su una base reale.
[f.e.]
(da Anti-Dühring, Intro.1, I.4)
Moneta
(prezzi e circolazione)
La grandezza di valore della merce esprime un rapporto necessario, immanente al suo processo di formazione, con il tempo sociale di lavoro. Con la trasformazione della grandezza di valore in prezzo, questo rapporto necessario si presenta come rapporto di scambio di una merce con la merce denaro esistente fuori di essa. Però, in questo rapporto può trovare espressione tanto la grandezza di valore della merce, quanto il più o il meno, nel quale essa è alienabile in date circostanze. La possibilità di unincongruenza quantitativa fra prezzo e grandezza di valore, sta dunque nella forma stessa di prezzo. E questo non è un difetto di tale forma, anzi al contrario ne fa la forma adeguata dun modo di produzione, nel quale la regola si può far valere soltanto come legge della media della sregolatezza, operante alla cieca.
Data la somma di valore delle merci e data la velocità media delle loro metamorfosi, la quantità del denaro ossia del materiale monetario in corso, dipende dal suo proprio valore. Lillusione che i prezzi delle merci, viceversa, siano determinati dalla massa dei mezzi di circolazione, e questa massa sia determinata a sua volta dalla massa del materiale monetario che si trova in un dato paese, ha la sua radice, nei suoi primi sostenitori, nellipotesi assurda che entrino merci senza prezzo e denaro senza valore nel processo della circolazione, dove poi una parte aliquota del pastone di merci si scambierebbe con una parte aliquota del mucchio di metallo.
Il prezzo è il nome di denaro del lavoro oggettivato nella merce. Lequivalenza della merce e della quantità di denaro il cui nome costituisce il prezzo della merce, è quindi una tautologia, come, in genere, lespressione relativa di valore di una merce è sempre lespressione dellequivalenza di due merci. Ma se il prezzo, come esponente della grandezza di valore della merce, è esponente del suo rapporto di scambio col denaro, non ne segue linverso, che lesponente del suo rapporto di scambio col denaro sia di necessità lesponente della sua grandezza di valore.
Il prezzo, ossia la forma di denaro delle merci è, come loro forma di valore in generale, una forma distinta dalla loro forma corporea tangibilmente reale, quindi nella sua funzione di misura del valore il denaro come denaro è solo forma ideale ossia rappresentata; per questa operazione è usabile anche soltanto oro rappresentato e non cè bisogno di nemmeno un grammo doro reale, per valutare in oro milioni di valori di merci. Questa circostanza ha provocato le teorie più pazzesche.
Benché solo il denaro ideale serva alla funzione di misura del valore, il prezzo dipende in tutto e per tutto dal materiale reale del denaro. Il valore, cioè la quantità di lavoro umano, viene espresso in una quantità ideale della merce denaro, la quale contiene altrettanto lavoro. Dunque, il valore riceve differentissime espressioni di prezzo a seconda che come misura di valore servono loro, largento o il rame, ossia il valore viene rappresentato in differentissime quantità doro, dargento o di rame.
Quindi, per esercitare praticamente lazione di un valore di scambio, la merce deve spogliarsi del suo corpo naturale, trasformarsi da oro soltanto rappresentato in oro reale. Accanto alla sua forma reale, la merce può avere nel prezzo forma ideale di valore, ossia forma rappresentata doro, ma non può essere insieme, a esempio, realmente ferro e realmente oro. Per darle un prezzo basta equipararle oro rappresentato. Con loro, la si deve sostituire affinché essa fornisca al suo possessore il servizio dun equivalente generale.
I prezzi o quantità doro nei quali si sono idealmente trasformati i valori delle merci, vengono espressi nei nomi di moneta, cioè nei nomi di conto della scala oro validi per legge. Quindi, invece di dire che il quarter di grano è eguale a unoncia doro, in Inghilterra si dirà che esso è eguale a 3 sterline, dieci scellini e dieci pence e mezzo. Così le merci si dicono quel che valgono coi loro nomi di denaro, e il denaro serve come moneta di conto tutte le volte che importa fissare una cosa come valore, quindi fissarla in forma di denaro. Il nome duna cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sulluomo. Così nei nomi di denaro, lira sterlina, tallero, franco, ducato, scompare ogni traccia del rapporto di valore.
La confusione a proposito del significato arcano di questi segni cabalistici è tanto più grande per il fatto che i nomi di denaro esprimono insieme il valore delle merci e anche parti aliquote dun peso di metallo, della scala denaro. Dallaltra parte, è necessario che il valore si evolva, a differenza dei variopinti corpi del mondo delle merci, fino a raggiungere tale forma non concettuale e materiale, ma anche semplicemente sociale.
La forma di prezzo implica lalienabilità delle merci contro denaro e la necessità di tale alienazione. Daltra parte, loro funziona come misura di valore ideale soltanto perché si muove come merce denaro già nel processo di scambio. Si deve considerare tutto il processo dal lato della forma, cioè soltanto il cambiamento di forma ossia la metamorfosi delle merci funge da mediatrice nel ricambio organico sociale. Limperfettissima comprensione di tale mutamento di forma, a parte la poca chiarezza a proposito dello stesso concetto di valore, è dovuta alla circostanza che ogni metamorfosi di una sola merce si compie nello scambio fra due merci, una merce in generale e la merce denaro. Se si tiene fermo soltanto a questo momento materiale, allo scambio di merce con oro, non si osserva proprio quel che si deve osservare, cioè quello che succede alla forma. Non si osserva che loro come pura e semplice merce non è denaro, e che le altre merci riferiscono se stesse, nei loro prezzi, alloro come loro propria figura di denaro. Nella misura ideale dei valori sta dunque in agguato la dura moneta.
Poiché la moneta in certe sue determinate funzioni può essere sostituita con semplici segni di se stessa, è sorto lerrore chessa sia un semplice segno. Daltra parte, in tutto ciò cera lintuizione che la forma di denaro della cosa le sia esterna, e sia pura forma fenomenica di rapporti umani nascosti dietro di essa. In questo senso, ogni merce sarebbe un segno, poiché, come valore, sarebbe soltanto linvolucro materiale del lavoro umano speso per essa. Ma dichiarando puri segni i caratteri sociali che ricevono gli oggetti, ossia i caratteri oggettivi che ricevono le determinazioni sociali del lavoro sulla base dun determinato modo di produzione, si dichiara contemporaneamente che essi sono il prodotto arbitrario della riflessione delluomo.
La carta moneta è segno doro, cioè segno di denaro. Il suo rapporto coi valori delle merci sta solo nel fatto che questi vengono espressi idealmente con le medesime quantità doro che sono rappresentate simbolicamente e visibilmente dalla carta. La carta moneta è segno di valore solo in quanto rappresenta quantità doro che sono anche quantità di valori, come tutte le altre quantità di merci. Si domanda perché loro possa essere sostituito con semplici segni di se stesso, senza alcun valore proprio. Esso è sostituibile a questo modo solo in quanto viene isolato o reso indipendente nella sua funzione di moneta o mezzo di circolazione.
Le monete doro sono semplici monete o mezzi di circolazione esattamente soltanto finché circolano realmente. Tuttavia, quel che non vale per la singola moneta doro, vale per la massa minima doro sostituibile con la carta moneta. Questa abita costantemente nella sfera della circolazione, funziona continuamente come mezzo di circolazione, ed esiste quindi soltanto come depositaria di questa funzione.
Il risultato della circolazione delle merci, che è la sostituzione di merce con altra merce, non appare quindi mediato dal cambiamento di forma delle merci, ma dalla funzione del denaro come mezzo di circolazione, che fa circolare le merci, le quali in sé e per sé sono immobili, che le trasporta dalla mano nella quale sono non-valori duso, nella mano in cui sono valori duso, e sempre in direzione opposta al suo proprio corso. Daltra parte, al denaro la funzione di mezzo di circolazione spetta soltanto perché esso è il valore delle merci, divenuto indipendente. Il suo movimento come mezzo di circolazione è quindi, di fatto, soltanto il movimento di forma proprio delle merci, il quale dunque si deve rispecchiare anche in maniera sensibile nel corso del denaro.
Dalla funzione del denaro come mezzo di circolazione sorge la sua figura di moneta. La parte di peso doro rappresentata nel prezzo ossia nel nome in denaro delle merci, deve presentarsi di contro ad esse, nella circolazione, come pezzo doro di identico nome, ossia moneta. Come già la definizione della scala di misura dei prezzi, la monetazione è affare che spetta allo stato.
Nelle differenti uniformi nazionali che oro e argento portano quando sono moneta, ma che poi tornano a svestire sul mercato mondiale, si fa luce la distinzione fra le sfere interne o nazionali della circolazione delle merci e la loro sfera generale, il mercato mondiale [<=]. La moneta divisionale appare accanto alloro per il pagamento di frazioni della moneta doro minima; loro entra costantemente nella circolazione di dettaglio, ma ne viene con altrettanta costanza messo fuori mediante il cambio con moneta divisionale.
In stadi meno sviluppati della società civile, una gran parte delle merci verrà stimata ancora per un certo tempo nella misura di valore, ormai divenuto illusorio, antiquato. Intanto una merce infetterà laltra mediante il suo rapporto di valore con essa, i prezzi delloro (o dellargento) si conguaglieranno a poco per volta nelle proporzioni determinate dai loro stessi valori, finché in conclusione tutti i valori delle merci verranno stimati in corrispondenza al nuovo valore del metallo-denaro. Questo processo di conguaglio è accompagnato dallaumento continuo dei metalli nobili, i quali affluiscono sostituendo le merci scambiate direttamente con essi. Quindi nella stessa misura che si generalizza la correzione dei prezzi delle merci, ossia che i valori delle merci vengono stimati a norma del nuovo valore del metallo caduto e che continua a cadere fino a un certo punto è già presente la massa supplementare di esso necessaria alla realizzazione della correzione stessa.
Se lo stesso corso del denaro separa il contenuto reale dal contenuto nominale della moneta, ossia separa la sua esistenza di metallo dalla sua esistenza funzionale, questo significa che in esso è latente la possibilità di sostituire il denaro metallico, nella sua funzione di moneta, con marche di altro materiale, ossia con simboli. Lesistenza di moneta delloro si separa completamente dalla sua sostanza di valore. Quindi cose che sono, relativamente, senza valore, cedole di carta, possono funzionare in vece sua come moneta. Nella carta moneta il carattere puramente simbolico di denaro salta agli occhi. La carta moneta statale a corso forzoso nasce direttamente dalla circolazione metallica.
In un processo che fa passare costantemente il denaro da una mano allaltra, è sufficiente anche la sua esistenza puramente simbolica. Per così dire, la sua esistenza funzionale assorbe la sua esistenza materiale. Riflesso dileguante oggettivato dei prezzi delle merci, esso funziona ormai soltanto come segno di se stesso, e quindi può esser sostituito con segni. Solo che il segno del denaro ha bisogno di una sua propria validità oggettivamente sociale: e il simbolo cartaceo ottiene tale validità mediante il corso forzoso. Questa coercizione dello stato è valida solo allinterno di una sfera di circolazione circoscritta dai confini di una comunità, ossia interna; ma del resto, solo in essa il denaro si risolve completamente nella propria funzione di mezzo di circolazione o moneta, e può quindi ricevere nella carta moneta un genere di esistenza esternamente separato dalla sua sostanza metallica e puramente funzionale. Lo stato getta nel processo della circolazione, dal di fuori, cedole di carta sulle quali sono stampati nomi di denaro. Finché esse circolano realmente al posto della somma di oro dello stesso peso, nel loro movimento si rispecchiano soltanto le leggi del corso del denaro.
Una legge specifica della circolazione cartacea può sorgere soltanto dal suo rapporto con loro, in quanto essa è rappresentante di questultimo. Tale legge è semplicemente questa: lemissione di carta moneta deve essere limitata alla quantità nella quale dovrebbe realmente circolare loro (o largento) da essa simbolicamente rappresentato. Ma se oggi tutti i canali della circolazione vengono riempiti di carta moneta al pieno limite della loro capacità dassorbimento di denaro, domani essi potranno essere sovrappieni, in conseguenza delle oscillazioni della circolazione delle merci. Ogni misura è perduta.
Se la carta sorpassa la sua misura, cioè la quantità di moneta doro della medesima denominazione che potrebbe circolare, essa rappresenta entro il mondo delle merci, e astrazione fatta dal pericolo dun discredito generale, ormai soltanto la quantità di oro determinata dalle sue leggi immanenti, e quindi anche lunica che possa rappresentare. Leffetto è lo stesso che se si fosse alterato loro, nella sua funzione di misura dei prezzi. Gli stessi valori quindi che prima si esprimevano nel prezzo di una sterlina, si esprimono ora nel prezzo di due sterline.
[k.m.]
(da Karl Marx, Il capitale, I.2-3)
Moneta circolante
(forme, M3)
La moneta non è il denaro [=>], ma questultimo fonda ogni forma monetaria, vera o finta che sia, metallica, cartacea (legale o forzosa), di conto, elettronica o pure virtuale in qualunque veste, presente futura o fittizia. E il denaro è tale in quanto corrisponda alla ricchezza reale prodotta; nel modo di produzione capitalistico è merce che sta di fronte ad altre merci. Ma trasformato in moneta, coniata da stati e istituzioni, assume una certa autonomia, almeno fino a quando leccesso di moneta forzosa e fittizia la consenta. Dopo di ciò, tuttavia, linflazione cartacea sommerge tutto.
A causa della speculazione [=>], che promana dalle esigenze della circolazione, è il sistema capitalistico stesso che esige una crescente presenza di moneta circolante (in qualunque forma, reale o virtuale, in quantità o veloce ripetitività), con accresciuti rischi di instabilità. Allorché, come oggi, non esistono soltanto vere monete, è conseguenza che la moneta, emessa dallo stato o dalla banca centrale, si presenti in forma di banconote (delle monete metalliche non è più neppure il caso di parlare) o pure di un qualche certificato monetario (che è un tipo di denaro emesso da un organo privato o pubblico, o conto corrente di banche ordinarie). Ma solo queste due ultime entità rappresentano la massa monetaria (quantitativa e circolante) che costituisce la reale offerta di moneta emessa dallistituto preposto, che perciò riesce facilmente a controllarla [per dati e definizioni cfr. Bce e wikipedia].
Dunque, insieme alla pura e semplice base monetaria (a volte indicata con M0, ma poco significativa e scarsamente utilizzata), la prima grandezza di riferimento reale per la moneta circolante, oltre alla moneta coniata o stampata, include anche le attività finanziarie che funzionano da mezzo di pagamento (come i depositi in conto corrente). Questa moneta effettiva, in quanto liquidità primaria, insieme alla primitiva base monetaria vera, è la grandezza statistica di base detta comunemente M1. In effetti listituto pubblico per la creazione di moneta si basa sul denaro reale avente a tutti gli effetti pratici funzione di moneta, e non sui titoli monetari aggiuntivi (di cui si dirà tra breve). Lofferta di moneta reale più la corrispondente liquidità primaria in senso proprio, dunque, misura la quantità e la velocità della moneta effettivamente in circolazione e serve per soppesare qualità e limiti della politica monetaria rispetto al cosiddetto valore del denaro e ai prezzi delle merci.
Aggiungendo le grandezze monetarie intermedie
ossia tutte le altre attività finanziarie che possono
circolare facilmente avendo quotazioni pressoché stabili (con
scadenza fissa o più lunga, un paio danni, di quelle dei
depositi in conto corrente, come a es. i depositi bancari,
rimborsabili, a risparmio o altri che siano non trasferibili a
vista) si definisce, come M2, la cosiddetta liquidità
secondaria.
Epperò la questione più complicata si
presenta con il terzo livello, quello più ampio detto
convenzionalmente M3: che, oltre alle due
precedenti voci, comprende anche tutte le altre attività
finanziarie (che possono avere non solo la funzione di riserva di
valore), come le operazioni cosiddette pronti contro
termine (depositi vincolati attraverso compravendite
fissate e differenziate nel tempo), le quote di fondi di
investimento di vario tipo (fondamentalmente titoli
derivati a termine) e i titoli del mercato monetario emessi
da sedicenti istituzioni finanziarie. Quindi tale voce ampia è
contraddistinta dallofferta di titoli virtuali
secondari, ipocritamente detti spesso subprime,
ossia ... sottoprimari che gravano tutti,
a gradi sempre crescenti, sulle medesime monete reali
messe in circolazione.
In quanto denaro virtuale (che esiste solo come titolo cartaceo, anche attraverso la cosiddetta cartolarizzazione, al posto del denaro fisico reale), esso offre uno spazio indefinito per la speculazione. In una fase di crisi produttiva reale del mercato mondiale, prolungata comè quella attuale, le diverse regolamentazioni giuridiche ovviamente vigenti in ciascuno stato rivestono tuttavia un ruolo minore. La transnazionalità di un mercato mondiale ormai trasversale serve a garantire una mobilità volatile della speculazione sui titoli derivati in tutte le borse mondiali non solo finanziarie ma anche mercantili, come energia alimenti e minerali dimostrano, pronte a subentrare nella speculazione dalla pura parvenza monetaria in crisi. Simili aspetti, pertanto, spiegano bene i motivi per cui in Usa la misurazione dellindice M3 (in cui la parte effettiva è stimata poco al di sopra del 3%, lasciando il restante circa 97% a denaro e capitale fittizio, con un rapporto di leva dellordine di 1 a 30) non è più rilevata ufficialmente dalla banca centrale Usa (Fed); nellUe la situazione è definita un po diversamente, ma la forte espansione di M3, osservata anche nellUe, è seguita attraverso la sua dinamica, la cui crescita deve essere limitata.
Allo stadio attuale, il perdurare della sostenuta dinamica di M3, rafforzata anche dal relativo basso costo del detenere moneta, ha determinato un considerevole accumulo di liquidità nellarea delleuro. La prolungata fase di incertezza finanziaria e il contesto economico nel suo insieme, apparentemente eccezionali, hanno generato in tale stato di cose segnali di instabilità nella dinamica di breve periodo dellaggregato M3. Pertanto, linterpretazione degli andamenti monetari risulta più difficoltosa che in circostanze normali, riguardando soprattutto lincertezza nei tempi della speculazione sul futuro condizionando nel presente i prezzi correnti (a es., i prezzi attuali di energia, benzina ecc., o di alimentari legati ai cereali, come pane, pasta o anche carne) e quindi della normalizzazione dei mercati finanziari. Di conseguenza, le notevoli incertezze e turbolenze sui mercati finanziari, in particolare dal calo senza precedenti delle quotazioni azionarie registrato negli ultimi due anni, hanno indotto a ridurre le disponibilità in attività relativamente rischiose, quali le azioni, e ad incrementare la domanda di strumenti più liquidi e sicuri compresi in M3 [cfr. Bce].
La distinzione tra moneta reale e titoli monetari, infatti, è difficilmente determinabile; infatti la maggior parte dellofferta di moneta è costituita da titoli monetari, che non rappresentano moneta sottostante. Come detto, tutti i titoli speculativi sono emessi sul nulla senza la presenza di denaro sottostante: il caso recente dei mutui immobiliari in Usa è un esempio di ciò. Tali titoli, la cui quotazione non ha base monetaria reale rappresentano denaro fittizio (il cui arbitrario mercanteggiamento, dato che tali titoli non dovrebbero avere funzione di moneta, viene però sovente impropriamente considerato come un signoraggio che attiene invece a un sistema economico non fondato su valori di scambio con profitto, e quindi estraneo a qualsiasi speculazione, ma solo mirante alla rapina).
