Governabilità

(dieci tesi)

1. Tutti gli organismi sociali consistono in combinazioni complesse di àmbiti, diversi da epoca a epoca. Tutti hanno però in comune l’impulso all’equilibrio che sotterraneamente gli ispira. Ogni organismo ricerca costantemente l’equi­librio tra gli àmbiti che lo compongono, i quali, cioè, se non fossero conse­guentemente concordi (“appropriati”), potrebbero compromettere l’esistenza e il rigenerarsi dell’organismo stesso. Le potenzialità rigenerative di ogni àmbito e dell’organismo complessivo sono di solito tenute sotto controllo da vari tipi di “elementi di regolazione”, sì da conseguire uno “stato stazionario” (stabilizzazione [<=], conservazione). Questa regolazione tende a mantenere i cam­biamenti nelle proporzioni accettabili per l’organismo, ché altrimenti porte­rebbero al collasso; ciò dà luogo a fenomeni di mediazione attraverso cui an­nullare i pericoli di divaricazione sistematica (e potenzialmente distruttiva), e lo stato stazionario sarà mantenuto. Tale adattamento ai fini dell’equilibrio può essere definito di governabilità, plasmazione o compattamento.

2. In ogni organismo sociale avvengono cambiamenti che contribuiscono alla variazione dello stato stazionario. L’azione combinata tra i diversi àmbiti ten­de alla costanza, pur nelle proporzioni alterate; ogni stato stazionario, cioè, dopo l’avvenuto cambiamento, vivrà una nuova fase del suo equilibrio.

3. Negli organismi che contengono molte reti di àmbiti interconnessi, i muta­menti apportati da un intervento cosciente [<=] (l’essere umano che agisce a parti­re da un determinato punto della rete con una precisa volontà di imprimere un movimento) possono diffondersi lungo l’organismo. Ogni àmbito, e ogni membro interno all’àmbito, è soggetto a controllo. Ogni organismo è dotato di strumenti di regolazione.

4. Questo fenomeno della diffusione cosciente del movimento è, nell’accezio­ne più ampia, una sorta di destabilizzazione. Questo processo, col tempo, de­ve essere neutralizzato. Sorgono, internamente ad ogni organismo, nuovi membri di reazione al movimento (sistemi di repressione).

5. In questo senso, ogni intervento finalizzato a rendere il cambiamento “in­terno” all’organismo (allo scopo dell’equilibrio successivo al cambiamento parziale di stato) è conservativo e ogni destabilizzazione è avversativa. Ciò che distingue un “cambiamento interno” dalla destabilizzazione dipende dalla maniera di intendere l’inserimento, col movimento provocato, dentro l’orga­nismo sociale a partire da:

a) un’ipotesi di semplice correzione (l’organismo sociale inteso come unico possibile, e migliore);

b) da un’ipotesi che vede l’organismo sociale come ribaltabile (in quanto transitorio).

Ogni attività umana esterna al momento della regolazione parte da queste due ipotesi.

6. Dall’indagine precedente sull’organismo sociale, nella sua sintesi contem­poranea e limitatamente all’àmbito nazionale, e dalle considerazioni appena fatte, se ne deduce che la funzione regolatrice (per correggere le deviazioni) tende a delimitare i comportamenti sociali di quella parte che Marx riconosce come “la plus laborieuse et la plus misérable”. Istruire e disciplinare questa parte è compito specifico di determinati membri interni ai diversi àmbiti (si­stemi educativi).

7. È importante sottolineare che ogni organismo sociale si muove per l’impul­so (latente o palese, a seconda dei momenti) della contesa, da regolare costan­temente per far reggere lo stato d’equilibrio. La contesa (il conflitto, la con­traddizione) appare come perturbazione che crea uno stato di disequilibrio. Il disequilibrio può determinare il collasso del sistema, e il trapasso verso una forma superiore (altra) di organismo sociale.