Siccome la mera offerta di moneta, in qualsiasi veste, agisce sui tassi di interesse e di inflazione, una maggiore offerta può essere scelta per determinare un minor tasso dinteresse (a parità di domanda) e una maggiore inflazione, o viceversa. La strategia del ruolo monetario nellinflazione mostra dunque lo stretto legame tra moneta e prezzi nel medio periodo, in base al quale, per colpire il potere dacquisto dei salari, leconomia borghese agisce sulla moneta (differenziando gli àmbiti merceologici dellinflazione medesima). Alla stessa maniera, q
uando le banche hanno denaro contante insufficiente per far fronte ai ritiri imprevisti dei depositi, ottengono provvisoriamente la liquidità equivalente con lautorizzazione della banca centrale, in quanto prestatore di ultima istanza, a contabilizzare le loro riserve. Lutilizzazione di tali attività finanziarie delle banche ordinarie forma la base monetaria fittizia.
Gli economisti suppongono di poter valutare quale sia la quantità complessiva di moneta (o di pseudo-moneta) necessaria per adempiere alle funzioni di circolazione del capitale. Tuttavia il dilagare irrazionale della speculazione non significa altro che scommettere non su fatti reali bensì su quotazioni cartacee virtuali, più o meno future, attraverso cui qualcuno incassa solo ciò che gli altri, più deboli, pèrdono: si dice che il gioco è a somma zero, sì che la scommessa sul futuro non dà mai luogo o un effettivo movimento di oggetti o di moneta reale, ma solo a compensazioni sulle differenze a favore di chi vinca la scommessa. Si capisce perché in M3 ogni volta decine di transazioni sono puramente formali (a es., per ogni vero barile di greggio la percentuale di quelli contrattati è da alcuni reputata anche intorno al centinaio). È evidente come vi sia, piuttosto volontariamente che no, una certa confusione nella misura dellofferta di moneta e vi sia dunque pochissima chiarezza su significato e ruolo effettivo della moneta, e nessuna sul concetto di denaro.
[gf.p.]
Moneta e borsa
Gli economisti borghesi, scienziati tristi per eccellenza, perseguendo il loro obiettivo di creare e modificare le idee e comportamenti altrui, sono ormai soliti utilizzare un linguaggio [¬] sempre più criptico, mutuando ossequiosamente, oltretutto, parole [¬] di vezzo anglo-americano e abusando di acronimi [vedi sopra] incomprensibili ai più. Per questa ragione si analizzano alcuni termini frequenti, con lobiettivo di creare un piccolo glossario di sopravvivenza in grado di permettere la decodificazione dei contenuti di numerosi articoli.
Le aree valutarie [<=] costituiscono una tematica, da sviluppare ulteriormente, di assoluta centralità nellattuale fase dellimperialismo [<=]. Si è più volte sostenuta limportanza che riveste la scelta da parte dei paesi terzi del dollaro Usa o delleuro come valuta di riferimento. Con ciò si indica la valuta utilizzata da un determinato paese per gli scambi internazionali (di merci [<=] o pure di capitale [<=]). Infatti, ad esempio, il commercio tra Brasile e Thailandia non avviene in real o in baht (rispettivamente valute locali), ma in una valuta terza, di riferimento appunto che, in questo caso, è il dollaro. Infatti se un capitalista brasiliano vuole comprare materie prime [<=] provenienti dalla Thailandia dovrà cambiare i real in dollari e con questi pagare la merce thailandese; successivamente il venditore di materie prime dovrà convertire il ricavo in baht. È normale che la scelta delleuro o del dollaro come valuta di riferimento sia indirizzata qualora esista una qualsiasi forma di ancoraggio ad esse.
Lancoraggio valutario è, infatti, la forma più generale di legame di una valuta ad unaltra. Il tipo di legame può essere fisso, nel senso che la variazione del suo prezzo è assolutamente identica alla variazione della valuta a cui essa si àncora (come ad esempio nel currency board [vedi dopo] argentino in cui 1 peso = 1 dollaro), oppure può essere mitigata con ladozione di una percentuale (inferiore al 100%) per cui il tasso di variazione del prezzo della valuta ancorata segue in maniera meno che proporzionale il tasso di variazione della valuta di riferimento.
La dollarizzazione completa rappresenta un caso specifico di ancoraggio (alla moneta Usa); chiaramente in simili casi non cè scelta di valuta di riferimento. Un paese, infatti, si caratterizza così nel momento in cui la sua valuta viene totalmente soppiantata da quella statunitense. In questa maniera tale paese perde la propria autorità monetaria (ovvero non può più stampare moneta), non avendo più la possibilità di introdurre liquidità allinterno del sistema economico anche in momenti di difficoltà. Quindi, la liquidità interna viene a dipendere dallingresso di moneta allinterno del paese mediante gli investimenti diretti o quelli di portafoglio da parte di capitalisti che utilizzano il dollaro come valuta di riferimento, o pure mediante la vendita da parte di merci del paese dollarizzato a operatori paganti in valuta statunitense. Ulteriore conseguenza è la perdita da parte del paese dollarizzato del cosiddetto prestatore di ultima istanza, ovvero dellautorità monetaria (solitamente la banca centrale) che possa intervenire nel caso di crisi di liquidità del sistema (ovvero le banche non riescono più a pagare i creditori). Il progetto di dollarizzazione è attualmente promosso dallImsa [International monetary stability act], legge statunitense del 2001. Una delle più famose dollarizzazioni è quella dellEcuador (2000), in cui il sucre, valuta locale, è stata totalmente soppiantata dal dollaro Usa. Esistono ancora forme di dollarizzazione parziale in cui il dollaro ha corso legale compatibilmente con la valuta locale anche se sono forme tendenti alla scomparsa.
Il currency board è una forma più blanda della dollarizzazione, consistente nel legame tra la valuta di un paese (quello che accetta il currency board) ed un paniere di valute straniere. In questo caso landamento del tasso di cambio o corso [<=] della valuta in questione è legato in maniera fissa allandamento delle valute che fanno parte del paniere. Ad esempio, se una determinata valuta ha un currency board con il dollaro statunitense e leuro (entrambi con gli stessi pesi), qualora una delle due aumenti il suo valore del 100%, e laltra rimanga fissa, automaticamente quella ancorata registra un incremento del 50%. Anche in questo caso avviene frequentemente la perdita di autorità monetaria da parte dello stato [<=] in questione, anche se parzialmente, poiché non viene meno la possibilità di stampare moneta locale, ma viene vincolata ai flussi delle valute facenti parte del board allinterno delle casse della banca centrale di riferimento. Anche qui assumono fondamentale importanza, come nel caso della dollarizzazione, i flussi di merci e di investimenti diretti e di quelli di portafoglio (finanziari). Tuttavia, esiste una grande difficoltà nella loro individuazione e gestione, generata dalla proliferazione degli strumenti finanziari nelle mani degli operatori.
I titoli derivati, di gran moda, sono strumenti finanziari il cui prezzo deriva dal valore di mercato dellattività sottostante: è una forma di capitale fittizio [<=]. Ben conosciuti, tra gli altri (swaps, options, ecc.) sono i futures, contratti a termine quotati sui mercati organizzati, in cui le controparti (acquirente e venditore) si impegnano ad adempiere, a una scadenza prefissata, ad una obbligazione i cui parametri (prezzo, quantità) sono stabiliti al momento della stipula.
Linsider trading è una pratica (più o meno ufficiale, visto che è vietata, e che corrisponde al reato penale di aggiotaggio) che per gli obiettivi suddetti risulta fondamentale. Con esso si indica lillecita utilizzazione di informazioni riservate o non ancora divulgate al mercato, al fine di compiere operazioni speculative in borsa e, quindi, fare illecitamente profitti nella compravendita di titoli. A riguardo è bene ricordare che questa pratica è messa in atto specialmente da quella parte dei lavoratori che occupano un posto di dirigenza di primo piano allinterno dellazienda. Al fine di favorire la loro integrazione con la classe padronale vera e propria, a questa aristocrazia viene pagata una parte dello stipendio sotto forma di azioni della società [Stock options], una pratica contraddittoria molto diffusa negli Usa, che inizia ora ad affermarsi anche in Europa.
Le scalate, sono operazioni in grado di modificare assetti proprietari prestabiliti. Esse sono acquisizioni di una quota di azioni di una società tali da assumerne il controllo. Vengono realizzate attraverso unofferta pubblica dacquisto o la negoziazione diretta con gli azionisti di riferimento. In alcuni casi si parla di scalata ostile per individuare unoperazione di acquisizione della maggioranza (assoluta o relativa) dei diritti di voto al fine di sottrarre il controllo della società allattuale azionista di maggioranza contro la sua volontà.
Gli eurodollari hanno rappresentato una pseudovaluta quando la finanza era meno complessa di ora, prima della nascita delleuro, che anche i paesi europei usavano, specie per i crediti concessi ai paesi dominati. Nel periodo di assoluta egemonia del biglietto verde Usa, con il termine eurodollari si indicavano i dollari posseduti da individui e istituzioni al di fuori degli Usa. Secondo la Bri, il fenomeno delleurodollaro è descritto come acquisizione della moneta statunitense da parte di banche localizzate al di fuori degli Stati Uniti principalmente mediante la accettazione di depositi, ma anche in qualche misura con lo scambio di valute estere contro dollari e la concessione in prestito di questi dollari, spesso dopo rideposito in altre banche, a mutuatari diversi dalle banche in qualsiasi parte del mondo. È importante sottolineare che il mercato degli eurodollari non era limitato solamente al vecchio continente.
I petrodollari hanno rappresentato unalra pseudovaluta utilizzata nelle transazioni internazionali. Con questo termine si sono indicati mezzi di pagamento denominati in valuta statunitense in mano ai grandi esportatori petroliferi in particolare lOpec in séguito al verificarsi del forte aumento dei prezzi del greggio dei primi anni settanta. Erano frequentemente trasferiti in banche domiciliate nei paesi imperialisti anche per limpossibilità di trarne un interesse dagli istituti di credito locali perché vietato dalla legge islamica della sharja.
I sistemi monetari aurei, che sono stati dominanti in passato, hanno chiaramente perso la loro esclusività cedendo allimportanza internazionale di alcune valute, incrementata dopo la fine della centralità delloro nel sistema monetario internazionale, in particolare dopo il 1971. Un paese si definiva in regime di Gold standard quando la sua banca centrale era tenuta a convertire in oro ogni ammontare della sua moneta [<=] che le fosse presentato. Nel Gold exchange standard, il sistema monetario a cambio aureo, invece, le banche centrali effettuavano a richiesta la conversione della propria valuta non in oro, ma in una divisa estera che era essa stessa in regime di Gold standard [Bimetallismo ?].
[al.b. f.s.]
Moneta unica
(corso dei cambi)
Sono ormai tanti gli anni di liturgiche litanìe passati intorno allaltare di Maastricht tra vicissitudini varie, crisi [<=] reali e bolle speculative [<=], entrate e uscite dal serpentesco sistema monetario europeo, e tante altre amenità che certo non dipendono dai protocolli di Maastricht, i quali ne sono semmai solo un effetto. I cosiddetti parametri di convergenza, scritti in tedesco dai rappresentanti del grande capitale monopolistico finanziario [<=] a base europea, costituiscono il simulacro dietro il quale si celano i governi nazionali. La realtà è tutta unaltra cosa. Tra laltro perché essa procede per suo conto, anticipando scadenze e slittamenti convenuti in via istituzionale. Una delle cerimonie più seguite è quella della Uem, riguardante lunione monetaria europea, che ha come rito simbolico il segno della moneta unica. Appunto quella moneta segno, come anche Marx intese chiamarla, che convenzionalmente caratterizza la denominazione del denaro che circola su un mercato nazionale. Proprio di questo si tratta, e quel mercato nazionale è ora il mercato [<=] unico della nazione [<=] europea. E come tale la questione va considerata.
Il passaggio da un mercato locale a un mercato nazionale è un processo storico che ha i suoi tempi definiti dallallargamento della produzione e dellaccumulazione in quellarea. La storia della nascita e dellascesa del capitalismo inglese costituisce un utile insegnamento. E così quella del passaggio dal mercato nazionale inglese al mercato mondiale dellottocento, per il movimento delle merci [<=], prima, e dei capitali [<=] britannici, poi. In unepoca in cui, pure, era più immediato il riferimento al tallone aureo (gold standard), laffermazione della sterlina come moneta rappresentativa del denaro universale sul mercato mondiale si basava unicamente sulla capacità di dominio e accentramento unificante del capitale inglese sulla via dellimperialismo [<=].
Così stanno le cose per lEuro oggi. [Occorrerebbe rammentare le determinazioni di denaro, in quanto merce, valore, distinte da quelle di moneta, segno e simbolo di una misura di valore predeterminata, insieme alle forme di passaggio da moneta locale a moneta nazionale, ossia da moneta nazionale a moneta europea. Ma è unanalisi più lunga da svolgere in altro momento]. Se si considera lEuropa come una nazione [<=] il cui mercato è in formazione, conseguentemente occorre analizzarne le componenti e le forme dominanti. Dunque, serve valutarne le tendenze e i tempi di effettiva integrazione. Tali tendenze e tempi non tengono in alcun conto le vicissitudini dei compromessi politici e delle rappresentazioni ideologiche. Seguono piuttosto le fasi della crisi [<=], in maniera che gli slittamenti e i ritardi del processo di formazione del mercato unico corrispondano alle difficoltà della ripresa del ciclo di accumulazione del capitale. Nel frattempo i rapporti reali della produzione si consolidano e fanno prevalere chi ha più forza.
Nel processo di formazione del mercato unico europeo, si sa, il posto preso dalla Germania è assolutamente dominante. Ciò vuol dire, semplicemente, che i tempi e i modi di definizione della moneta unica europea seguono, e non precedono, lassestamento del mercato (dei capitali) europeo. Questo mercato è determinato dal capitale a base tedesca. È per questo che la moneta europea che si chiamasse Euro o in qual altro modo, dopo che Ecu era ormai squalificato non può che seguire la storia del marco. E deve seguirla secondo le fasi della crisi del mercato mondiale. Il corso dei cambi è parafrasando Marx il barometro del movimento internazionale delle valute pregiate. La stabilizzazione, più o meno lenta, del corso dei cambi è solo la condizione, la premessa, per approdare a ununica moneta prevalente su un particolare mercato. Ma a sua volta tale stabilizzazione può conseguire solo a un assestamento del processo di produzione e accumulazione del capitale nellarea considerata. Questo è il quadro di riferimento generale [cfr. Marx, Il capitale, III. V.33-35]. Per capire meglio quanto si riferisce allItalia è bene partire dallultimo atto di questa storia.
Lafflusso di valuta pregiata e il miglioramento del cambio di una determinata moneta avviene prevalentemente in due momenti: in una prima fase di riduzione del tasso di interesse, che segue a una fase acuta della crisi e riflette la riduzione della produzione, la recessione (ed è quanto avvenuto in Italia nel 1996). Poi, in una seconda fase, anche quando il tasso di interesse aumenta, ma prima che esso abbia raggiunto il suo livello medio, può continuare lapprezzamento della moneta considerata (e si tratterà di verificare ciò per lItalia, nei prossimi anni, qualora loscillazione al rialzo non sia semplicemente riassorbita nella moneta unica). Infine, una terza fase corrispondente al crollo (guidato) dei tassi dinteresse ... La seconda fase è quella in cui lafflusso di valute pregiate è significativo, il credito commerciale può allargarsi, e quindi la domanda di capitale da prestito, produttivo dinteresse [<=] potrebbe non aumentare col ritmo al quale, invece, sarebbe capace di ampliarsi la produzione, se la speculazione [<=] non si conquistasse sempre maggiori spazi. Certo, le contraddizioni del ciclo di produzione del plusvalore [<=] e accumulazione su scala mondiale sono tali per cui non necessariamente il capitale monetario [<=] può trovare sbocchi produttivi. In ambedue le fasi ormai compiute, in cui il capitale da prestito è relativamente abbondante, infatti, lafflusso eccedente di capitale che esiste nelle forme monetarie pregiate, cioè sotto una forma in cui esso può operare in un primo momento soltanto come capitale da prestito, deve avere uninfluenza notevole sul tasso di interesse (sono questi i segnali internazionali richiamati in Bankitalia da Fazio).
Senonché il perdurante ristagno degli investimenti produttivi può provocare leffetto di un ritiro continuato di capitale come spiega Grossmann a proposito della critica allimperialismo [<= #2] in una forma in cui esso esiste direttamente come capitale monetario da prestito, e stornare codesto medesimo capitale verso attività speculative: la creazione dei fondi pensione, con la riforma previdenziale targata Fmi, ha precisamente questo obiettivo tampone, attraendo verso di essi anche i precedenti crediti privati a lungo depositati nel debito pubblico [<=]. Se un simile processo di aggiustamento reale riesce a riscuotere anche il successo monetario, il corso dei cambi delle monete coinvolte si stabilizza e il barometro valutario internazionale si ferma. La moneta unica, a questo punto, esisterebbe già, indipendentemente dai protocolli istituzionali e dalla denominazione, e sarebbe sostanzialmente determinata dalla valuta (o insieme di valute) più forte: nel caso in esame, il marco tedesco, mascherato da Euro o da marco italiano. Guardando indietro alla storia recente, allora, si capisce il senso della convergenza verso i parametri dellUem. LItalia, insieme ad altri paesi, aveva visto (e, per favorire le proprie esportazioni, anche agevolato) la svalutazione della propria moneta nazionale. Un tale deflusso valutario era il segno che i mercati erano saturi, e che lapparente prosperità (se così appare, come presso i neomonetaristi reaganiani) veniva mantenuta soltanto mediante il credito, la centralizzazione [<=] finanziaria e la speculazione.
Quando lesportazione e il deflusso di valuta pregiata (investimenti allestero, prestiti internazionali, manovre speculative, ecc.) assume una dimensione significativa e si prolunga nel tempo, le riserve bancarie sono intaccate e il mercato monetario per prima la banca centrale prende immediate misure di difesa. Queste consistono essenzialmente in una stretta monetaria e creditizia (a barriera dellinflazione crescente) e in un aumento del tasso di interesse. Questultima è una conseguenza ovvia della pesantezza del mercato monetario, nelle circostanze in cui la domanda di capitale da prestito e speculativo nella forma monetaria superi notevolmente lofferta. Il tasso ufficiale di sconto (tus) fissato dalla banca centrale non è una misura arbitraria o una scelta di politica economica (come anche numerosi economisti illuminati suppongono), ma corrisponde alla situazione di fatto e si impone sul mercato. La banca centrale, mediante operazioni di mercato aperto, rende il denaro scarso, come si usa dire, creando così una situazione che giustifichi un aumento del tasso di interesse. Senonché questa manovra di anno in anno le diventa più difficile, poiché il corso dei cambi viene influenzato dal rapporto tra i tassi di interesse in vigore in quei paesi del cui corso dei cambi si fa questione. Laumento del tasso di interesse, aumentandone il differenziale con altri paesi, invece di limitare lattività creditizia, e con essa lindebitamento, lallarga e porta a impegnare alleccesso tutte le risorse monetarie, approfondendo la crisi e causando i periodici e improvvisi crolli borsistici. Inoltre, se subentra il timore generale che questa tendenza si sviluppi crescendo, gli speculatori in primo luogo formulano delle aspettative in base alle quali cercano di scontare il futuro (i future, li chiamano gli anglosassoni doggi) per avere a propria disposizione in quel futuro la maggior quantità possibile di titoli di credito, primari o derivati.
La pura e semplice quantità delle valute pregiate e dei titoli in esse denominati, sia importate che esportate, non agisce però come tale, ma agisce in primo luogo attraverso il loro carattere specifico come capitale sotto forma monetaria, e in secondo luogo prosegue Marx come la piuma che, aggiunta al peso della bilancia oscillante, è capace di farla traboccare da una parte: agisce, perché sopravviene in circostanze in cui qualsiasi cosa in più da questa o quella parte è decisiva. Già i banchieri del secolo scorso sapevano che tutte le oscillazioni degli affari sono vantaggiose per coloro che conoscono il mestiere; senza parlare aggiunge Marx dei profitti privati che cadono di per se stessi in grembo ai signori direttori in seguito alle eccezionali possibilità che essi hanno di conoscere la situazione generale degli affari (oggi si chiama insider trading, o più volgarmente aggiotaggio). Altri rispettabili banditi dicevano già allora che la politica monetaria fatta attraverso il corso dei cambi, in tempi di crisi, provoca un enorme aumento del tasso di interesse. Le spese derivanti dalla ristabilizzazione del corso dei cambi cadono sullindustria produttiva del paese: Inghilterra 1844 o Italia 1996?
I flussi valutari sono fondamentalmente sintomo di modificazioni delle condizioni del commercio internazionale, e queste a loro volta sono sintomo della maturazione della crisi. Senonché i caratteri della crisi appaiono fenomenicamente solo dopo che si siano manifestate le perturbazioni nel corso dei cambi, ingannando losservazione superficiale, e provocando negli ignari la parvenza di uninversione della causa con leffetto. Anzi, spesso quando una nuova fase della crisi la terza, di cui sopra recessiva interviene è già avvenuta linversione dei flussi valutari e del corso dei cambi (si pensi al 1996 italiano: recessione con riduzione del tasso dinteresse e rivalutazione della lira). Lintero processo, permettendo alla banca del paese a valuta debole di invertire la manovra, si risolve così attraverso un movimento internazionale dei capitali che si trasferiscono da un paese allaltro finché esso non si stabilizzi. Non appena simili fasi della crisi sono esaurite, le valute pregiate defluiscono dal paese che ne aveva una quota superiore al normale per affluire in un altro, secondo limportanza afferma Marx che ogni paese riveste nel mercato mondiale. Quando le bocce si saranno tutte fermate intorno al marco tedesco, che fa da pallino, il mercato unico europeo potrà esser segnato in Euro. Sono necessari i più grandi sacrifici sulla ricchezza reale conclude Marx, commentando le azioni di quei rispettabili banditi che sono finanzieri e speculatori per conservare, in momenti critici, la base monetaria, la quale diventa il capitale par excellence, alla cui conservazione qualsiasi altra forma di capitale e di lavoro deve essere sacrificata. La discussione verte soltanto sul grado maggiore o minore, sul modo più o meno razionale di trattare linevitabile.
[gf.p.]
Monopolio # 1
Oggetto della nostra attenzione per il monopolio è oggi anzitutto il capitale monopolistico, senza la cui base come insegna Pietranera criticando Hilferding neppure avrebbe senso discutere, o sarebbe fuorviante alla maniera borghese e riformista, del capitale finanziario [<=]. Questultimo, infatti, non va confuso col capitale nella sua funzione esclusivamente speculativa [<=]. La prima delle tre caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica che conducono alla sua immanente crisi [<=] di cui scrive Marx, e che seguiremo testualmente, le altre due essendo lorganizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione e la scienza, e la creazione del mercato mondiale riguarda appunto la concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione, della cui potenza sociale i capitalisti, nella forma della proprietà privata della società borghese, sono i mandatari, intascando tutti gli utili di tale mandato.
Ogni capitale individuale è una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, in quel processo di accumulazione e allargamento della scala di produzione (di cui qui non diciamo altro) che, dallaltro lato, si presenta come repulsione reciproca di molti capitali [<=] individuali. Contro questa dispersione del capitale complessivo sociale agisce la concentrazione di capitali già formati, lespropriazione di un capitalista da parte di un altro capitalista, la trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi. Questo processo presuppone solo una ripartizione mutata dei capitali già esistenti. Il capitale [<=] che, per la necessità dellaumento incessante della scala di produzione e delle nuove applicazioni scientifiche, tecnologiche e organizzative, in molte mani andrebbe perduto portato in una mano sola diventa una grande massa: è questa la centralizzazione [<=] vera e propria, la spirale che porta alla formazione del monopolio come estremo limite di questo processo. Con la continua crescita del volume minimo del capitale individuale, si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, non come semplice ausilio della circolazione e dellaccumulazione, ma come potenza sociale che tira i fili invisibili dei mezzi pecuniari, altrimenti dispersi, ma necessari per le nuove forme dellaccumulazione, dellorganizzazione del lavoro combinato e della trasformazione tecnica predisposta scientificamente.
Col procedere dellaccumulazione capitalistica si allarga la scala della produzione e con essa la grandezza minima del capitale da anticipare, e ciò contribuisce a trasformare sempre più la funzione del capitalista industriale in in monopolio di grandi capitalisti monetari, isolati o associati. È per lappunto quel medesimo processo comune, che spinge verso il monopolio e lelevamento a potenza del credito, ciò che genera il moderno capitale monopolistico finanziario [<=], base dellimperialismo [<=]. Tutto ciò si trasforma in quella che Marx stesso definisce unarma nuova e terribile nella lotta della concorrenza. Come osserva Bukharin, il passaggio al sistema del capitalismo finanziario rafforza sempre più il processo di trasformazione della concorrenza, accompagnata dai metodi dellazione di potere, con un inasprimento dei rapporti sul mercato mondiale. Così, se da un lato la centralizzazione del capitale distrugge la libera concorrenza [<=], daltra parte essa la riproduce incessantemente su una base più allargata. Se essa annienta lanarchia delle piccole unità produttive, linasprisce però tra i grandi monopoli nazionali e transnazionali, ormai sullintero mercato mondiale. Come osserva Grossmann, il processo di monopolizzazione mira a eliminare la partecipazione dei capitali avversari. Ma è un processo che, individuando nel monopolio mondiale il mezzo idoneo, non riesce mai a giungere a crearne uno comune, crollando sempre di fronte alle insormontabili contrapposizioni interne di interessi dei partecipanti. Di qui deriva anche, seppure oggi in forme storiche mutate secondo le gerarchie della dislocazione internazionale del dominio capitalistico, lopposizione di interessi degli stati o delle comunità sovranazionali di stati.
Rimane perciò un pio desiderio qualsiasi accordo per un monopolio capace di stabilire un comune e durevole controllo internazionale. Come allinterno di un sistema capitalistico locale gli imprenditori attrezzati e organizzati al di sopra della media sociale conseguono un extraprofitto monopolistico, così sul mercato mondiale imperialistico i paesi a elevato sviluppo tecnico e finanziario conseguiranno extraprofitti a spese dei paesi dominati. Quanto più sul mercato interno (nazionale, macroregionale o perfino subcontinentale) la libera concorrenza viene sostituita dalle organizzazioni monopolistiche, tanto più si acuisce la lotta di concorrenza sul mercato mondiale. Del resto Engels, nel suo primo abbozzo di critica delleconomia politica, ironizzava sulla libera concorrenza come una battuta con la quale esordiscono i nostri economisti alla moda senza capire che essa è impossibile. Se infatti, allapparenza, sembra che il monopolio sia lopposto della concorrenza, è facile avvedersi come questa opposizione sia assolutamente vuota. Ogni capitalista, come si dirà, desidera naturalmente il suo monopolio contro tutti gli altri. La concorrenza si fonda sullinteresse, e linteresse genera a sua volta il monopolio: la concorrenza trapassa nel monopolio. Daltra parte il monopolio non può arrestare il flusso della concorrenza, anzi la genera esso stesso, e sempre più a misura che si sviluppa il mercato mondiale.
La contraddizione della concorrenza è del tutto identica alla contraddizione della proprietà [<=] privata, in quanto ciascun proprietario deve desiderare il monopolio. La concorrenza presuppone anzi il monopolio, ossia il monopolio della proprietà: e qui si manifesta ancora una volta lipocrisia dei liberali, che predicano il controllo legislativo del monopolio stesso, giacché finché sussiste il monopolio della proprietà è parimenti legittimata la proprietà del monopolio. Pietosa meschinità, già la chiamava Engels, quella di attaccare i piccoli monopoli particolari, quelli di ciascun ramo della produzione, per lasciar meglio sussistere il monopolio fondamentale, quello della proprietà privata. Senza questultima preventiva monopolizzazione nulla ha valore, nessuna merce [<=] può entrare nellarena della concorrenza: così la concorrenza presuppone il monopolio. Qui non interessa tanto trattare, dunque, del monopolio artificiale, in forza di una legge imposta quale prerogativa concessa o riservata per sé dal capitale tramite il suo stato; né tanto meno di quello accidentale dovuto a una momentanea limitata esclusiva di mercato dellofferta sulla domanda, tale da provocare un extraprofitto transitorio.
La tendenza specifica del modo di produzione capitalistico è invece proprio quella che fa derivare dalle sue stesse peculiari caratteristiche la centralizzazione e la formazione di quello che perciò è stato chiamato monopolio naturale [<=]: ossia quella forma di monopolio che è intrinseca alla legge generale dellaccumulazione; che sussume alle proprie leggi anche lantica proprietà terriera trasformandola in proprietà (e rendita) fondiaria capitalistica; che non è affatto incompatibile con la mobilità del capitale stesso sul mercato mondiale, il quale anzi contribuisce a formare, e con la tendenza al livellamento del tasso generale di profitto (come nota espressamente Marx); e che si accompagna, come detto, allo sviluppo del sistema del credito. Basti pensare che la merce più caratteristica del modo di produzione capitalistico, il denaro denaro come capitale necessita più dogni altra del monopolio: dal moderno sistema del credito, al capitale monopolistico finanziario, alle banche centrali, agli organismi monetari sovranazionali. Senza codesto monopolio le crisi si farebbero più erratiche ed esplosive, tanto che è attraverso il controllo monetario da parte degli organismi statali e sovranazionali che il capitale cerca di gestirle. Ma vanamente, giacché anche il monopolio è impotente contro il denaro falsificato, il muro di carta. Perciò una soluzione è possibile solo eliminando entrambe le forme, concorrenza e monopolio, che si generano a vicenda: ma questa difficoltà potrà essere rimossa solo eliminando il principio che le genera entrambe la proprietà privata.
[gf.p.]
(iI riferimenti testuali sono tratti da F.Engels, Lineamenti di una critica delleconomia politica;
K.Marx, Il Capitale, I.23; III.10,15; Lineamenti fondamentali, VI; N.I.Bukharin, Leconomia del periodo di trasformazione, I; H.Grossmann, La legge dellaccumulazione e del crollo del capitalismo, 3.II; G.Pietranera, Introduzione al Capitale finanziario di Hilferding)
Monopolio # 2
(funzione storica)
La rapidità sempre crescente con cui la produzione può oggi essere accresciuta in tutti i campi della grande industria, ha come contropartita la lentezza sempre crescente con cui si estende il mercato [<=] che dovrebbe assorbire questa quantità accresciuta di prodotti. Ciò che la produzione fornisce in termini di mesi, il mercato può appena assorbire in termini di anni. Si deve a ciò aggiungere la politica protezionistica, per cui ogni paese industriale si chiude agli altri e accresce artificialmente la capacità produttiva nazionale. Le conseguenze sono una sovraproduzione cronica generale, diminuzione dei prezzi, diminuzione o anche sparizione totale dei profitti, in breve la tanto vantata libertà della concorrenza [<=] non ha più nulla da dire ed è costretta ad annunciare essa stessa il suo evidente e scandaloso fallimento. Tanto è vero che in ogni paese i grandi industriali di un determinato settore si raggruppano in un cartello per regolare la produzione. Un comitato fissa la quantità che ogni stabilimento deve produrre e ripartisce in ultima istanza le ordinazioni ricevute. In alcuni casi si sono avuti anche dei cartelli internazionali. Ma anche questa forma di socializzazione della produzione non fu sufficiente. Il contrasto di interessi delle singole compagnie la spezzava troppo spesso e ristabiliva la concorrenza. Si arrivò così, in singoli settori in cui il grado della produzione lo permetteva, a concentrare tutta quanta la produzione di un settore in una grande società per azioni, a direzione unica. In tal modo, in questo settore, la concorrenza è sostituita dal monopolio, e si prepara così, con nostra grande soddisfazione, la futura espropriazione da parte della società intera, da parte della nazione [<=].
Questa espropriazione si compie attraverso il gioco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione [<=] dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con lespropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa [<=] del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, leconomia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dellasservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più singrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico.
Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona lultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà [<=] privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con lineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dellera capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso. La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della proprietà capitalistica, che già poggia di fatto sulla conduzione sociale della produzione, in proprietà sociale [<=]. Là si trattava dellespropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori, qui si tratta dellespropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo.
[f.e.-k.m.]
(da Il capitale, III.27; I.24)
Monopolio naturale
Il processo di centralizzazione [<=] dei capitali richiede diversi termini per il suo sviluppo e compimento. Tra questi, in alcune fasi storiche, assume particolare rilievo lelemento tecnologico che può combinare specifiche condizioni di produzione alla dinamica capitalistica interna di centralizzazione. Queste condizioni si sostanziano nelle cosiddette economie di scala ed economie di differenziazione. La cosiddetta non convessità delle curve di costo di produzione ossia, sviluppate con tecnologie a rendimenti crescenti determina le economie dovute alla scala di produzione, cioè alle quantità prodotte in un ciclo di produzione. La minimizzazione dei costi medi unitari richiederebbe, per questo tipo di imprese, una scala di produzione che trova solo in mercati di dimensioni (almeno) nazionali la propria realizzazione. Lefficienza nella produzione è percorribile allora solo in condizioni di massima centralizzazione del mercato: si è in presenza di un monopolio naturale. Per fornire un servizio ferroviario, telefonico, od elettrico, questa legge economica ha per decenni imposto una produzione centralizzata su un unico operatore. Il monopolista può, però, praticare politiche di prezzo che gli consentono extra-profitti: allefficienza nella produzione non corrisponderebbe dunque quella nella tariffazione dei servizi. Lintervento pubblico regolatore è diretto allora a imporre prezzi uguali ai costi marginali perseguendo lefficienza allocativa e distributiva.
Se da unimpresa monoprodotto si passa ad analizzare una impresa che produce più prodotti / servizi si deve sviluppare la definizione di monopolio naturale: il concetto di monopolio naturale infatti ha dovuto necessariamente evolversi in conseguenza delle modifiche intervenute nei settori che, nella fase alta del ciclo di accumulazione, erano sostanzialmente monoprodotto. Si deve allora introdurre il concetto di subadditività dei costi: ossia, una funzione di costo è detta subadditiva se il costo totale della produzione di n prodotti, centralizzata in una impresa, alle quantità richieste dal mercato, è inferiore alla somma dei costi totali delle stesse produzioni sviluppate da più imprese. Utilizzare una stazione radio per connessioni in fonìa o per inviare files con le informazioni di borsa [<=], consente uneconomia nellammortamento del traliccio e parte delle strutture trasmissive. Siamo allora in presenza di economie di differenziazione". Se il punto minimo dei costi viene raggiunto con un volume totale di servizi offerti di dimensioni nazionali, la convenienza di una produzione centralizzata è in grado di giustificare un monopolio naturale.
La rilevante differenza con la precedente definizione teorica di monopolio naturale è che la sufficienza delle economie di differenziazione può annullare, in astratto, la necessità delle economie di scala (ci pptrebbe essere addirittura compatibilità teorica tra esistenza di monopolio naturale e convessità della curva dei costi). Questo sdoppiamento delle condizioni di sufficienza rafforza la dinamica naturale di concentrazione dovuta alle leggi tecnologico-organizzative di costo. In realtà le economie di differenziazione non si oppongono a quelle di scala, ma le sviluppano e le potenziano. La differenziazione delle merci [<=] avviene su un insieme di elementi base la cui produzione è e continua ad essere di larga scala, di massa. La flessibilità toyotista non rimuove il carattere di massa della fase fordista: lo mantiene e lo potenzia. Lenfasi sulle economie di differenziazione rispetto a quelle di scala è resa necessaria dalla storia recente dellindustria capitalistica, dominata dal paradigma toyotista della flessibilità [<=]. Alla flessibilità corrisponde infatti generalmente anche la differenziazione della produzione di merci, necessaria per fronteggiare i capricci dei mercati in crisi. Le nuove connotazioni del monopolio naturale lo rendono quindi adeguato alla fase attuale di crisi di sovraproduzione [<=] di valore.
[m.g.]
Morale # 1
(morale e potere)
Ci sia concesso riesaminare Diderot, per la tematica che avvolge in continui rovesciamenti morale e potere [<=]. Nonostante sia così remoto (intorno al 1762) il tempo in cui si svolse lanalisi di questo enciclopedista, prima ancora cioè della Rivoluzione francese, il quadro sociale e politico che ne emerge offre unangolazione riflessiva anche per il nostro presente, che non è sequenza casuale di atti e assenza ideologica. Mediante la sua acuta osservazione, la storia si decanta dei suoi particolari transitori per entrare nelleterno cammino del pensiero umano e del concetto. Ci uniamo così a questo cammino della conoscenza, grati di attraversare insieme a dei geni la vita di questo ponte comune, sotto cui scorrono secoli sempre diversi, proprio come le acque degli stessi fiumi. In particolare, continuiamo a riflettere su unopera famosa, Il nipote di Rameau, tradotta da Gthe, apprezzata da Hegel, utilizzata da Marx ed Engels, ecc., in cui Diderot affronta diverse tematiche tra cui quella del rapporto dei singoli col potere. La morale, dirà Hegel più tardi, è la libertà del soggetto nel determinare la propria volontà particolare estrinsecata nellazione, secondo un proposito (basato sul sapere) e unintenzione (una sostanza e uno scopo).
Lazione morale, in quanto esistenza esterna al soggetto che lha determinata, diviene anche indipendente da questultimo, nel senso che può evidenziare qualcosaltro che non era stato posto in essa. Il soggetto riconosce pertanto come sua propria, come di sua responsabilità, quella parte di azione entrata nellesistenza che era nel suo sapere e nella sua volontà. Il potere, che non è un prius ma anchesso risultato, determina la morale degli individui che vi si debbono rapportare per sopravvivere, per sgusciare, per fare carriera, per scalarlo e goderne i favori, ecc. Le determinazioni morali si esprimono quindi nelle idee di cui gli individui sono portatori, nientaffatto liberi [<=] nelle loro coscienze dalla propria particolarità, che inevitabilmente va incontro alla collisione dei molteplici beni e doveri determinatisi in modo indeterminato nel mondo. Le idee e le azioni, nel loro continuo scavalcarsi e prodursi costituiscono lunità contraddittoria della soggettività e delloggettività, di cui il soggetto è la dialettica.