8. Si pone il problema dell’assoggettamento della parte potenzialmente desta­bilizzante ai principi regolativi dell’organismo socia]e. La fusione completa dei diversi soggetti sociali non è possibile nelle fasi intermedie della contesa, ma solo a lunga scadenza (abolizione delle classi [<=]); non è neppure possibile l’eliminazione di uno dei soggetti principali durante la contesa; dunque, all’organismo sociale non resta che assimilare alla dominante tutte le altre “culture”, sostituendo all’antagonismo l’armonia. Tale assimilazione ai fini dell’equilibrio è perseguita:

a) nel comportamento di ciascun individuo compatibilmente al termine domi­nante (uniformazione a norme);

b) nel consenso [<=] ai comportamenti sociali in relazione all’ambito (principale) della produzione – accordo sociale allo sfruttamento;

c) nella concordia delle “unità sociologiche” (àmbiti, membri) e tra i diversi soggetti sociali (classi).

9. Il problema della collusione tra i soggetti sociali è fondamentale per l’adat­tamento della parte sottomessa (lavoro salariato) all’organismo sociale com­plessivo. La partecipazione attiva di questa parte alla produzione prefigura il fine dell’armonia familiare e aziendale saggiamente propagandata da un in­sieme di messaggi neocorporativi [<=] (sistemi comunicativi [<=]).

10. Noi presupponiamo che per spiegare in profondità un organismo sociale [<=] occorra prendere in esame il processo produttivo messo in moto attraverso il comando sul lavoro altrui. L’apologia neocorporativa tende a celare la riso­nanza dell’antagonismo; eppure questo esercita una reazione in tutto l’organi­smo sociale, ed è certamente vero che il contenuto della prossima indagine dovrà riguardare l’immensa abbondanza dei possibili eventi destabilizzanti cui tale antagonismo potrà dar luogo.

[n.g.]

 

 

Guerra # 1

(forma della politica)

La guerra è una cosa che può essere ora più ora meno guerra. L’unità degli elementi contraddittori uniti nella vita pratica, è la nozione che la guerra è soltanto una parte del commercio politico e per conseguenza non è per nulla un fatto a sé stante. Nessuno ignora che la guerra è causata soltanto dai rapporti politici fra i governi [<=] e i popoli [<=]; ma generalmente si immagina che questi rapporti vengano a cessare per il fatto stesso della guerra, e che si stabilisca quindi un diverso stato di cose, retto dalle leggi proprie della guerra. Noi affermiamo al contrario che la guerra non è null’altro che la continuazione della politica, con intervento di altri mezzi. Diciamo “con intervento di altri mezzi”, al fine di indicare con questo che, lungi dal cessare a cau­sa della guerra o dal modificarsi, le relazioni politiche persistono nella loro essenza stessa, qualunque sia la for­ma assunta dai mezzi impiegati, e che le linee generali dello sviluppo degli avvenimenti bellici, a cui sono col­legati, non sono nient’altro che le linee principali della politica, che si svolgono dal principio alla fine delle ostilità, fino alla pace. La guerra non è forse un linguaggio [<=] per esprimere il proprio pensiero? Se non ha una propria logica, la guerra ha almeno una propria grammatica.

Si vede da questo che la guerra non deve mai essere separata dal commercio politico. E se si tenta di separarla, ne esce una cosa priva di senso e di scopo. Nella realtà, la guerra – poiché rispetto alla sua forma assoluta, lon­tana dallo sforzo estremo, non è che una mezza misura – racchiude in sé una contraddizione: che come tale non può seguire le sue proprie leggi, ma deve essere considerata il frammento di un complesso e questo complesso è la politica. Più la politica è grandiosa ed energica, più la guerra lo diviene a sua volta, e può assurgere fino a raggiungere la sua forma assoluta. È soltanto rappresentandosi così la guerra che le si rende la sua unità, che si possono considerare tutte le guerre come fatti della stessa natura.

[k.vc.