Nel dialogo fittizio in cui è tessuto Il nipote di Rameau spicca il potente ruolo della negatività, in cui il nipote trova la sua libertà nel dire tutto, negando tutto. È la verità essenziale stessa (come ribadirà anche Engels) che nel suo venire a esistenza scardina il buon senso comune e lastrazione metafisica. La forma di questo capolavoro dialettico è quella della satira: le condizioni sociali dellepoca, tratteggiate da uno che di storia si professa ignorante, si stagliano entro le riflessioni filosofiche come parte dellagire umano, sempre occupato nel presente ma già orma del futuro.
Il potere si insinua negli individui dominati e li divide in ordinati e originali. Al genio, al ribelle, al dissenziente non resta che intrattenersi con se stesso: sua compagna, la solitudine. Bene va se trova qualcuno che gli dia la battuta. Il genio mostra linanità di una supposta unicità monotòna dellindividuo: più lindividuo è o si rende libero (cosciente), più è sfaccettato, plurale, ineguale (La Bruyère), multiplo (nulla è più dissimile da lui se non se stesso). Poteri particolari, oggettivati in quello religioso e della finanza, dimagriscono o ingrassano gli individui in loro balìa; la proprietà, la ricchezza è la sostanza unica che forma e separa le classi. La loro divisione è rigida come le sue regole gerarchiche. Ma gli individui si toccano, in sé non riconoscono la loro appartenenza necessaria alle classi di provenienza, perché le cateratte delle convenzioni, pietà, carità, ipocrisia, cortesia, silenzio velano gli occhi sociali con i quali si insegna a vedere. Il genio ha invece gli occhi della natura estraniati nellosservare se stessa, duplicati in una cultura apparentemente senza storia e che invece ne è una sintesi sfuggita al controllo del potere. Questo, infatti, può solo emarginare, denigrare e disprezzare quelluno di contro alla, ma per, la moltitudine; quelluno che è antagonista a se stesso e che per questo può denunciare la coercizione che esalta i propri campioni disumanati, che si serve sempre di menzogne per riuscire a governare [<=].
Per affermare ciò Diderot si serve della negazione se sapessi la storia vi mostrerei che il male è sempre arrivato quaggiù da qualche uomo di genio. Ma non conosco la storia, perché non so niente. Il diavolo mi porti se ho mai imparato niente, e se, proprio per non aver imparato niente, mi trovo più a mal partito. Un giorno ero alla tavola dun ministro del re di Francia che ha uno spirito per quattro; ebbene, quello ci mostrò chiaramente, come uno più uno fa due, che niente era più utile ai popoli delle menzogne, e niente più noioso della verità. Non mi ricordo bene le sue prove, ma evidentemente ne seguiva che le persone geniali sono detestabili e che, se un bambino alla nascita portasse in fronte la caratteristica di questo pericoloso dono di natura, bisognerebbe soffocarlo o gettarlo nella spazzatura. Il rovesciamento dellodio per luomo di genio raggiunge perfino il disprezzo: il saggio (Socrate!) non sa neppure evitare la condanna a morte, di essere un cittadino turbolento e trascinare i folli nel suo destino, non sa procurarsi i beni e i piaceri della vita. Che tutto vada come può. Lordine migliore delle cose, a mio avviso, è quello in cui io dovevo stare, e al diavolo il più perfetto dei mondi, se io non ci sto. Mi piace di più essere, e perfino di essere un ragionatore impertinente, piuttosto che non essere.
La morale comune si scardina pezzo per pezzo lasciando intravedere la trama di funzionalità al dominio, di vuoto teorico di un ordito di empiria ordinabile. Ero dunque geloso di mio zio; e se alla sua morte, nel suo portacarte si fosse trovata qualche bella partitura per clavicembalo, non avrei esitato a mettere da parte me stesso per diventare lui. La vita va giocata per il riconoscimento e le lodi altrui, una buona casa, un buon letto, dei buoni vini, una bella carrozza, belle donne, ecc. Sposare la logica dellinteresse è dunque abbeverarsi alla naturalezza con cui il potere adesca i suoi, e un attimo di distrazione, di senso comune, di gusto, di spirito, di un po di ragione può tradursi in irreversibile, miserrima perdita dei privilegi. Essere se stessi equivale a cadere in miseria, a non essere più.
[c.f.]
Morale # 2
(morale di classe)
Moralità Quando il piano di una campagna è male ideato, le sue mète troppo vaste per gli eserciti a disposizione, la sua esecuzione difettosa, allora bisogna che i soldati siano particolarmente prodi. Con la virtù della particolare prodezza i soldati dovrebbero ottenere quanto non può ottenere limbecillità dei generali.
Così accade anche con la moralità. Il pane e il latte sono cari e il lavoro rende poco o non cè. Allora i poveri dovrebbero rivelare una particolare moralità a non rubare. In una situazione quale labbiamo descritta può dire di essere a favore della moralità solo colui che provvede a che non sia necessaria alcuna particolare moralità ... in quanto i viveri hanno prezzi accessibili. In modo del tutto generale va detto che ogni paese in cui è necessaria una particolare moralità è male amministrato.
Egoismo Quando i commercianti vendono merce scadente e possono chiedere prezzi alti; quando si possono costringere i nullatenenti a lavorare duramente per poco; quando si guadagna a tener lontane le invenzioni dagli uomini; quando si possono mantenere i membri della famiglia in una situazione di dipendenza; quando si può ottenere qualcosa con la violenza; quando linganno rende; quando i machiavelli portano vantaggi; quando la giustizia porta svantaggi allora si è egoisti. Se non si vuole avere legoismo non bisogna parlare contro di esso bensì creare uno stato di cose in cui non sia necessario.
Parlare contro legoismo significa spesso voler mantenere uno stato di cose che rende legoismo possibile o addirittura necessario (Se cè troppa gente e poco cibo, o muoiono tutti di fame oppure alcuni restano in vita, ma allora hanno agito in modo egoistico). Contro lamor di sé non si può aver nulla se non si rivolge contro altri. Invece si può aver qualcosa contro la mancanza di amore di sé. Le cattive situazioni derivano sia dallamore di sé di alcuni che dalla mancanza di amor di sé degli altri.
Se si vuole avere un amore di sé che non si rivolga contro gli altri, bisogna cercare di ottenere una situazione che ingeneri un siffatto giusto amore di sé. Coloro che vivono in questa situazione aiuteranno a renderla generale. In Stati [<=] ordinati legoismo serve alla generalità.
Fare e sopportare il torto Più importante che insistere su come è sbagliato fare il torto, è insistere su come è sbagliato sopportare il torto. Solo pochi hanno occasione di fare il torto, molti di sopportarlo. La pietà verso gli altri che non è pietà verso se stessi è da ritenere meno attendibile della pietà verso se stessi che è al contempo pietà verso gli altri.
Amore del prossimo Sulla frase Devi amare il tuo prossimo come te stesso: se i lavoratori fanno questo non aboliranno mai uno stato di cose in cui si può amare il proprio prossimo solo se non si ama se stessi.
Amore della giustizia Gli oppressi e gli sfruttati sono per la giustizia, ma per loro non è che loppressione e lo sfruttamento debbano cessare onde regni giustizia, ma deve regnare giustizia onde cessino oppressione e sfruttamento. Quindi gli oppressi e gli sfruttati non sono persone giuste.
Bontà Alcuni appaiono buoni in quanto rendono agli altri dei servigi senza che ciò favorisca i loro interessi, quindi senza motivo, per bontà appunto. Questo predicato della bontà uno lo può ottenere abbastanza facilmente se i suoi interessi sono poco chiari (più sottili) oppure se egli li avverte in modo poco chiaro, in modo trascurato. Per esempio se uno dà del denaro a un altro e in cambio richiede soltanto delle adulazioni, potrà ottenere il predicato della bontà, perché di solito dalle adulazioni ci si separa più facilmente che dal denaro. In ordinamenti sociali con grande differenza di reddito il predicato della bontà non è difficile da ottenere. A guardar meglio questa specie di bontà appare irrilevante sul piano sociale, a guardare ancor meglio appare molto dannosa in grande scala.
In questa specie di bontà rientra anche il prendere alla leggere il danno infertoci, una certa buona disposizione ad apprezzare i motivi che hanno spinto laltro a danneggiarci. Luomo buono (in questo senso) si dice pressappoco: Quel che io stesso infliggerei a qualcuno, me lo lascio infliggere. E in questo caso si può ottenere un predicato di bontà speciale se uno dà limpressione di lasciarsi danneggiare perfino in misura maggiore di quanto per parte sua sarebbe disposto a danneggiare un altro.
Così ottiene il predicato della bontà sia colui che regala allaffamato un pezzo di pane, sia colui che gli perdona un tentativo di furto. A guardar meglio è un predicato irrilevante, a guardare ancor meglio un predicato dannoso. Essere innocui non significa essere buoni.
Compassione La compassione è ciò che non si nega a coloro cui si nega laiuto. Non bisogna mettersi nei panni di chi soffre per soffrire, bensì per por fine alle loro sofferenze.
[b.b.]
(da Me-ti)
Morale # 3
(delinquenza)
Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra questultima branca di produzione e linsieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò produce anche il professore che tiene lezioni sul diritto criminale, e inoltre linevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto "merce" [<=]sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale.
Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche , e ha impiegato nella produzione dei suoi strumenti una massa di onesti artefici.
Il delinquente produce unimpressione sia morale, sia tragica, a seconda dei casi e rende così un "servizio" al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali e con ciò legislatori penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra i lavoratori e impedendo in una certa misura la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe unaltra parte della stessa popolazione.
Il delinquente appare così come uno di quei naturali "elementi di compensazione" che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di "utili" generi di occupazione. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva così quella vita dalla stagnazione, e suscita quella inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive.
Evidentemente, e comè daltronde ben noto, Marx che non era un moralista, ed è facile intenderlo da questa sua sarcastica digressione sul lavoro produttivo, appuntata contro gli economisti borghesi nel I libro delle Teorie sul plusvalore ben sapeva come la produttività del delinquere fosse organica al capitalismo (e non viveva in Italia!). Incomprensibilmente invece cioè per incomprensione della realtà lapparire del lato delinquenziale del produrre ricchezza provoca in tanta cosiddetta sinistra, pienamente organica anchessa al capitalismo nostrano, scandalo e riprovazione. Che poi si concretizzano nullaltro che in sterili richiami a una purezza ideal-borghese dei rapporti di produzione che è del tutto immaginifica. Ed anche nei migliori fra tali moralisti lineffettualità della condanna è già inscritta nella sua sostanza appunto soltanto morale [<=, #1 #2], in assenza e di reale comprensione del fenomeno e di congrue pratiche (politiche) capaci di opposizione-trasformazione.
Come in quei tanti tra i sinistri che, ci capita di sentire, son preda di inconsulto stupore allorché, di fronte al conclamato scandalo, notano come la massa dei cittadini [sic] non riesca a trarne motivo di rifiuto e presto dimentichi tutto quanto. Non è tanto che la massa dimentichi, diciamo loro, quanto piuttosto che il dimenticare o il ricordare di per se stessi a nulla valgono.
La reazione al dato, allinformazione, perché non sia né vana né effimera né meramente moralistica, richiede infatti che vada ad innestarsi su di un già presente sostrato di pratiche collettive, politiche tale da esser capace di tradurre quelle emergenzialità contingenti in una ridislocazione in un aggiustamento di tiro dellagire politico stesso. E, guarda caso, perché si abbia ciò è richiesta infine la presenza di un soggetto politico organizzato capace di dare sostanza e direzione allagire dei pur motivati singoli.
Gli stupefatti di tanta popolare ignavia dovrebbero piuttosto chie-dersi se queste condizioni sono oggi presenti in Italia. Vedrebbero allora che nella generale assuefazione del- le masse allimpotenza diviene del tutto razionale (cioè necessario, a livello dellagire immediato e isolato) accettare, appoggiare e far proprio (anche idealmente) quel delinquere e quel delinquente che sappia mostrare, a posteriori e col proprio successo, la bontà del suo operato.
E un domani, se leroe delinquente dovesse andare a finir male, il seguace entusiasta della primora potrebbe pur sempre sottoscrivere quanto dichiarò il nazista Eichmann al suo processo: avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dellesercito tedesco al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone. Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli.
[n.s.]
Morale e classe
(insegnamenti e aforismi classici)
Il delinquente produce unimpressione, sia morale [=> quiproquo 81-83-85], sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un servizio al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non fa nascere soltanto manuali di diritto criminale, non fa concepire soltanto codici penali e con ciò legislatori penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva così quella vita dalla stagnazione, e suscita quella inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra i lavoratori e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe unaltra parte della stessa popolazione. Il delinquente appare così come uno di quei naturali elementi di compensazione che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di utili generi di occupazione.
Chiunque ancora mettesse in dubbio che questi rispettabili banditi sfruttano la produzione nazionale e internazionale soltanto nellinteresse della produzione e degli sfruttati stessi, costui sarà certamente un po meglio istruito dal seguente sermone sullalta dignità morale del banchiere. Gli istituti bancari sono istituzioni religiose e morali. Quante volte la paura di essere visti dallocchio attento e ammonitore del suo banchiere non ha distolto il giovane commerciante dalla compagnia di amici agitati e dissoluti? Quanto si preoccupa di godere buona reputazione presso il banchiere, di apparirgli sempre ineccepibile? Un aggrottamento di ciglia del banchiere ha su di lui un effetto maggiore delle prediche morali dei suoi amici; non trema egli al pensiero di poter essere sospettato colpevole di un inganno o della più piccola affermazione inesatta, per timore che ciò possa provocare diffidenza e quindi una restrizione o una sospensione del suo credito bancario? Il consiglio del banchiere è per lui più importante di quello del sacerdote (Bell, direttore di banca scozzese). [Karl Marx]
Nella storia della società, appena oltrepassiamo lo stato primitivo dellumanità, letà della pietra, le ripetizioni delle condizioni sono leccezione e non la regola; e laddove tali ripetizioni si presentano, esse non accadono mai precisamente nelle medesime circostanze. La nostra scienza è perciò nel campo della storia umana di gran lunga più indietro che nel campo della biologia. Ma cè di più: se una volta, in via eccezionale, si riconosce il legame intimo tra forme di esistenza sociali e forma di esistenza politiche di un periodo storico, questo di regola succede allorché queste forme hanno già fatto in parte il loro tempo e vanno incontro alla decadenza. La conoscenza, quindi, è qui essenzialmente relativa perché essa si limita a penetrare il nesso e la successione di certe forme di società e di Stato che vigono solo per un dato tempo e per dati popoli e che per loro dunque transeunti. Ora, è curioso il fatto che proprio questo campo è quello in cui più spesso ci imbattiamo nelle pretese verità eterne, nelle verità definitive di ultima istanza e così via. Sono dichiarate verità eterne solo da chi mira ad arguire, dallesistenza di verità eterne, che anche nel campo della storia umana ci sono verità eterne, una morale eterna, una giustizia eterna e così via, che esigono una validità e una portata analoga a quella delle conoscenze e delle applicazioni della matematica.
Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa [Enciclopedia delle scienze filosofiche]. La libertà non consiste nel sognare lindipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano lesistenza fisica e spirituale delluomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare luna dallaltra tuttal più nellidea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio delluomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre lincertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quelloggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. Non si indaga e non si giudica in modo criticamente scientifico, ma senzaltro si condanna in nome della morale. [Friedrich Engels]
La coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se i lavoratori non imparano a osservare, sulla base dei fatti e degli avvenimenti politici concreti e attuali, ognuna delle altre classi sociali in tutte le manifestazioni della vita intellettuale, morale e politica; se non imparano ad applicare in pratica lanalisi e il criterio materialistico a tutte le forme dattività e di vita di tutte le classi, strati e gruppi della popolazione; se non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dellarbitrio e delloppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la classe che ne è colpita, e a reagire da un punto di vista comunista e non da un punto di vista qualsiasi. Chi induce la classe operaia a rivolgere la sua attenzione, il suo spirito di osservazione e la sua coscienza esclusivamente, o anche principalmente, su se stessa, non è un comunista, perché per la classe operaia la conoscenza di se stessa è indissolubilmente legata alla conoscenza esatta dei rapporti reciproci di tutte le classi della società contemporanea, e conoscenza non solo teorica, anzi, non tanto teorica, quanto ottenuta attraverso lesperienza della vita politica. Le denunce politiche sono una dichiarazione di guerra al governo, come le denunce economiche sono una dichiarazione di guerra agli industriali. E questa dichiarazione di guerra ha unimportanza morale tanto maggiore quanto più vasta e vigorosa è la campagna di denunce, quanto più numerosa e decisa è la classe sociale che dichiara la guerra per iniziarla. Le denunce politiche sono dunque, di per sé, un mezzo potente per disgregare il regime nemico, per staccare dal nemico i suoi alleati casuali o temporanei, per seminare lostilità e la sfiducia tra i ceti che partecipano permanentemente al potere autocratico. [Vladimir Lenin]
Catturare linfanzia del paese, meccanizzare il suo libero gioco nella routine dellesercitazione militare, coltivare le sopravvivenze selvagge della combattività, avvelenare la sua prima comprensione della storia con false idee e pseudo-eroi, e di conseguenza con la denigrazione e lignoranza di ogni lezione del passato veramente vitale e nobile, stabilire un punto di vista geocentrico delluniverso morale in cui gli interessi dellumanità sono subordinati a quelli del paese e così con una facile rapida e naturale deduzione, quelli del paese a quelli dellio alimentare lorgoglio sempre arrogante della razza in unetà in cui il più delle volte prevale una fiducia in sé, che per necessaria conseguenza porta a disprezzare le altre nazioni, e in questo modo avviare i bambini alla vita con false misure di valore e senza il desiderio di apprendere dalle fonti straniere: imprimere questo isolamento di fondo della mentalità e della morale allinfanzia di una nazione e chiamarlo patriottismo è il più scorretto abuso di educazione che sia possibile immaginare. Tuttavia il potere della chiesa e dello stato sullistruzione primaria è volto coerentemente a questo scopo, mentre la mescolanza di clericalismo e accademismo autocratico che domina listruzione secondaria di questo paese riversa il suo entusiasmo negli stessi nefasti canali. Infine, i massimi centri della nostra cultura, le università, corrono il pericolo di una nuova distorsione della libertà di indagine e di espressione. [John A. Hobson]
Non è certo che un can che affoga non vada bastonato, o che addirittura non sia doveroso bastonarlo. Io penso che vada aggiunta una condizione, e cioè che lavversario sia anchegli un combattente leale e, una volta sconfitto, si vergogni e non si rialzi; oppure torni alla rivincita apertamente e coraggiosamente. Se è così, nulla da dire. Bisogna vedere di che cane si tratti e come sia caduto in acqua. Grosso modo, può essere caduto per tre motivi: i. ha messo il piede in fallo ed è caduto da sé; ii. cè stato gettato da altri; iii. ce lhai gettato tu stesso. Se hai lottato con un cane e di tua mano lhai bastonato fino a gettarlo in acqua, è ancora poco continuare a malmenarlo nellacqua con un bastone. Un cane non si può mettere sullo stesso piano di un avversario leale perché, qualunque sia il suo modo di ringhiare, è sempre privo di ogni principio morale. E poi il cane sa nuotare, senza dubbio tornerà ad arrampicarsi a riva; non cambierà carattere. Gli ingenui, prendendo la sua caduta in acqua per un lavaggio, credono che si pentirà e smetterà di mordere: questo è un errore particolarmente grave. Insomma, se si tratta di cani che mordono, credo vadano inclusi comunque tra quelli da bastonare, sia a riva che in acqua.
Ma gli avversari non odiano i buoni come nemici? Eppure la gente non dice una parola. Se da ora in poi la luce e le tenebre non condurranno una lotta a fondo e gli ingenui scambieranno la condiscendenza verso il male con la benignità e continueranno ad essere indulgenti, il caos attuale sarà senza limiti e senza fine. Allora non si deve adottare mai il fair play?, chiederanno le persone misericordiose. Naturalmente si deve, ma è ancora presto. Se uno non usa con te il fair play, la gentilezza, e tu lo usi con lui, alla fine sarai tu a subirne il danno. E non ti sarà più possibile non solo essere gentile, ma neppure non esserlo. Perciò, se volete essere gentili, prima di tutto è meglio che osserviate bene lavversario; se appena è indegno di essere trattato con gentilezza, non fate complimenti: solo quando avrete ottenuto da lui il fair play potrete usarlo con lui. Si sospetterà che con questo io aizzi la lotta fra correnti vecchie e nuove o fra altre correnti, e renda più profondo lodio e più violento il conflitto. Oso affermare categoricamente che il veleno degli antiriformatori contro i riformatori non è mai venuto meno, e i metodi impiegati non potrebbero esser più crudeli. Invece i riformatori sono ancora immersi nel sogno, e ne traggono danno: perciò non cè riforma. Da ora in poi è necessario mutare condotta e metodi. Ci sono tante doppie morali: per i padroni e per i servi, per gli uomini e per le donne, la morale non è la stessa, non è stata ancora unificata. Usare solo al can che affoga la stessa benevolenza che alluomo caduto in acqua è troppo intempestivo, troppo prematuro. Se si vuole che lo spirito del fair play venga adottato universalmente, ritengo che si debba aspettare almeno fino a quando i cosiddetti cani che affogano abbiano modi umani. In una frase: Sostieni i tuoi e attacca i nemici. Ed è tutto. [Lu Hsün]
È immorale che una donna, che prende denaro
per affittare i suoi organi sessuali, li affitti poi anche ad
altri, a meno che non si sia convenuto così. È vero però che
in siffatti paesi la donna non trova neanche un boccone da
mangiare, né un giaciglio, se non affitta i suoi organi
sessuali, sicché un inganno da parte sua infrange in fondo solo
un contratto immorale. Ma se non ha nulla per coprire
verecondamente la propria nudità, a meno che non la venda!
Voglio dire: in un paese come il nostro è tutto immorale, sia
ladulterio che il matrimonio. Ci sono poche occupazioni che
danneggino la morale di un uomo tanto quanto loccuparsi
di morale. Sento dire: bisogna amare la verità, bisogna
mantenere le promesse fatte, bisogna lottare per il bene. Ma gli
alberi non dicono: bisogna essere verdi, bisogna lasciar cadere
verticalmente i frutti al suolo, bisogna frusciare con le foglie
quando ci passa il vento. [Bertolt Brecht]
Chi ha il coraggio di stropicciarsi per bene
gli occhi una buona volta e vedere in che modo tutta
limmoralità è venuta in questo mondo, rimarrà
abbagliato dalla scoperta che il male lha causato tutta
la morale di questo mondo. E si va oltre: la morale ha
provocato anche tanta miseria e morte. La morale è una malattia
venerea. In un primo tempo si chiama virtù, in un secondo tempo
noia e in un terzo tempo sifilide. E dato che una religione
che perdona spietatamente ha dato agli uomini la virtù
come punizione per i loro vizi, gli imbecilli che governano
il mondo hanno avuto lidea di consacrare la morale
come un bene di diritto. E ora la morale infuria contro
lumanità nelle legittime forme della noia e della
sifilide. La morale paralizza, monta al cervello, accieca,
asciuga le linfe vitali, indurisce le arterie. Non possiamo
intraprendere nulla a questo mondo, esercitare un lavoro,
risolvere un problema senza che si faccia sentire linflusso
corruttore della morale. Se si tratta di una questione di
evoluzione artistica, siamo moralisti; se si tratta di novità
di ordine pratico, siamo moralisti; uno muore per la febbre, e
noi in sovrappiù lo contagiamo con la morale. Ma siamo così
moralisti che non ci limitiamo a dare solo ai preti il piacere di
curare la nostra anima: la diamo in custodia ai nostri
criminalisti, e dobbiamo perciò difendere, già con tre istanze,
cose che in realtà spettano solo al giudice supremo e che
probabilmente nemmeno lo interessano. Tra queste cè a
esempio la nota e a ragione amata convivenza
extramatrimoniale, dalla quale quasi sempre luna o
laltra autorità statale si sente offesa.
E cè anche il diritto naturale della
donna a dissipare la somma dei suoi pregi estetici con chi vuole,
o farla convertire, da chi lei vuole, in valuta sonante. Dato che
si tratta di un evento puramente morale, le autorità ci si
immischiano dentro. Naturalmente si vergognano della loro
indiscrezione. Ma mentono. In realtà, per quanto riguarda il
problema della prostituzione, non hanno altro interesse che
quello di uccidere ligiene con il manganello della morale.
Lamore è condito con i rimorsi di coscienza e i rimorsi di
coscienza sono gli impulsi sadici del cristianesimo. La
perversità dei piaceri della vita ci mostra i suoi aspetti più
spaventosi in casa e nella società, e crea lesigenza di
andare ogni tanto in un bordello dove poter ricordare che la
purezza dei sentimenti è inestimabile. E dove mai la buona
educazione borghese è tenuta in tanto onore, in questo nostro
mondo che va in sfacelo, se non presso un paio di ruffiane?
Fintanto che le ruffiane non ingannano lo stato sulle tasse, non
ce alcuna ragione di toccare i loro diritti civili e di non
riconoscere loro quei titoli che sono legittimate a portare. Si
fanno chiamare a volte dottoressa, professoressa, giudice, e
simili, innalzandosi così sulle volgari prostitute occasionali
che per i cattivi affari che fanno si debbono aspettare di essere
perseguite legalmente. In effetti qualcuna di loro riesce a
ottenere unalta considerazione arrivando ad avere una
posizione direttiva in unassociazione contro la
prostituzione.
La nostra morale offre lo spettacolo di una
dozzina di detentori della coscienza morale, di una
dozzina di detentori della responsabilità morale e di un
pubblico ministero, che perseguitano una creatura la cui sola
forza nei confronti della vita è quella di alzarsi le gonne al
momento giusto. La donna, facendo delle concessioni, ferisce i
diritti della morale; rifiutandole, ferisce i diritti
dellimmoralità. Ma mentre la morale lascia discutere
con se stessi, concede le case di piacere, distribuisce persino i
fogli di permesso, limmoralità invece è inesorabile: le
sue pretese sono esecutive e da ogni causa giudiziaria esce a
fronte alta. Si fa unopera buona se si viene in aiuto del
lusso del prossimo. Mentre sostenere gli sforzi della povertà
vuol dire applicare male la carità. Karl Kraus]
[aa.vv.]
Morale e criminalità
(non separazione pubblico-privato)
Esiste un tipo dindignazione
improduttiva che resiste a ogni tentativo di darle espressione
letteraria. Da un mese mi soffoca, togliendomi ogni illusione sul
conto della civiltà, la vergogna di cui ci copre un duplice
processo per relazione extraconiugale, la sua condotta
giudiziaria, il suo trattamento giornalistico.
Lobbligo di dire la sua su ogni
avvenimento non sprona chi è paralizzato dal pensare a un
groviglio di fatti incredibili, a una gara tra la brutalità e
lipocrisia, allopera di una giustizia per cui la
ragione diventa nonsenso e unazione benefica una tortura.
Ora la prospettiva che una simile assurdità non finirà tanto
presto, che il processo seguirà il suo corso e che farà uscire
i verbali, tranquillizza la coscienza del pubblicista, a cui nel
conflitto tra ripugnanza e senso del dovere era caduta di mano la
penna. Ora la paura che si protragga unattualità
mortificante lo sprona di nuovo a bandire ogni esitazione e a
protestare forte contro ogni ulteriore tentativo di molestare la
pubblica opinione nostrana, già angustiata da mille crucci.
Shakespeare sapeva già tutto. Nei passi che
ho scelto per queste considerazioni La mia missione
mi ha fatto scorgere parecchie cose: ho visto la corruzione
ribollire e traboccare; leggi per ogni colpa, ma le colpe
protette al punto che sirridono i decreti, che non contano
più degli avvisi dal barbiere [Misura per misura, v.1];
Via la mano brutale, infame sbirro! Te stesso frusta, non
quella puttana! Tu bruci dalla voglia di far con lei ciò per cui
la punisci! [Re Lear, iv.6] cè
lultima parola che si possa dire sulla morale che ha
reso possibile e gonfiato quel processo; il caso stesso che ha
indotto il poeta a trovare per il carattere di una città
appestata dalla morale potrà rafforzare la fede nello sconfinato
potere divinatorio del genio.
Da lui i costruttori morali di tutti i popoli
dovrebbero prendere a prestito malta e arnesi, dalla sua altezza
ogni visione del mondo, sia conservatrice che progressista, offre
unimmagine gradita al creatore; esiste civiltà dove le
leggi dello stato sono pensieri shakespeariani tradotti in
paragrafi, dove per lo meno pensieri rivolti a Shakespeare
determinano loperato degli uomini che guidano la nazione.
Alle sue percezioni ricorra chi è chiamato a innalzare o a
rinnovare il muro penale che separa il male dal bene. E allora
scoprirà che in qualche punto il vecchio muro non ha tracciato
la linea naturale perché ha dovuto cedere di fronte agli
ostacoli ipocrisia e fissazione delle formule
frapposti da epoche grette.
Così una legge centenaria finisce per diventare un tormento dellumanità: lo zelo che protegge ciò che non ha bisogno della protezione degli uomini laveva prodotta con lindulgenza che lascia libero gioco a ciò che al buon senso pare degno di punizione. Ma essa, nata dallottusità di una generazione, è rimasta operante per tutti gli anni della sua durata, poiché era gradita agli uomini peggiori del suo tempo.
Chi è uso per mestiere a mettere in guardia
dai pericoli che lo sviluppo di una stampa dopinione venale
procura alla generale civiltà e al bene delle nazioni; chi si
batte per la sopravvivenza di tutte le forze conservatrici di
fronte allirruzione di unorda priva di tradizioni;
chi preferisce persino lo stato di polizia e non solo in
senso estetico allaffermarsi di un dispotismo del
giornalume; chi riconosce con franchezza davere abbracciato
in tutti i campi del pubblico dibattito, se non altro per
risentimento, il partito dei cattivi contro i peggiori, e anzi
daver abbandonato qualche volta la buona causa per disgusto
verso i suoi paladini, può sperare che si giudichi
insospettabile, e pura espressione di un convincimento, anche una
confessione che a parecchi può giungere inattesa. Io dunque
confesso di far mie le idee dello statalista che alla
legislazione non si stanca di chiedere quella che il
ciarlatanesco spirito liberale chiama con disprezzo
tutela solo quando considero il campo
dazione dei valori economici. Ripetere che qui mi sembra
di rigore il più severo controllo, che io mi auguro di vedere le
nuove forme prese alla gola da nuovi articoli di legge e che
nulla mi appare più urgente del far posto nellinasprita
stretta del laccio, oltre che agli attivi distruttori del
benessere materiale del popolo, anche ai loro complici della
stampa, è un portar nottole ad Atene, imbroglioni alla borsa e
imbonitori alla stampa liberale.
Ma nella sollecitudine per la sicurezza economica io ritengo che si esaurisca in pratica la missione del legislatore. Gli si conceda anche di stendere la sua mano protettrice sulla salute, sullinviolabilità del corpo e della vita e su altri beni giuridici tangibili e circoscritti. Io non so quanti di questi siano tutelati dalla vecchia legge penale, e se la nuova ne accrescerà o ne diminuirà il numero. Quel che è certo è che ce ne sono troppi, e quando gli uomini hanno facoltà di emettere giudizi su altri uomini dovrebbero tenere sempre presenti i limiti della loro conoscenza. Proprio una legge che tutela anche i sentimenti religiosi e punisce le offese alla fede non dovrebbe mai attentarsi a penetrare nelle profondità dellanimo umano, precluse a ogni influsso terreno. E proprio gli spiriti conservatori, tacciati di mentalità clericale, anziché spingere la giustizia dello stato a sorvegliare le segrete vie della psiche non dovrebbero avere altra aspirazione se non di badare che accanto al potere terreno, che punisce, conservi un po di spazio anche il rappresentante di quello ultraterreno, che ammonisce. Già il bene dellonore trova il pericolo di una proliferazione di cricche giurisdizionali la suddivisione in diversi tipi, più facilmente definibili, di onore, inerenti alle varie categorie e professioni; bisognerebbe anche fare in modo che la legge non riconosca a priori una vaga reputazione in cui anche il peggior mascalzone può essere leso, ma conceda che per esempio mediante il rilascio di attestati di buona condotta si dimostri lesistenza di questa reputazione, unico modo per rendere dimostrabile la lesione e definibile la sua gravità. Fa leffetto di una farsa un procedimento di conciliazione mediante il quale uno che ha sulla coscienza il furto di parecchi milioni può sentirsi offeso dallaccusa errata e indimostrabile davere rubato anche cinque fiorini e procurarsi, grazie alla punizione del diffamatore, una patente inoppugnabile di onorabilità.
Ma se qui, sottilizzando furbescamente alla
maniera di Falstaff sulla definizione del concetto di onore, la
legislazione deve riconoscere al pari dello spaccone perdigiorno
che la parte migliore del valore è la prudenza, si trova poi
completamente disarmata di fronte a quellaltro nemico che
imbastisce i suoi tiri nascondendosi dietro la maschera della
morale. Si faccia da parte e lo lasci venire allo
scoperto. Essa non ha il potere di esorcizzare i fantasmi, che le
attraversano la strada quando meno se laspetta e escono
dalla terra nel punto in cui sè posato il suo piede. E
ancora una volta bisognerà rifarsi a Shakespeare, quando mette
in bocca alla saggezza dei pazzi la storia della cuoca scimunita
che metteva nel pasticcio le anguille vive: gli batteva la
testa con un mestolo e gridava: giù, bestiacce, giù!... Suo
fratello era quello che per buon cuore spalmava di burro il fieno
al suo ronzino. A una simile fatica senza costrutto si
sobbarca la sorveglianza statale che combatte col ferro e col
fuoco il malcostume. Un enorme equivoco ha portato
fuori strada le migliori energie e le più oneste intenzioni.
Partito dallidea dinfliggere una sanzione allo
scandalo provocato dalla pubblica immoralità, il
legislatore è incappato nel sofisma che limmoralità
provoca pubblico scandalo. E quando il pubblico scandalo
sè avuto sul serio come risultato del perseguimento penale
dellimmoralità privata, il giudizio, tutto preso dalla
ricerca dei dati di fatto, aveva ormai perso la capacità di distinguere
tra causa ed effetto.
Chi ragiona per schemi fissi non riuscirà
mai a capire che uno possa battersi a favore della legge contro
lo sfruttamento della prostituzione e mettere in guardia da ogni
intervento legislativo nella più scostumata delle esistenze
private: che si aizzi il pubblico ministero contro le inserzioni
ruffianesche e che si auspichi limpunità per chi
favorisce lincontro di due persone maggiorenni e
responsabili; che ci si auguri un più severo controllo delle
sconcezze ostentate in pubblico, che disturbano chi non vuole e
lusingano chi non deve, e al tempo stesso si desideri che in
privato ciascuno sia contento alla sua maniera. Ma una mente
capace di conciliare simili vedute contrastanti va ancora più in
là. Essa dice: il bene giuridico della moralità è
un fantasma. Con la morale il codice non
centra, centra solo il pettegolezzo di provincia.
Ciò che la giustizia può ottenere in questo campo è la protezione
dellinermità, della minorità e della salute. Su
questi beni ancora tristemente privi di tutela si riveli quella
sollecitudine che oggi molesta dufficio la vita privata. Il
legislatore in veste di cronista ficcanaso che alza davanti
allopinione pubblica le sottane della vita, la giustizia
ridotta alla parte di un domestico indiscreto che origlia alle
porte delle camere da letto e spia attraverso il buco della
serratura! Il legislatore adulto vorrebbe sempre esser là a
guardare. Allinfuori di lui nessuno arrossisce di quello
che succede in unalcova a meno che non si voglia
derivare il pubblico scandalo dal noto detto che
i muri ci sentono e dallidea che di conseguenza
possano anche arrossire fin sopra le orecchie.
Per un bene sottoposto a tutela ne viene
sempre messo a repentaglio un altro, e anche più duno.
Cè solo da chiedersi: qual è il più importante, quello
di una moralità la cui violazione non offende
locchio di nessuno o quelli della libertà, della pace
dello spirito e della sicurezza economica? Posto di fronte a una
simile scelta ogni legislatore che avesse il coraggio del proprio
giudizio dovrebbe subito decretare, per esempio, limpunità
dei rapporti omossessuali. E in questo potrebbe richiamarsi alla
petizione indirizzata a suo tempo da un paio di centinaia di
uomini noti nel campo scientifico, artistico e sociale, che certo
solo la più volgare mentalità filistea riuscirebbe a sospettare
di un interesse pro domo. Io non so se in quel documento
sia stato posto abbastanza in rilievo lunico punto di vista
sotto il quale va mostrata anche agli oppositori lurgenza
di una soluzione del problema. Qui meno che mai il legislatore si
accontenta di punire la violenza e di proteggere la minorità e
la salute; al contrario, vuol dare soddisfazione non solo alla
morale che gli sembra venga offesa ma anche al gusto naturale
contro cui si è agito. Esso si accanisce sempre là dove
listinto e il libero arbitrio di persone responsabili hanno
creato unintesa. Lo fa in tutte le possibili situazioni
erotiche: figurarsi in quelle omoerotiche! Se per combinazione il
reo non fa parte degli uomini più grandi e nobili della nazione
(nel qual caso si supporrà una tendenza psicopatica) la morale
riceve la sua soddisfazione: il colpevole di perversione viene
purgato con alcuni mesi di dieta scadente. Ma intanto sul fertile
terreno della sanzione penale cresce il grano del ricatto.
Sì, ribatte il criminologo, ma il
ricattatore cadrà anche lui nella rete e dovrà scontare,
addirittura, una pena doppia! Naturalmente: e il pubblico
ministero ignorerà persino il dovere della riconoscenza nei
confronti del denunciante, il cui premio consisterà davvero
nella condanna per un duplice reato. E se il ricattatore non si
farà delatore, se la pressione esercitata sulla vittima avrà
leffetto desiderato e lomissione della denuncia
verrà pagata con torture quotidiane e con la rovina economica?
Qui crolla la saggezza del teorico puro. Abituato a ricorrere al
comodo appiglio della statistica, non sa cosa
rispondere: purtroppo non esistono ancora statistiche delle
denunce non presentate e dei ricatti riusciti. E siccome la sua
modestissima dose di fantasia e di esperienza non gli può
sostituire la sapienza delle cifre, non immagina che nella stessa
ora in cui lui si compiace di un ordinamento del mondo che
punisce limmoralità e la violenza mille infelici, nelle
province della sua patria, aspettano terrorizzati larrivo
del loro ricattatore... Due reati, sulla carta: ma essi si
assicurano a vicenda limpunità, luno favorisce
laltro. Si apra la valvola morale, e i ricatti che finora
non sono stati denunciati né perseguiti non verranno neanche
più commessi. O si vorrebbe non rinunciare a un bel delitto per
la bella ragione che quel tipo di criminologia che formula i
pensieri in base ai numeri sarebbe ridotta alla disperazione
dallestrema improbabilità di avere una statistica dei
ricatti non commessi?