(da Karl von Clausewitz, Sulla guerra, 1806)

 

 

Guerra # 2

(nazioni e classi)

Nell’indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, nel novembre 1864, dicevamo: “Se l’emancipazione della classe operaia richiede la sua fraterna unione e cooperazione, come può essa adempiere questa grande missione finché una politica estera che persegue disegni criminosi aizza gli uni contro gli altri i pregiudizi nazionali e profonde in guerre di rapina il sangue e la ricchezza del popolo?”. Le borse [<=], i governi [<=], le classi [<=] dominanti e la stampa di quasi tutta l’Europa celebrarono una grande vittoria sulla classe operaia: in real­tà fu il segnale dell’assassinio di intere nazioni. I membri parigini dell’Internazionale pubblicavano il loro manifesto ai “lavoratori di tutte le nazioni”: “Ancora una volta, col pretesto dell’equilibrio europeo e dell’onore nazionale, l’ambizione politica minaccia la pace del mondo. Lavoratori francesi, tedeschi e spagnoli, uniamo le nostre voci in un sol grido di orrore contro la guer­ra! [<= #1] La guerra per una questione di preponderanza non può essere agli occhi dei lavoratori che una pazzia crimi­nale. In risposta agli appelli bellicosi di coloro che non pagano il tributo del sangue e che nella sciagura comu­ne vedono soltanto una fonte di nuove speculazioni, noi protestiamo ad alta voce. La nostra discordia non avrebbe altra conseguenza che il trionfo completo del dispotismo su entrambe le sponde del Reno”.

Se la classe operaia tedesca permette alla guerra (contro la Francia) di perdere il suo carattere difensivo e di degenerare in una guerra contro il popolo [<=] francese, tanto una vittoria quanto una sconfitta saranno ugualmente disastrose. La voce dei lavoratori francesi ha trovato un’eco in Germania: “Noi siamo nemici di tutte le guerre. Con profondo rammarico e con dolore ci vediamo costretti a partecipare a una guerra di difesa, come a una sciagura inevitabile. Ma al tempo stesso chiediamo a tutta la classe operaia della Germania di rendere d’ora in poi impossibile la ripetizione di un così enorme disastro sociale, rivendicando per i popoli stessi la facoltà di decidere della pace e della guerra e di diventare padroni dei propri destini. Siamo lieti di stringere la mano fra­terna offertaci dai lavoratori di Francia. Memori del motto dell’Associazione internazionale dei lavoratori – pro­letari di tutti i paesi, unitevi! – non dimenticheremo mai che i lavoratori di tutti i paesi sono nostri amici e i de­spoti di tutti i paesi nostri nemici”. La classe operaia inglese tende una mano ai lavoratori francesi e tedeschi. Essa è profondamente convinta che, qualunque possa essere l’esito dell’attuale spaventevole guerra, l’alleanza dei lavoratori di tutti i paesi riuscirà in ultima analisi a mettere fine alle guerre. Il solo fatto che, mentre la Francia ufficiale e la Germania ufficiale si gettano in una lotta fratricida, i lavoratori della Francia e della Germania si scambino messaggi di pace e di amicizia, questo solo grande fatto, che non ha riscontro nella storia, apre la prospettiva di un futuro più sereno.

Ma la camarilla militare prussiana si decideva alla conquista. Nel suo discorso al parlamento della Germania, re Guglielmo aveva dichiarato solennemente di condurre la guerra soltanto contro l’imperatore dei francesi e non contro il popolo francese. Come liberarlo da codesto impegno solenne!? I direttori di scena dovevano far­gli rappresentare la parte di colui che cede contro sua voglia a un’irresistibile richiesta della nazione [<=] tedesca. Essi dettero immediatamente questa parola d’ordine alla borghesia liberale, ai suoi professori, ai suoi capitali­sti, ai suoi deputati e giornalisti. Questa borghesia, che nelle sue lotte per la libertà [<=] civile dette un esempio inaudito di irresolutezza, di incapacità e di vigliaccheria, si sentì naturalmente assai lusingata di rappresentare sulla scena europea la parte del leone ruggente del patriottismo tedesco. Essa si pose la maschera dell’indipen­denza civile per fingere di costringere il governo prussiano a realizzare i disegni che esso stesso nutriva in se­greto, reclamando ad alta voce lo smembramento della repubblica francese. Per castigarla del suo patriottismo francese, Strasburgo fu bombardata senza scopo e barbaramente per sei giorni interi da granate “tedesche”, mettendola a fuoco e uccidendo una quantità dei suoi abitanti inermi!

Se la campagna attuale ha dimostrato qualcosa, essa ha dimostrato la facilità con la quale la Francia può essere invasa dalla Germania. Ma a parlare francamente, non è forse un assurdo e un anacronismo fare delle conside­razioni militari il principio secondo il quale si devono stabilire i confini delle nazioni? Se i confini devono es­sere determinati da interessi militari, le pretese non avranno mai termine, perché ogni linea militare è difettosa e può sempre venir migliorata con l’annessione di un territorio più avanzato. La storia misurerà il suo compen­so non dall’estensione delle miglia quadrate strappate alla Francia, ma dall’enormità del delitto di aver fatto ri­vivere, nella seconda metà del XIX sec., la politica di conquista. I campioni del patriottismo teutonico dicono: quello che noi vogliamo non è la gloria, ma la sicurezza, “garan­zie materiali”. Il sistema militare (tedesco) che divide tutta la popolazione maschile atta alle armi in due parti – un esercito permanente in servizio e un altro esercito permanente in licenza, tutti e due però tenuti all’obbe­dienza passiva ai governanti per “grazia di Dio” – un sistema militare simile è, naturalmente, una “garanzia ma­teriale” della pace universale e, oltre a ciò, il grado più elevato della civiltà! In Germania, come dappertutto, i cortigiani del potere costituito avvelenano l’opinione pubblica con l’incenso di bugiarde vanterie.

Se i lavoratori francesi non sono riusciti a fermare l’aggressore in tempo di pace, possono i lavoratori tedeschi avere maggiori probabilità di trattenere il vincitore in mezzo al fragore delle armi? Il manifesto dei lavoratori tedeschi – contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena, in nome della classe operaia tedesca, nell’interesse comune della Francia e della Germania, nell’interesse della pace e della libertà – esige la consegna di Luigi Bonaparte, come malfattore comune, alla repubblica francese. Coloro che li governano, invece, già si stanno adoperando per insediarlo di nuovo al governo, come l’uomo più adatto per spingere la Francia alla rovina. Quella repubbli­ca non è stata proclamata come una conquista sociale, ma come una misura di difesa nazionale, e ha ereditato dall’impero non solo un mucchio di rovine ma anche la sua paura della classe operaia. La classe operaia francese si trova dunque in una situazione estremamente difficile. I lavoratori francesi devo­no compiere il loro dovere di cittadini, ma non si devono lasciare dominare dalle loro tradizioni nazionali [<=], non devono ripetere il passato ma costruire il futuro. L’Associazione internazionale dei lavoratori chiami all’azione la classe operaia di tutti i paesi. Se i lavoratori dimenticheranno il loro dovere, se resteranno passivi, la presente tremenda guerra sarà l’annuncio di nuovi conflitti internazionali ancora più terribili, e porterà in ogni paese a nuove vittorie sui lavoratori dei signori della guerra, della proprietà fondiaria e del capitale.