Lo psichiatra Albert Moll ha scritto: Talvolta agli omosessuali viene mosso anche da persone ben disposte il rimprovero di far troppa propaganda. Ma che dovrebbero fare? Se non si fanno sentire non raggiungeranno mai il loro scopo. O avrebbero tuttal più un altro mezzo: dovrebbero cercare, alla maniera di un generale o di un politico senza scrupoli, di giungere alla meta passando su una montagna di cadaveri. Basterebbe che facessero pubblicamente i nomi di uomini la cui omosessualità è notoria e dimostrabile in qualsiasi momento. E allora, di sicuro, più duno che aborrisce lomosessualità dal profondo dellanima ma che ha rapporti di familiarità con degli omosessuali senza conoscerne le tendenze sarebbe stupito della rivelazione. Alla fine diversi alti funzionari e influenti uomini politici si direbbero: "Ho sempre pensato che i pederasti siano la peggior genìa del mondo, ma ora sento che mio nipote mio figlio, il mio amico pratica lomosessualità. Eppure è una persona tanto seria e per bene. Se anche lui è così, bisognerà cambiare idea sulla questione". Questa presa di posizione ignorerebbe ogni riguardo, e numerose esistenze ne sarebbero socialmente stroncate. In tal modo però molte persone influenti verrebbero direttamente interessate alla cosa e un rapido successo sarebbe più che probabile. Resta comunque che un simile modo di procedere sarebbe senzaltro riprovevole. Lo ricordo solo perché non bisogna contestare agli omosessuali che non vi ricorrono il diritto di fare della propaganda ragionevole. E nota anche luscita di un ministro che aveva avuto dal capo della polizia lelenco delle persone contro cui stava per essere avviato un procedimento giudiziario: Che società spaventosamente feudale! Cè proprio da vergognarsi di non essere nella lista....
Nel regno eterno degli impulsi sensuali, che
sono più antichi del bisogno dipocrisia, il legislatore si
muoverà sempre con impaccio. Se agirà con riguardo, farà
sorridere nella parte del poliziotto zelante che riferisce
daver sentito di notte, in luogo appartato, un rumore
di accoppiamento; o di quellaltro che una volta ha
portato a un ufficio un rapporto che diceva testualmente:
Sono sopraggiunto nel preciso istante in cui su una
panchina del parco comunale un uomo baciava e abbracciava un
soldato. Purtroppo sono arrivato troppo presto, per cui non posso
denunciare nessun atto osceno. Ma il guardiano della morale
può anche arrivare al momento giusto, e provocare un disastro.
Lui si affanna a coprire con pomate e cerotti le pustolette
morali, e il corpo sociale comincia a suppurare dentro. Il
perseguimento delle deviazioni sessuali favorisce il ricatto, e
ogni altro tentativo di recintare la vita privata con uno
steccato di articoli provoca nuova immoralità, nuovi reati. La
vergogna della tratta delle bianche, deprecata con accenti
patetici, sarebbe stata risparmiata alle nazioni civili se i
legislatori fossero più capaci di adirarsi che di arrossire, se
al dibattito sulla prostituzione non avessero mai partecipato i
portavoce della pudicizia. Lusura e lo sfruttamento
prospereranno finché ai mercanti dellamore dovrà esser
pagato anche il rischio dellinfrazione al codice penale;
anche il divieto di quella forma più innocua di mediazione che
non usa violenza ma si limita a creare occasioni
dincontro non fa che migliorare le prospettive di
guadagno degli intermediari: la proibizione grava sul compenso
che viene ricevuto e fa salire il prezzo che si paga.
È di un umorismo atroce
linsegnamento scaturito da un eccesso di moralismo del
vecchio diritto. Per colpire la prostituzione si privavano del
diritto agli alimenti le mogli imputabili daver ricevuto
denaro in cambio di prestazioni sessuali. Cosa facevano i signori
del creato? Mostrando in anticipo la loro nobiltà, prostituivano
le mogli e si risparmiavano gli alimenti.
Per celebrare la selva di articoli del
codice, sarebbe istruttivo un elenco di tutti i delitti, reati e
infrazioni di cui si sono resi responsabili la legge e coloro che
la interpretano rigorosamente. Non penso solo a quei dolorosi
contrasti rivelati a ogni passo dallingiustizia eretta a
sistema: linvalido ridotto alla fame che, troppo orgoglioso
per mendicare, fa estrarre i pianeti dai topolini
bianchi finisce in guardina per infrazione al divieto della
vendita ambulante di stampati, la madre snaturata che
sevizia per la prima volta il suo bambino riceve una
semplice ammonizione... No, là dove questa legge penale condanna
se stessa, il solenne commemoratore dovrebbe iniziare il discorso
con un sorriso in un occhio e una lacrima nellaltro.
Il fatto che essa favorisca il crimine del
ricatto, che violi larticolo in cui si vieta di
rendere pubblicamente note ai danni di chiunque circostanze
infamanti, ancorché vere, della vita privata e familiare e
che, ancora, provochi con ciò quel grave e pubblico
scandalo contro il quale si rivolge larticolo sul
buon costume, tutti questi sono solo i casi più importanti in
cui il serpente si morde la coda. E limposizione della pena
detentiva là dove è stato leso un bene giuridico
che non è un bene giuridico non corrisponde a una
limitazione della libertà personale?
E con ciò torno a quel classico esempio
dimmoralità favorita dalla legge che recentemente è stato
posto davanti agli occhi sgomenti dellopinione pubblica,
in testa a cronache lunghe intere colonne: una stampa corrotta
che non ha voluto celare ai suoi lettori un solo particolare, un
solo pezzetto. Il pareggio del bilancio, il cartello del petrolio
e la riforma della stampa, anzi persino lonore del
giornale leso dalla corte suprema hanno dovuto far posto
alle beghe di una coppia, e la giustizia sè messa a
scorrazzare su e giù per quel palcoscenico a cui sera
ridotto il tribunale. Ma il codice morale godrà ancora di
una fama proverbiale e costituirà una fonte preziosa per gli
studiosi del costume che vorranno sondare le idee dominanti nel
primo novecento, riguardo ai diritti del marito e ai doveri
della moglie.
Un giudice di quelli che esistono
ancora avrebbe fatto di sfuggita un inchino alla maestà
della legge (o traballante regina!) infliggendo una pena il più
mite possibile, avrebbe fatto valere come attenuante la manifesta
sete di vendetta del marito, che la giustizia non può prestarsi
a saziare, e senza ulteriori perizie, solo in base
allinconsistenza di quel legame, ne avrebbe giudicata
indolore la rottura. Un altro giudice, o abbreviando il processo
o celebrandolo rigorosamente a porte chiuse, avrebbe impedito al
giornalume scandalistico della cronaca e della chiacchiera, a
quello dei quotidiani e allaltro dei fogliacci umoristici,
di ammorbare per settimane il clima morale di una città e di
spargere ai quattro venti la polvere di un malcostume che ricopre
abbondantemente il mucchietto di sporcizia del misfatto in
questione.
Un altro forse avrebbe persino misurato in
base alla propria esperienza della vita limperfezione della
legge, non avrebbe troppo sprecato, nel giudicare un reato
perseguibile su querela di parte, il pathos dei principi e non
avrebbe portato il contrasto tra un caso denunciato e i mille non
finiti, grazie al cielo, in giudizio a quellimmorale
grado di evidenza che spinge il sarcasmo a chiedere se adesso
ogni matrimonio sia sicuro.
Da quando la naturale guerra di confine tra lautorità del magistrato e la libertà della difesa è divenuta un intralcio costante al funzionamento della giustizia, io non ho perso occasione per sostenere lindipendenza della giustizia verso il basso e per difendere il tribolato presidente della corte dalle prove che la smania di pubblicità di certi indiscreti tromboni impone alla sua pazienza. Così io sono di certo un giudice insospettabile quando devo riconoscere che ogni parola pronunciata dal difensore in quei dibattimenti per scongiurare un inaudito eccesso dautorità era giusta. E il peso di questopinione è ancor maggiore se si pensa che neppure lingrata esperienza di vederla condivisa da molti quotidiani è riuscita a farmela cambiare.
[k.k.]
Nazionalismo
Quanto questo mondo sia tenuto a testa in giù dal capitale è dimostrato anche dalla maniera con cui si considera naturale e dignitoso essere nazionalista in questa società. Rispettare la bandiera è il minimo che chiunque si vede chiedere, e nessuno per questo viene accusato di abbandonare lidentità di specie, lumanità, che è universale e internazionale. In massima parte, alle soglie del 2000, il nazionalismo deriva da considerazioni molto interessate della borghesia locale circa le prospettive di sviluppo economico regionale; tranne poche eccezioni, non è neanche più connesso alloppressione di nazionalità. Che ognuno sostenga la classe [<=] dominante di casa sua: ecco lessenza del nazionalismo. Appoggiare la classe dominante della propria nazione [<=], quando sfrutta, quando vìola i diritti umani, quando spaccia per tradizioni le più retrograde superstizioni, e quando muove guerra. Come movimento e corrente politica, il nazionalismo è un mezzo per il regolamento di conti interno che la borghesia internazionale richiede, e per le lotte intestine dei vari settori di cui essa si compone al fine di stabilire le rispettive fette nel processo di accumulazione. Come ideologia è sempre stata lideologia ufficiale dellimperialismo [<=]. Il fatto che il nazionalismo della borghesia nelle aree dominate e controllate e tra le nazionalità si fosse, per un breve periodo della storia, trovato in opposizione a determinati aspetti dellimperialismo ha portato la sinistra non proletaria (che sostanzialmente è fatta dello stesso nazionalismo) ad abbracciare e dare una riverniciata al nazionalismo. Ma il proletariato comunista e il marxismo vedono nel nazionalismo limmagine della borghesia, e niente altro.
In ogni occasione, la conseguenza sociale del nazionalismo è la frammentazione della classe operaia e lindebolimento del campo proletario, del campo della rivoluzione [<=] proletaria. È uno di quei retaggi reazionari da cui lumanità deve liberarsi. È contrario non solo al comunismo [<=] proletario, ma costringe lessere umano non a progredire ma a regredire moralmente. Le uniche classificazioni che possiamo accettare (quella di specie e quella di classe) sono essere umano e proletario. Qualunque divisione tra queste due è inaccettabile. Ovviamente, lottiamo ed esigiamo labolizione di qualunque discriminazione basata sulle varie divisioni e categorizzazioni dellumanità. Oggi la condizione di classe accomuna i proletari in una risposta coesa sia sul piano sindacale che su quello della lotta per il socialismo, e le barriere indeboliscono il proletariato. Delle diverse opzioni, la secessione può essere favorita solo se è fortemente probabile che un tale percorso fornirà al proletariato diritti civili progressivi e un ambiente economico sociale più giusto e più chiaro.
Lautonomia, poi, non è un passo avanti ma una maniera di perpetuare le identità nazionali entro un unico involucro nazionale: lautonomia nazionale è condannata a rendere eterne e legittimare ufficialmente le divisioni nazionali, e porre le basi per la continuazione dei conflitti nazionali nel prossimo futuro. La soluzione separatista avanzata dalla borghesia nazionale non ha alcuna possibilità di costruire un fronte unito con settori della classe operaia che possano vedere migliorare la propria condizione, ma anzi ne aumenta privazioni e stenti, miserie e sfruttamento. Lunica alternativa che tale nazionalismo offre alla classe operaia è la disperazione, labbandono della sua lotta per un mondo migliore, per il socialismo, e pretende che si assoggetti a una schiavitù salariata senza domani, dentro quattro mura locali sempre più strette. Con le concessioni al nazionalismo non si apre la strada alla classe perché prenda coscienza [<=] di se stessa e rafforzi e presenti la sua soluzione di classe ai problemi della società, cioè il socialismo.
[a.c.]
Nazionalitarismo
(imperialismo e stato)
Il sostegno dei comunisti alla lotta di liberazione degli iracheni dalloccupazione imperialista è fuori discussione. Qui discutiamo invece quanto scrive il periodico romano Indipendenza, organo di avanguardia del cosiddetto comunitarismo nazionalitario, che ha pubblicato sul n. 14 (novembre 2003) ed ampiamente diffuso in rete un articolo di redazione, proposto come invito alla discussione.
Il testo inizia così: Il messaggio inequivocabile che sale dalle macerie delle tante città irachene sottoposte ai bombardamenti e ai missili anglo-statunitensi, intriso del sapore ripugnante dei corpi in putrefazione dei tanti senza nome e dei tanti senza volti, migliaia di uomini e di donne, resistenti civili e militari iracheni, è un messaggio che si chiama fierezza, irriducibilità alla sottomissione. Si può notare lo stesso gusto per il macabro e per la retorica ad effetto che appare nel repertorio nazionale neoirredentista italiano: si veda p. es. il seguente brano [tratto dal sito Foibe, http://members.xoom.virgilio.it/foibe, di tal Michael Liguori, seguace, o forse pseudonimo di Marco Pirina, il più noto propagatore di falsi storici su quei tragici avvenimenti].
Dalle diverse Foibe, cosparse su tutto il territorio della Venezia Giulia, corrono terrificanti grida che annunciano morte, rese però vane dallassordante rombo dei bombardieri angloamericani . Larticolo prosegue con una analisi di scenari geopolitici nel cui merito qui non entriamo finalizzata a dimostrare linconsistenza dellipotesi di una coalizione interimperialistica di Stati contrapposta allo strapotere statunitense, e si conclude con un crescendo di appelli alla resistenza nazionalitaria. Ciò che ci preme far notare in questo come in altri testi analoghi, è levi-dente e grave scivolamento di significato fra Stato [<=] e Nazione [<=] (che porta con sé quelli fra antimperialismo e antiamericanismo, nonché fra internazionalismo proletario e nazionalismo social-populista).
Nei discorsi nazionalitari lo Stato è imperialista per definizione (senza altre connotazioni se non gerarchiche: gli Usa sono dominanti, tutti gli altri subalterni o emergenti), mentre il soggetto della lotta antimperialista è (anchessa per definizione) la Nazione. Alla rivista Indipendenza, tra le altre, da alcuni anni si onora di collaborare Costanzo Preve, il filosofo che nella sua ricerca post marxista è giunto a non distinguere più la destra dalla sinistra.
Ebbene, dirà qualche ingenuo seguace di Preve: un popolo non ha forse il diritto di conservare le proprie tradizioni (e contraddizioni), lottando contro gli (stranieri) invasori che le stravolgono e le distruggono? Risposta banale: sì. Ma ammettiamo per un momento che il popolo sia unentità compatta, indifferenziata e aclassista, che tutte le tradizioni siano inviolabili e che il conflitto si sviluppi solo verso chi minaccia la comunità nazionale dallesterno. Cosa manca? è ovvio: la storia. Cioè la dinamica sociale.
Bazzecole: basta pensare che le formazioni sociali primitive, asiatiche, medievali e capitalistiche sono sostanzialmente uguali, salvo differenze di dettaglio determinate non tanto dai modi e rapporti di produzione quanto dalla selezione darwiniana, e tutte riconducibili alla stirpe/nazione primigenia. Così letica sociale si riduce a nientaltro che a quella del buon selvaggio tradotta in moderno patriottismo: rispetto delle tradizioni (e della gerarchia sociale data come immutabile), odio e resistenza verso i conquistatori cattivi (imperialisti?), alleanza verso i popoli [<=] disposti alla coesistenza pacifica. Come per incanto il comunitarismo nazionalitario fa sparire la lotta di classe [<=] e garantisce lo sviluppo di una società stabile e ordinata, dopo la vittoria della resistenza antiamericanista.
Purtroppo però non sembra che il sentimento patriottico sia naturale e spontaneo fra gli oppressi e gli sfruttati: ecco la necessità per i governanti (casta religiosa o ceto politico mandatario della classe dominante) di tenere accesa la fiamma nazionale presso il popolo, rinnovando periodicamente il patto di sangue col sacrificio di martiri ed eroi, sia combattenti (più o meno convinti o pagati) sia civili (inermi ed ignari)
Lo Stato riappare, idealizzato però e trasformato in pura organizzazione giuridica integrale della Nazione, finalizzata alla conquista e difesa della libertà della Nazione stessa, perché essa possa realizzare la missione affidatale da Dio (il Dio dei nostri Padri!) nel consorzio internazionale. Il perseguimento del benessere del popolo lavoratore resta subordinato, in questo contesto, al rendimento di ognuno nella comunità nazionale Guarda caso, i brani ora citati sono tratti dai primi tre articoli della Costituzione della Repubblica sociale italiana, con cui lex duce credeva di poter dare legittimità nazionale al brandello dItalia occupato dal III Reich, allombra del quale a lui e ai suoi fasci fu permesso, ancora per poco, di sopravvivere a danno della popolazione resistente. Ora, non cè dubbio che Benito Mussolini fosse avversario del capitalismo imperialista (che lui chiamava plutocrazia) di marca anglo-statunitense; e che nel 44, dopo lingloriosa fine del regime che aveva mandato al massacro mezzo milione di militari e civili italiani, non potesse rivendicare la gloria imperiale dItalia, bensì solo una truffaldina e oscena indipendenza e sovranità nazionale.
Ma gli odierni profeti nazionalitari proclamano con foga che la rivendicazione dellindipendenza e sovranità nazionale è lunico rimedio contro limperialismo [<=]. A quale nazione si riferiscono, dunque, se non a quella esaltata da Mussolini, mentre era un fantoccio dei nazisti a Salò, e ancora oggi dai reduci della decima Mas? Forse a quella che fu antimperialista contro lesercito occupante tedesco ma festeggiò gli alleati liberatóri angloamericani? (non sia mai!!). O pensano seriamente a una nazione autonoma allinterno di una federazione socialista, come sperava la grande maggioranza dei partigiani che fecero davvero la guerra di liberazione contro il nazifascismo almeno fino al 1948, quando i gerarchi riciclati nella Democrazia cristiana riuscirono a convincere gli ingenui (razza davvero inestinguibile!) che i comunisti mangiavano i bambini o si divertivano sadicamente ad infoibare i poveri patrioti italiani innocenti? [Sulle tante false ricostruzioni e testimonianze, accreditate con crescente clamore dal neorevisionismo storico dellasinistra politacally correct, cfr. C. Cernogoi, Operazione foibe a Trieste, Kappa Vu, e i due dossier di Pol Vice, Silenzi e grida e Scampati o no, in www.cnj.it/documentazione, coordinamento nazionale per la Jugoslavia]. O magari il loro modello è quello della nathion Veneta, destinata a far rivivere la gloria del Leon de S. Marco sullAdriatico?
Ecco cosa si può leggere su Indipendenza: Alle fanfare e alla retorica patriottarda dello Stato e dei suoi interessi di classe, inevitabilmente servili nel mono-centrismo imperialista a stelle e strisce, anche quando assumono le vesti da grande narrazione il mito dellEuropa o del governo mondiale sarà necessario contrapporre la nazionalizzazione delle matrie [sic!], cioè gli interessi nazionalitari delle classi subalterne incastonate nellautodeterminazione effettiva di popolo. E ancora: Non cè alternativa al nazionalismo di liberazione come collante e detonatore sociale. Non cè operaismo, confusionismo moltitudinario, umanesimo caritatevole che tengano per chi vorrà esprimere la propria libertà non misurata, secondo i canoni capitalistici, sulla disponibilità a mercificare la propria esistenza individuale, la resistenza nazionalitaria sarà limprescindibile terreno da cui partire Non solo [ma anzitutto! ndr] in Italia.
Voilà: il pasticcio antiamericanista in salsa nazionalitaria (o nazionalsocialista?) allitaliana è servito. Riflettete, compagni, la questione è seria.
[p.v.]
Nazione
Dal crogiuolo etnico dellalto medioevo si svilupparono le nuove nazionalità, in un processo che vide il vincitore assimilarsi ai vinti, cioè ai contadini e agli abitanti delle città. Le nazionalità moderne sono parimenti un prodotto delle classi [<=] oppresse. Quei popoli [<=] che non hanno mai avuto una storia propria, e che sono caduti sotto il dominio straniero fin dal momento in cui hanno raggiunto il primo e più rozzo stadio di civiltà, o vi sono stati costretti dal giogo straniero, non hanno alcuna vitalità e non perverranno mai a una qualsiasi forma di indipendenza. Vediamo qui delinearsi la differenza tra il principio di nazionalità e il principio della democrazia [<=] e della classe operaia che riconosce a ogni grande nazione il diritto [<=] a unesistenza indipendente e autonoma. Il principio di nazionalità non affronta affatto il grande problema del diritto dei popoli storici a unesistenza nazionale, e se lo affronta vi apporta solo confusione. Il principio di nazionalità solleva due tipi di questioni: primo, quello dei confini tra quei grandi popoli storici; secondo, quello relativo al diritto di esistere come nazioni autonome per i piccoli ma numerosi resti di quei popoli che, dopo aver occupato per un tempo più o meno lungo la scena della storia, sono stati poi assorbiti da questa o quella nazione più potente, che proprio in forza del suo maggior vigore era in grado di superare ostacoli di maggior rilievo. Il significato di un popolo e la sua vitalità non contano nulla dal punto di vista del principio di nazionalità: secondo tale principio i valacchi, che non hanno mai avuto una storia propria né lenergia per farla, conterebbero come gli italiani, con la loro storia bimillenaria e le inconsunte energie nazionali; i gallesi e gli abitanti dellisola di Man avrebbero, se lo desiderassero, e per assurdo che possa sembrare, lo stesso diritto degli inglesi a unesistenza nazionale indipendente. Tutto linsieme è una assurdità, avvolta in vesti popolari per gettar fumo negli occhi della gente ingenua, e che si può usare a mo di comodo slogan o gettare da parte, secondo le circostanze.
Una volta formatasi la delimitazione tra i gruppi linguistici [<=] (senza dimenticare le successive guerre di conquista e di sterminio) era naturale che questi fornissero la base per la formazione degli stati e che le nazionalità cominciassero a svilupparsi in nazioni. In questa generale confusione la monarchia rappresentava lelemento progressivo, lordine nel disordine, la nazione in via di formazione di contro alla disgregazione in stati vassalli ribelli. Lalleanza tra monarchia e borghesia data dal secolo X; per tutto ringraziamento la monarchia soggiogò e depredò poi i suoi alleati. Tutto il medioevo rimase ben lontano da una coincidenza di confini linguistici e territoriali, eppure ogni grande nazionalità a esclusione dellItalia era rappresentata in Europa da uno stato particolare e di notevole estensione, e la tendenza sempre più chiara e cosciente a creare stati nazionali costituisce nel medioevo uno dei più essenziali strumenti di progresso. Non cè un solo paese in Europa in cui diverse nazionalità non convivano sotto uno stesso governo, eppure a nessuno verrebbe in mente di definire come nazione quei resti di popoli da tempo scomparsi o addirittura i celti della Bretagna (oltre tutto, non cè confine di stato che coincida con confini etnici e linguistici). È un risultato naturale del confuso e graduale sviluppo storico dellEuropa durante gli ultimi mille anni che quasi ogni nazione di una certa grandezza abbia dovuto separarsi da alcune parti marginali del suo corpo, che si sono distaccate dalla vita nazionale del proprio popolo, aggregandosi a quella di un altro; distacco compiuto in modo così radicale che esse non sentono alcun bisogno di ricongiungersi al proprio ceppo originario. È un vantaggio non irrilevante che le diverse nazioni, nel costituirsi in entità politiche abbiano accolto in sé alcuni elementi stranieri, che costituiscono un collegamento con le nazioni vicine e portano una certa varietà nelluniformità altrimenti troppo monòtona del carattere nazionale.
Tutti i centri industriali e commerciali hanno una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari locali e i proletari immigrati. Il comune proletario locale odia il proletario immigrato come un concorrente che abbassa il livello di vita. Di fronte a lui si sente come un appartenente alla nazione dominante e proprio per questo si rende strumento della sua aristocrazia e dei suoi capitalisti, rafforzando con ciò stesso il loro dominio su di sé. Il lavoratore locale nutre verso limmigrato pregiudizi religiosi, sociali e nazionali. Si comporta verso di lui pressa poco come i bianchi poveri verso i negri negli stati schiavisti degli Usa. Limmigrato lo ripaga con la stessa moneta, e con gli interessi, vedendo in quello il correo e lo stolido strumento del dominio. Questo antagonismo è artificialmente tenuto desto e incrementato dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, in breve da tutti i mezzi a disposizione della classe dominante. Questo antagonismo è il segreto dellimpotenza della classe operaia nazionale, nonostante tutta la sua organizzazione; è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E questultima ne è pienamente cosciente. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari ha tolto alle industrie la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e sono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie che non lavorano più materie prime nazionali, ma provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dellantico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra uno scambio universale, ununiversale dipendenza delle nazioni luna dallaltra, nella produzione materiale, come in quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune.
Lisolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà [<=] di commercio, col mercato mondiale, con luniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita a essa corrispondenti. Lunilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili. La borghesia costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una frase, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. Presso tutti i popoli, del resto, coloro che si ostinano a insistere sulla nazionalità [<=] la cui grettezza è sempre odiosa e ripugnante, altezzosa e tronfia, corrispondente a una vita pratica assolutamente meschina, da bottegai e artigiani si trovano soltanto tra i borghesi e i loro scrittori, che considerano i loro vaneggiamenti come il giudizio finale. Questo regno celeste del sogno, il regno dellessenza delluomo, loppongono ai popoli, con enorme compiacenza, presentandolo come lultima perfezione e la fine della storia.
[f.e.-k.m.]
Necessità
(riconoscimento e libertà)
È il tema della necessità in sé stesso che è complicato. Se insieme non si considerano libertà e caso, ogni discorso rimane monco. Tuttavia, alcuni troppo frequenti (e ricorrentemente datati) equivoci consigliano di cominciare, sia pur rozzamente, ad affrontare preliminarmente la questione. Attraverso alcune considerazioni di Hegel, è più facile rintracciare il tema in oggetto come categoria; mentre in Marx tale tematica permea maggiormente la riflessione in maniera quasi sotterranea. Semmai è più agevole trovare qualcosa di esplicito in Engels, nellAntidühring proprio dove parla del rapporto tra necessità e libertà [<=]. Questo suo discorrere, col quale Marx era completamente daccordo [cfr. la corrispondenza], è prettamente hegeliano laddove per hegeliano si deve intendere quanto anche Lenin sosteneva, a proposito del materialismo criptico di Hegel stesso [fu Lenin, come si sa, a proporre di fondare una specie di società degli amici materialisti della dialettica hegeliana], cioè quanto di più lontano da quellidealismo che la scuola crociana (in Italia, ma il riferimento può estendersi a tutta la cultura primonovecentesca europea valga per tutti la deformazione heideggeriana) ha trasmesso a livello abbastanza diffuso.
Engels sottolineava [cfr. le pagine centrali dellXI paragrafo della prima sezione del suo libro], che non si può parlare bene di morale [<=] e di diritto senza affrontare la questione del cosiddetto libero arbitrio, della responsabilità delluomo, del rapporto di necessità e libertà. E precisava aggiungendo, contro lo straordinario appiattimento della concezione hegeliana, che Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di necessità e libertà. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità: "cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa". La libertà non consiste nel sognare lindipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano lesi-stenza fisica e spirituale delluomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare luna dallaltra tuttal più nellidea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico.
Engels, nella sua polemica contro il rozzo positivismo di Dühring, si riferisce principalmente alla natura (lesempio del fuoco, della macchina a vapore, ecc.); ma, comè facile riscontrare, estende esplicitamente la sua logica alla società e allo sviluppo storico; e perciò lo riferisce pure alluso, nel mondo sociale, della macchina a vapore, la quale (a es., a differenza della produzione umana del fuoco), non farà mai fare allumanità un salto così imponente, malgrado la gigantesca rivoluzione liberatrice, le poderose forze produttive che si appoggiano a essa e solo con laiuto delle quali si rende possibile una situazione sociale in cui non ci siano più differenze di classe, preoccupazioni per i mezzi di sussistenza e in cui per la prima volta possa parlarsi di vera libertà umana. Tutto questo è ben lontano dal poter attribuire una qualche validità assoluta alla concezione corrente, limitata culturalmente e socialmente, della storia dellumanità. Perciò, è evidente che, proprio seguendo una concezione storicamente determinata, si riconosce che si è in grado di piegare la necessità delle leggi esterne solo quando si possa agire secondo un piano per un fine determinato, e si possa decidere con cognizione di causa.
La conoscenza di quelle leggi è preliminare alla possibilità di farle agire a proprio vantaggio: altrimenti, prima senza conoscenza, e poi pur anche con questa, ma senza la forza necessaria che eventualmente ne possa derivare, la necessità storica oggettiva che si impone senza scampo, e con essa il dominio di noi stessi, non sta nelle nostre mani, bensì in quelle di chi comanda. Ecco in che senso occorre intendere la necessità della crisi del capitale, e dei suoi stessi tempi e fasi nei casi particolari, come quelli di fine XIX sec. e di fine XX sec. Come Engels sottolinea il significato delle conoscenza, così Hegel parla di comprensione, per giungere a quella libertà così intesa che è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. Il significato che si è voluto attribuire a codeste parole sta proprio nelloggettività necessaria del processo storico che trascende le azioni e la volontà dei singoli individui in quanto tali. Il riferimento alla grande depressione 1870 (in poi) e alla crisi mondiale 1967 (fino a oggi e forse oltre) è tutto qui.
In questottica materialistica, si possono riportare alcune osservazioni dialettiche di Hegel stesso sul rapporto tra azione consapevole di ciascun individuo e trasformazione necessaria della storia. A differenza del tardo romanticismo fineottocento e dellirrazionalismo che lha seguìto, e che ha messo su basi soggettivistiche [per così dire: necessariamente!] tutto il proprio individualismo metodologico, Hegel eleva loggettiva necessarietà della totalità. Ogni singolo è un cieco anello nella catena dellassoluta necessità con cui si sviluppa il mondo. Ogni singolo può elevarsi a padroneggiare una parte più lunga di questa catena scrive riflettendo sul sistema delleticità unicamente quando egli riconosce in quale direzione la grande necessità si muova, e da questa conoscenza impari a pronunciare le parole magiche che evocano la figura di essa. Il corso della storia precisa Hegel nellintroduzione alla storia della filosofia rappresenta non soltanto il divenire di cose estranee, ma anche lo stesso divenire nostro e della nostra scienza. La storia rappresenta ciò che è mutevole, ciò che è scomparso nella notte del passato, ciò che non è più, mentre il pensiero necessario e soltanto di ciò ci si deve occupare non può soggiacere ad alcun mutamento.
In ciò, precisamente, consiste loggettività della storia che persegue i suoi fini attraverso quella che è stata chiamata una eterogenesi ossia, una loro formazione che non può che essere superiore ai diversi obiettivi particolari (nel senso che non può che trascenderli) posti dai singoli, individui o anche gruppi e classi, attraverso un superamento dialettico di tutti quei particolari in una sintesi che li comprende tutti, annullandoli nella loro particolarità. Dunque Hegel in nome di Marx, per così dire non esita a definire il concetto della necessità [nellEnciclopedia] come una cosa molto difficile, perché esso è il concetto stesso, i cui momenti però sono ancòra delle realtà, le quali tuttavia vanno concepite soltanto come forme spezzate. E nella storia della filosofia chiamava Idea proprio il sistema della necessità, della sua stessa necessità, la quale è a un tempo la sua libertà. Dalla successione delle differenti fasi che possono manifestarsi con la coscienza della necessità deriva ogni fase successiva e ogni data determinazione e formazione fino a dispiegarsi come necessità pensata.
Marx segue quasi pedissequamente la concezione della necessità storica hegeliana [e in questo senso vanno perciò intese le precedenti righe sulla necessarietà della crisi come necessità consapevole di un fatto storico]. Quindi, la necessaria lunghezza della crisi in atto è strettamente dipendente dalle considerazioni generali appena svolte. La necessità dellattuale lunga ultima crisi [<=] tuttora irrisolta (con i suo tempi e le sue fasi) è da attribuire al dominio di quelle leggi oggi, quelle imperialistiche transnazionali del capitalismo che non si è riusciti a piegare per torcerle a vantaggio del proletariato. Non solo: ma non si è saputa sviluppare collettivamente neppure la conoscenza della necessarietà dellaffermarsi di quelle leggi storiche appunto, la consapevolezza di ciò che Marx e Engels, senza fraintendere e appiattire Hegel, reputavano una conditio sine qua la rivoluzione sociale diventa sogno e cecità.
A livello semantico, perciò, si tratta di considerare la lunga depressione attuale alla medesima stregua dellesplosione della crisi in atto, in quanto quella ne è piuttosto la forma stessa di nuovo necessaria, date le circostanze in cui si è svolta [la depressione è già crisi, una sua specifica fase, che accompagna larresto dellaccumulazione di plusvalore e la sua trasmutazione in denaro speculativo si veda Grossman, oltre a Marx naturalmente]. Dunque, sono proprio codeste circostanze peculiari della fase in corso che hanno rallentato la necessaria distruzione del capitale. Esse sono state abbastanza ampiamente descritte, in genere [ma si può sempre tornare a riflettere su questo punto], e sono legate al mutamento della divisione internazionale del lavoro [<=], o, se si vuole, al cambiamento degli assetti di dominio sul mercato mondiale. Ogni sconvolgimento profondo dello statu quo ante richiede tempi lunghi, di carattere prettamente strutturale e non meta-economico [politico, sociale, ecc., tutti aspetti che purtuttavia necessariamente ci sono, ma vi si accompagnano soltanto, non acquisendo mai una loro autonomia causale (cosa che invece i sostenitori di simili ipotesi presumono); e comunque certo tali aspetti non sono di carattere naturale o ... astrale, come goffamente pretenderebbe la tesi delle cosiddette onde lunghe].
Tutto lo specifico coacervo di caratteristiche dellepoca ogni volta considerata va perciò ad aggiungersi allordinaria sovraproduzione. Così è stato per la crisi dellInghilterra nel 1870 o la crisi degli Usa nel 1970 (si può includere in questa rubrica anche la multivoca fine del realsocialismo); sicché oggi si possano aggiungere la presenza del deterrente nucleare, che ha impedito la generalizzazione diffusa delle distruzioni belliche, e la messa in opera degli effetti della seconda grande rivoluzione industriale dellautomazione del controllo. La ripartizione mondiale del plusvalore [<=] che si attarda nellaccaparramento di ricchezza astratta, perlopiù speculativa, in attesa quasi messianica di una ripresa dellaccumulazione in quanto si basa su unappropriazione ineguale di valore internazionale, non fa che aggravare ulteriormente la perdurante situazione di crisi, accelerando fallimenti, centralizzazioni, ecc., che sono perciò da vedere soltanto come conseguenze necessarie e non cause di questa stessa crisi.
[gf.p.]
Neocorporativismo
Antico è il tentativo di armonizzare il conflitto sociale, laddove aumenta il pericolo per chi detiene il comando di perdere la sua pubblica legittimazione. Ma la conciliazione perviene al suo compimento, solo nel pieno dispiegarsi storico di tutte le sue modalità e della sua dominanza generalizzante. È per questo che la negazione del conflitto diviene concretezza assoluta solo nel capitalismo, quando cioè lirriducibile antagonismo tra capitale e lavoro esige lirriconoscibilità nelle coscienze [<=] delleguaglianza impossibile. Come il capitale [<=] fonda il suo impero sullerosione del lavoro, così si riproduce nel tempo mascherandosi continuamente nel suo contrario e nelle diversità indifferenti. Disattiva pertanto la conoscenza dei suoi segreti, per proteggere dallurto della lotta un arbitrio che, sempre più, può mantenersi solo con lassenso delle proprie vittime. Se per assurdo queste ultime fossero disposte tutte ad integrarsi nella sua apparente unica identità, i suoi profitti non troverebbero altro limite se non quello della loro distribuzione ineguale, nella precarietà di un confliggere senza fine. Tale utopia poiché la concorrenza tra capitali (o multinazionali) è anche il risultato dellintreccio antagonista col lavoro è comunque lunica condizione, determinatasi storicamente, di esistenza del capitale entrato nella fase monopolistica ed espresso nelle forme democratiche, e non, delle sue istituzioni.
Economicamente, lorganizzazione del lavoro subordinato al capitale tende, nella ristrutturazione costante della sua razionalizzazione, ad assumere la forma corporativa, nellaccordo cooperativo di un ipotetico interesse comune, affermato come certezza dellaumento della produttività e sua destinazione in termini di benessere sociale. Politicamente, ideologicamente, istituzionalmente, il corporativismo [<=] si affaccia ripetutamente nel corso storico dellimperialismo [<=], ma sembra trovare compimento e stabilizzazione solo in seguito alla rivoluzione informatica, sotto la schermatura universalmente efficientistica della qualità totale. La natura pattizia del neocorporativismo (nella sua forma storicamente rinnovata e globalizzante) si nasconde perciò nella flessibilità [<=] del processo di lavoro delegato ai lavoratori, da rendere anchessi flessibili in un sistema di rapporti sociali, totalmente dominato dalle centrali di decisione produttiva. È per questo che è indispensabile il totale controllo del sindacato di classe, sussunto agli interessi di multifunzionalità, mobilità, cottimizzazione [<=] della forza-lavoro [<=] resa, al pari delle materie prime, oggetto di risparmio dei costi per la massimizzazione dei profitti. Non a caso le prime teorizzazioni della collaborazione di classe si rintracciano allinterno degli aspetti tecnici (Babbage, Taylor) dellorganizzazione scientifica del lavoro, di quelli economici (Bastiat, Carey), oppure nelle mediazioni etiche della cosiddetta questione sociale (Leone XIII, Rerum novarum) o politico-ideologiche di natura democraticistica o nazionalista. È conseguentemente negli anni 20-30 che se ne tenta la prima attuazione pratica nella forma autoritaria dello stato fascista (Patto di palazzo Vidoni, 25), o in quelle democratiche tipo Weimar (con Schacht proseguite poi nel nazismo) o New deal rooseveltiano.