Una cricca di avvocati in cerca di carriera, con Thiers come loro uomo di stato e Trochu come loro generale, per legittimare il titolo da loro usurpato di governanti della Francia, pensavano che fosse sufficiente esibire il loro mandato scaduto di deputati. La classe operaia tollerò che essi prendessero il potere, alla condizione espressa che questo dovesse venire utilizzato esclusivamente allo scopo di difesa nazionale. Ma non era possi­bile difendere Parigi senza armare i suoi lavoratori: ma armare Parigi era armare la rivoluzione [<=], e una vittoria sull’aggressore prussiano sarebbe stata una vittoria del proletariato francese sul capitale francese e sui suoi pa­rassiti statali. In questo conflitto tra il dovere nazionale e l’interesse di classe, il governo della difesa nazionale non esitò un momento a trasformarsi in governo del tradimento nazionale. Il “piano” di Trochu era la capitola­zione di Parigi, ma – dato che il tentativo di Parigi di resistere a un assedio dell’esercito prussiano sarebbe stata una follia, “certo una follia eroica, ma niente più”, disse Trochu – invece di proporre al popolo di Parigi o di ar­rendersi subito o di prendere le proprie sorti nelle proprie mani, gli infami impostori decisero di guarire Parigi della sua eroica follia con un regime di carestia e di violenza, e nel frattempo di ingannarla coi loro manifesti roboanti. Il ministro degli esteri Favre confessa che coloro contro i quali stavano “difendendosi” non erano i soldati prussiani, ma i proletari di Parigi. Per tutta la durata dell’assedio, i banditi ai quali Trochu saggiamente aveva affidato il comando dell’esercito di Parigi, nella loro corrispondenza, si beffavano in modo vergognoso della farsa evidente della difesa. Nella loro fuga i capitolatori abbandonarono le prove documentate del loro tradimento, per distruggere le quali, dice la Comune, “essi non avrebbero esitato a fare di Parigi un mucchio di rovine bagnate da un mare di sangue”.

Il flagello dell’invasione straniera si era abbattuto sulla Francia ed essi tornavano a galla. Thiers parlava della repubblica con le parole del boia a don Carlos: “Sto per ammazzarti, ma per il tuo bene!”. Era solo con l’abbat­timento violento della repubblica che gli accaparratori della ricchezza potevano sperare di riversare sulle spalle dei suoi produttori il costo di una guerra che essi stessi, gli accaparratori, avevano provocato. L’immensa rovi­na della Francia spronava questi patriottici rappresentanti della terra e del capitale a inserire, sotto gli occhi stessi e sotto il patronato dell’invasore, nella guerra esterna una guerra civile.

La cospirazione della classe dirigente per abbattere la rivoluzione con una guerra civile combattuta con l’aiuto di un invasore straniero culminò con il massacro di Parigi. La Comune aveva accettato i preliminari di pace e la Prussia aveva dichiarato la sua neutralità. Il fatto che l’esercito vincitore e l’esercito vinto fraternizzino per massacrare insieme il proletariato segnala la decomposizione completa della società borghese. I governi euro­pei attestano così il carattere internazionale del dominio di classe. Uno dei generali che parteciparono alla spedizione notturna contro Montmartre, il generale Lecomte, aveva or­dinato quattro volte di far fuoco sulla folla inerme in piazza Pigalle e al rifiuto dei suoi uomini li aveva feroce­mente insultati. Invece di sparare su donne e bambini, i suoi soldati spararono su di lui. “I proletari di Parigi, in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora in cui essi debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari. Essi hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto rendersi padroni dei loro propri destini, im­possessandosi del potere governativo”.

[k.m.]

(da Karl Marx, La guerra civile in Francia)

 

 

Guerra # 3

(aggressione imperialistica, movimenti)          

È proprio della democrazia borghese, per la sua natura stessa, impostare astrattamente o formalmente il problema dell’uguaglianza in genere, ivi compresa l’uguaglianza nazionale. La democrazia borghese, mentre afferma genericamente che tutti gli uomini sono uguali, proclama l’uguaglianza giuridica del proprietario e del proletario, dello sfruttatore e dello sfruttato, e inganna così nel peggiore dei modi le classi oppresse.

L’idea di uguaglianza, che è essa stessa un riflesso dei rapporti della produzione mercantile, viene trasformata dalla borghesia in un’arma di lotta contro l’abolizione delle classi, col pretesto di una presunta uguaglianza assoluta delle persone umane. Il reale significato dell’uguaglianza consiste soltanto nell’istanza dell’a­bolizione delle classi.