Luso dello stato quale mediatore o promotore degli interessi proprietari cui piegare lobbedienza del lavoro ed oggi spezzarne definitivamente tutte le rigidità e le conquiste democratiche diviene perciò esperimento delluso legittimo delle forze organizzate in luogo delluso della violenza di stato sulle masse spontanee. La crisi [<=] di capitale irrisolta degli anni 20-30 porta allinasprimento del comando sul lavoro, di fronte allemergere della società di massa potenzialmente capace di autodeterminazione. Lo stato tende perciò a riaffermare la sua separatezza con il primato dellesecutivo che gestisce senza mediazioni i patti con i centri di potere economico. Lo spirito di corporazione viene presupposto nelluso politico di una burocrazia che amministra la materialità particolare degli interessi egemonici, sublimati, questi, nella istituzionalizzazione della tensione sociale quale gestione dellesistente sotto le mentite spoglie della potenza della nazione. Oggi il corporativismo [<=] fuoriesce dalla provetta fascista o rooseveltiana per affermare i suoi diritti di internazionalizzazione al séguito del predominio del mercato capitalistico [<=] pretendendo la coesione delle forze sociali in obbedienza alle leggi dellaccumulazione transnazionale. Lelevata, circolare e intersezionata conflittualità in cui questa è costretta a realizzarsi esige pertanto la disciplina integrale delle rappresentanze sociali (poste a controllo, non ad espressione della base), ché altrimenti costituirebbero un limite allespansione indiscriminata della produzione e appropriazione di plusvalore [<=].
Nessuna tentazione regressiva, dunque, nellattuale neocorporativismo, ma anzi individuazione della forma adeguata alla liberté, égalité, fraternité del solo dirigismo, storicamente compiuto, del capitale in opposizione allautodeterminazione delle masse liberate da ogni strumento difensivo, ed eguagliate unicamente nella disgregazione programmatica (genocidio, guerre locali, destrutturazioni politiche, nazionali, etniche, ecc.). Il neocoporativismo è pertanto forma progressiva del Nuovo Ordine Mondiale, nel senso della concentrazione economica e dellaccentramento egemonico della sua dirigenza per superare la crisi epocale. La proletarizzazione crescente a livello planetario viene così stabilmente legata in modo subalterno alla precarizzazione delle sue condizioni di esistenza, e innestata sul tronco polimorfo delle molteplici particolarità e nazionalità negate o sopravvissute solo in quanto apparenti. Il nuovo ordine ne esige infatti il riassetto funzionale attraverso lapprovazione fornita da tutti gli apparati (istituzioni, sindacati, chiese, ecc.) di mediazione, con luso tecnologico multimediale ed il ricatto sistematico (da quello sul lavoro, alleliminazione fisica degli avversari o non fiduciari, alla fame, alla guerra, ecc.) nei confronti di qualunque alternativa di potere. La partecipazione parificata neocorporativa è la seduzione per calmierare se mai fosse possibile la lotta di classe [<=].
[c.f.]
Neoliberismo # 1
Afferma Noam Chomsky: Oggi si preferisce parlare di neoliberismo [<= #2], ma non è altro in realtà che leconomia classica. Libero mercato [<=], speculazione [<=] finanziaria, mondializzazione, flessibilità [<=] del lavoro, impoverimento crescente, tutto è presentato come fenomeno naturale e necessario dal discorso neoliberista. La strategia neoliberista del capitale non è sorta allimprovviso. Friedrich von Hayek, che fin dagli anni 30 aveva criticato le proposte di Keynes, in La via della schiavitù (1944) riafferma il credo liberista [<=], e respinge leconomia centralista e dirigista che a suo avviso avrebbero condotto al totalitarismo. Con la cosiddetta scuola di Chicago e le sue fortunate teorie esaltanti la straordinaria fecondità del mercato, tra cui spicca il libro di Milton Friedman Capitalismo e libertà (1962), lo smantellamento delledificio keynesiano interventista trova, sul piano istituzionale internazionale, le ideologie dominanti della cosiddetta globalizzazione: crescita economica accelerata tramite il libero scambio mondiale e la deregolamentazione. Tale ribaltamento teorico e dottrinale acquista tutto il suo peso con la crisi degli anni 70. Linterventismo si rivela sempre meno efficace: le politiche economiche più raffinate non riescono ormai a contenere né la disoccupazione né linflazione; e prendono il sopravvento le tesi del meno stato, con il ritorno del liberismo di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1980).
La forbice di classe [<=] tra ricchezza e impoverimento, alla cui origine sta la politica di riduzione del costo del lavoro perseguìta dal capitale, si sta allargando in maniera impressionante e, nel progetto neoliberista, irreversibile la spirale perversa verso il basso viene così avviata. La strategia neoliberista impone la coniugazione di deregolamentazione, flessibilità, vale a dire espulsione dal lavoro, precarizzazione, part time, decentramento e delocalizzazione produttiva e mobilità, cocktail dimostratosi esiziale per loccupazione. I vantaggi della nuova divisione internazionale del lavoro e del post-fordismo (o, per meglio dire, lattuale congiuntura neoliberista dellimperialismo [<=] transnazionale), sono a senso unico: profitti sempre più alti, progressiva riduzione del costo del lavoro e crescita occupazionale zero, il tutto cementato insieme da quella strategia che sta provocando una devastazione, per alcuni aspetti senza precedenti, del tessuto sociale e dellambiente.
Il nuovo scenario mondiale su cui opera leconomia neoliberista è caratterizzato da una crescente mobilità del capitale: essa obbedisce in primo luogo alla logica della produzione capitalistica in epoca di crisi [<=] con conseguenti innovazioni tecnologiche, in quanto tale processo è largamente dominato dal desiderio di diminuire i costi di produzione. Inoltre, la mobilità del capitale è stata enormemente accelerata dallo sviluppo mondiale dei mercati finanziari. Regioni, aree, zone, settori includenti più stati nazionali [<=] o parti di essi: è questa la nuova strategia produttiva dellattuale fase neoliberista che per loccasione ritaglia una nuova geografia mondiale. Gli organismi sovranazionali di cui il capitale transnazionale si è dotato agiscono in modo fortemente autoritario. I vecchi stati nazionali o favoriscono anche politicamente leconomia neoliberista o vengono da questa neutralizzati e sottomessi. I loro margini di manovra appaiono sempre più ridotti, ma la destituzione di molte loro prerogative, a cominciare dalla sovranità nazionale, non sta a significare che il progetto neoliberista comprenda la loro pura e semplice dissoluzione. Il governo che non adotti una politica di concertazione tra le parti sociali non può garantire quella stabilità politica di cui il neoliberismo ha bisogno.
La tendenza neoliberista della mondializzazione, le cui forme politiche forti sono il presidenzialismo, il sistema politico maggioritario, la revisione-riscrittura della carta costituzionale. La mondializzazione neoliberista è andata giù pesante come un rullo compressore negli ultimi anni, appiattendo culture politiche diverse per storia, tradizioni e struttura sociale. Al posto del sistema di democrazia [<=] formale borghese vigente negli stati industrialmente avanzati sta prendendo corpo un regime neoliberista. Linternazionale della morte così il subcomandante zapatista Marcos ha definito la natura del neoliberismo, in occasione dellincontro intercontinentale contro il neoliberismo e per lumanità. Ma essere zapatisti in Italia non significa vivere come transfughi chiapanechi o come nipotini di Marcos, bensì riconoscere il neoliberismo come il nemico composito principale di questa fase storica e lottare contro le forme con cui si manifesta in Italia e in Europa. Anche perché non mancano sorprese: una di queste è scoprire che dei teorici, rivoluzionari fino a dieci anni fa, ora sono diventati dei tristi apologeti del neoliberismo.
[r.b.]
(cfr.in dettaglio, Roberto Bugliani, Per una dialettica di lotta antineoliberista, in Invarianti, n.30, nov.97)
Neoliberismo # 2
(critica dellimperialismo)
Risulta di immediata evidenza che neoliberismo è una metafora per imperialismo [<=]. Se solo di questo si trattasse, basterebbe intendere lun termine per laltro, compiacendosi che anche sulle pagine web di Internet appaiano scritti relativi a incontri per lumanità e contro il neoliberismo. Ma così non è. La questione è un po più complicata. Dallideologia riversata nel cattivo senso comune, infatti, si espunge il significato dellimperialismo e dello stesso modo di produzione capitalistico, sì che è al neoliberismo che sono imputati eventi quali: crescita senza occupazione, devastazione sociale e ambientale dovuta al macchinismo [<=], squilibrio nord-sud nelle cosiddette globalizzazione e finanziarizzazione, fino allunicità del mercato [<=] e del pensiero, e via omologando nella grigia piattezza di un dispotismo barbarico. Come se e qui sta il tranello si possa presumere che sia data levenienza di unaltra organizzazione sociale (di cui accuratamente si taccia la forma capitalistica, ormai ritenuta obsoleta e ineffabile) non neoliberista, meno barbarica e dunque accettabile per lumanità medesima: a es., una società basata su una regolazione dei rapporti di produzione e di distribuzione di tipo genericamente keynesian-proudhoniano.
Lesempio non è casuale, bensì causale. La ragione dellintellettualità borghese dellasinistra alla Ramonet, per non far nomi, col contorno della signora Mitterrand è, infatti, tanto interessata alla battaglia contro il supponente neoliberismo proprio a causa del desiderio di ripristinare al più presto quelle forme di relazionalità sociale che stanno sotto lombrello variopinto della socialdemocrazia, del liberalsocialismo, del laburismo e del fabianesimo (comunque siano ribattezzati), e che tanto spazio e rispettabilità hanno procurato a essa stessa, ovverosia alla borghesia e piccola borghesia colta e progressista. Il neoliberismo, al contrario, è lavversario che entro il capitalismo stesso le ha sottratto legittimazione e credibilità. Dunque dicono gli ostinati intellettualisti professori della democrazia [<=] sviluppata occorre uscire dalla rozza arroganza del potere privato del mercato e restituire fulgore a quello sociale dello stato [<=]. Cosicché il keynesismo, variamente vestito e mascherato, possa essere preso come bandiera eterodossa della difesa dei deboli e degli oppressi: purché non si discuta di proprietà [<=] privata, sfruttamento, classi [<=] sociali e lotta di classe [<=], insomma non si metta in dubbio la permanenza del modo di produzione capitalistico. E si possa procedere cautamente verso una società dellarmonia e del confronto, anziché della lotta e del conflitto, in cui i padroni rimangano padroni e gli espropriati continuino a riprodursi come espropriati, in un clima di consenso, tanto poco idilliaco quanto coatto, un sistema che noi preferiamo definire neocorporativismo [<=].
Gli intellettualisti del socialismo borghese, peraltro, hanno anche un alibi, storico e teorico, giacché di contro a Keynes e compari si erge sicuramente lastio della cricca di von Mises e von Hayek. E tanto basta, agli imbecilli diventati professori di economia politica e al loro séguito politico, per formare una coorte asinistra in difesa della rivoluzione keynesiana. Senonché, ahi loro, Keynes non era meno liberale e meno sostenitore degli interessi capitalistici dei suoi astiosi critici. Al punto da fargli scrivere: Moralmente e filosoficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione profondamente motivata. Serve altro?! Il rozzo proletariato è da Keynes paragonato al fango nei confronti dello squisito pesce, ossia la borghesia e lintellighentsia, le quali, per quanti siano i loro difetti, sono lessenza della vita, e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano. La sua reazione contro il laissez faire è solo dettata dalla ricerca di metodi più efficaci per realizzare davvero i princìpi del liberismo [<=], basati sullo svolgimento della libera concorrenza [<=] anziché sulla sua abolizione, e per il ristabilire così lordine economico naturale cui tanto anelava il di lui vate Silvio Gesell. Proprio il laissez faire, caro ai fondamenti del liberismo, è da Keynes indicato quale base per la selezione naturale attraverso la concorrenza che fa muovere levoluzione lungo strade desiderabili ed efficaci, così come lindividualismo invoca lamore per il denaro, attraverso il perseguimento del profitto, come elemento base della selezione naturale misurata dal valore di scambio. È ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca riguardi lamore per il denaro. Il che, appunto, non significa disfarsi del sistema di Manchester, quanto piuttosto indicare le circostanze richieste dal libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produzione.
La filosofia sociale di Keynes ha, a suo stesso dire, implicazioni moderatamente conservatrici, con misure introdotte con gradualità e senza una rottura nelle tradizioni generali della società. Non soppianta lindividuo nel campo che a questi compete, e non mira a trasformare il sistema salariale o ad abolire la motivazione per il profitto. Ma, soprattutto, lindividualismo, emendato dei suoi difetti e dei suoi abusi, è la miglior salvaguardia della libertà personale. E se occorrono sacrifici economici li si facciano (fare), fino alla guerra [<=] unica via storicamente praticata per avvicinarsi alla farneticazione della piena occupazione (Hitler insegna!) poiché ciò che occorre è una restaurazione di un pensiero moralmente corretto un ritorno a giusti valori morali nella nostra filosofia sociale, orientando le menti e i cuori alla questione morale. Ipse dixit. Se la lotta contro il neoliberismo dovesse servire solo per ritornare ai fasti e nefasti del liberismo keynesiano altrettanto capitalistico borghese, da paventare un futuro esecrabile in cui, addirittura, si potrebbe correre perfino il rischio che la carriera del fare quattrini, in sé, non si presenti neppure come possibilità ad un giovane rispettabile! sarebbe meglio seguire i suggerimenti di Engels e preferire il confronto critico con i nemici dichiarati piuttosto che con i falsi amici, dicendo fermamente: no, grazie! Del resto, ci vuole assai poco a capire quali siano le indicazioni keynesiane: basta solo un po di attenzione e di tempo per leggerle. E allora non ci sarà bisogno di parlare di neoliberismo, ma semplicemente di capitalismo, di cui il liberismo è espressione, in qualsiasi forma, anche keynesiana.
Il keynesismo, se lo conosci, lo eviti!
[gf.p.]
Nuovismo
(precarietà del lavoro)
Nellattività ideologica del cosiddetto marketing è stato usato in modo truffaldino, amplificandolo al fine di distorcerne completamente il significato, il termine nuovo da cui il brutto neologismo, di gran moda, nuovismo. Nuovo viene portato a significare (senza altra considerazione, senza concedere spazio a riflessione) valido, attuale, sicché nuovismo comporti progresso, evoluzione. Questi termini sono stati usati per fare invecchiare quellesistente indesiderato, con la sola sua presenza. Tutto ciò che esisteva in termini di norme, di modalità di lavoro, di equilibri, di diritti, di articolazioni contrattuali e salariali, per la presenza di questo nuovo (reso abbacinante dalloperazione ideologica, che lo stesso nuovismo fa dire di marketing) è stato fatto invecchiare improvvisamente, ingiustamente molto prima del suo tempo.
Si dovevano fare invecchiare i diritti, i salari, i rapporti di forza, gli equilibri, i contratti, le leggi, gli accordi. Bisognava rappresentarli anche brutti, rigidi, ingiustamente e inspiegabilmente ancora operanti, inadattabili alla sinuosità e alla flessuosità del mercato, al suo dinamismo, alla sua elasticità (guizzi repentini da elettrocardiogramma impazzito). Bisognava dunque mostrare un nuovo che non poteva emergere, un bambino soffocato, impedito a nascere dal vecchio. Alla fine non si doveva che desiderare di scrollarsi di dosso il vecchio ed il rigido. Questa è limmagine che hanno tentato di instillare nelle menti dei lavoratori e dei cittadini, e a essa hanno collegato, coerentemente, le sensazioni da far provare. Non ci sono riusciti completamente ma un bel colpo lo hanno assestato, tanto è vero che oggi si parla, in chiave eminentemente idelogica, di un pensiero unico che contemplerebbe proprio queste visioni e sensazioni.
Si rileva, e il fenomeno è particolarmente accentuato nei paesi anglosassoni, che laumento di flessibilità nella prestazione lavorativa ha trasformato profondamente i tempi delle famiglie coinvolte. La suddivisione precedente, tipica fino a poco più di una decina di anni fa, tra tempi di fabbrica e tempi familiari è saltata. Ne risentono i rapporti familiari, come evidenziato dallincidenza dei divorzi, tra le famiglie più colpite dal fenomeno, allinterno delle quali ci si comunica spesso con i messaggi lasciati su fogli di carta.
Le famiglie che tentano di darsi organizzazione per sopperire alla scarsità del tempo rimasto, predispongono una specie di scadenzario dei compiti familiari, turni suddivisi tra marito e moglie, una pianificazione della conduzione familiare [non per caso proprio il nuovismo obbliga a impiegare termini anglofonizzati come scheduler, planning, organizer, ménage, ecc ]. Nei paesi anglosassoni anche le istituzioni si fanno carico di pubblicizzare questa organizzazione della famiglia e della vita. La fabbrica assorbe sempre più tempo allindividuo e questo deve ora organizzarsi con il coniuge per gestire al meglio il poco tempo rimasto. Per altro verso si deve lavorare di più, poiché conseguentemente alle politiche di contenimento salariale, con lattacco al salario sociale [<=] (riduzione dello stato sociale [<=], dei diritti [<=], ecc.) e con labbattimento dei costi di produzione, lo stipendio non basta più.
La flessibilità oraria ha trasformato il modo di vivere della famiglia nella cosiddetta epoca postfordista, al cui interno si fanno i turni come in unazienda. Le ricadute sui membri della famiglia, in particolare nei soggetti più fragili, i figli, sono rappresentate anche nei telegiornali. Laumento delle patologie da ansia, nei paesi anglosassoni e negli Stati Uniti in particolare, hanno raggiunto dei livelli preoccupanti. I rapporti familiari deteriorano soprattutto per la mancanza del tempo da dedicare a essi.
Questi sono i tempi nuovi, il nuovo, il progresso? Ma perché mai progredendo si dovrebbe stare peggio?! Che ciò che viene dopo, sia successivo a quanto cera prima, è unovvietà che di per se non può dare alcuna rassicurazione di una qualità superiore, di un progresso. Questo perché nulla esclude che il peggio accada dopo il meglio; tantè vero che il mondo è pieno di disgrazie, non si sono esaurite tutte nel passato, ma ne accadranno ancora, anche dopo episodi più antichi ma buoni. Quindi, dire nuovo per contrapporlo a vecchio, non garantisce assolutamente il risultato, cioè che nuovo sia automaticamente positivo, migliore, progressivo. I sostenitori del nuovo invece credono il contrario, e nonostante i risultati che si hanno sotto gli occhi, continuano a testa bassa con la stesa litania. Come è possibile far credere che un individuo che ha uno stipendio da sopravvivenza, magari senza contributi (poiché di questo particolare nuovo in giro se ne vede tanto), si trovi meglio di un individuo che ancora oggi, proprio perché impiegato nei tempi del vecchio, guadagna ancora decentemente, non solo per sé ma anche per mantenere la propria famiglia; e magari sostiene anche il figlio che, alle condizioni di impiego del nuovo, non avrebbe autonomia economica, essendo un povero o poco più.
Ci si dovrebbe chiedere come è possibile che, fino a oggi, sia il centro-sinistra, sia il centro-destra, con il forte ausilio dei sindacati confederali, abbiano potuto produrre questo orrendo nuovo, molto poco flessibile in direzione di ciò che è bene per i lavoratori, ma estremamente e positivamente elastico per gli interessi delle imprese. Il marketing, gente! Gente, così chiama la classe la nuova ideologia del marketing! Questo è il pensiero borghese dominante, come lo chiamavano Engels e Marx, oggi sbrigativamente detto unico, una grossa operazione ideologica di marketing politico-sindacale, che vende panzane narcotiche e molto nocive. Con lindagine e il ragionamento, e ce ne vogliono molti e accurati, si può restituire concretezza e verità, producendo un pensiero coerente con i fatti della vita. Questo è il pensiero alternativo.
[a.ds.]