Nella lotta contro la democrazia borghese e delle sue menzogne e ipocrisie, occorre muovere, in primo luo­go, da una valutazione precisa della situazione storica concreta e, anzitutto, di quella economica. In secondo luogo, da una netta separazione tra gli interessi delle classi oppresse, lavoratrici, sfruttate, e il concetto generale degli interessi nazionali, il quale esprime gli interessi della classe dominante. In terzo luogo, da una distinzione altrettanto netta tra le nazioni oppresse, soggette, private dei loro diritti e le nazioni sovrane che ne sfruttano e opprimono altre, in antitesi alle menzogne della democrazia borghese, la quale occulta l’asservi­mento coloniale e finanziario – proprio dell’epoca del capitale finanziario e dell’imperialismo – della stragrande maggioranza della popolazione del globo a opera di un’infima minoranza dei paesi capitalistici più progrediti e più ricchi. Un tratto caratteristico dell’imperialismo sta nel fatto che tutto il mondo si divide oggi in un gran numero di popoli oppressi e in un piccolo numero di popoli oppressori, i quali ultimi dispongono di ricchezze ingenti e di una forza militare poderosa.

La guerra imperialistica ha rivelato con particolare chiarezza a tutte le nazioni e le classi oppresse di tutto il mondo la falsità delle frasi democratiche borghesi, dimostrando coi fatti che ogni trattato imposto dalle famose “democrazie occidentali” è un atto di violenza contro le nazioni deboli. I popoli oppressi, dopo essere stati sconfitti dal­l’esercito di una grande potenza imperialistica, sono venuti a trovarsi, in base al “trattato di pace”, in stato di soggezione nei confronti di questa potenza. 

Riconoscere a parole l’internaziona­lismo e sostituirlo nei fatti con il nazionalismo e il pacifismo piccolo-borghese è cosa del tutto abituale non soltanto nei partiti socialdemocratici ma perfino nei partiti che si chiamano oggi comunisti. Il nazionalismo piccolo-borghese riduce l’internazionali­smo al riconoscimento della parità giuridica delle nazioni e lascia intatto l’egoismo nazionale. Pertanto negli stati già completamente capitalistici, la lotta contro i travisamenti opportunistici e pacifisti piccolo-borghesi del concetto di internazionalismo e della politica internazionalistica è il primo e più importante compito. 

Riguardo alle nazioni e agli stati più arretrati, dove predominano i rapporti feudali o patriarcali, è particolarmen­te necessario per i comunisti aiutare il movimento democratico borghese di liberazione in questi paesi; l’obbligo di aiutare nel modo più attivo un movimento di questo genere spetta anzitutto ai lavoratori del paese dal quale dipende, dal punto di vista coloniale o finanziario, la nazione arretrata. Il comune lavoratore – dell’“a­ristocrazia operaia” d’In­ghilterra e d’America – che ravvisasse un “tradimento” nell’aiuto fornito ai popoli asserviti nelle loro insurrezioni, contro la dominazione straniera, rappresenta il il più grave dei pericoli per il socialismo. Ma è necessario combattere il panislamismo o le analoghe tendenze che cercano di collegare il movimento di liberazione contro l’imperialismo europeo o americano con il rafforzamento della posizione dei grandi proprietari fondiari, dei mullah, ecc.

È necessario lottare energicamente contro i tentativi di dare una tinta comunista ai movimenti democratici borghesi di liberazione dei paesi arretrati, da sostenere solo a condizione che nei paesi arretrati i comunisti (di fatto e non soltanto di nome) siano raggruppati nella lotta contro i movimenti democratici borghesi nella loro nazione. Se si parlasse di “mo­vimento democratico borghese”, anziché di “movimento rivoluzionario nazionale” (che senza il minimo dubbio non può esso stesso che essere democratico borghese), si cancellerebbe tuttavia ogni differenza tra il movimento riformistico e il movimento rivoluzionario, giacché la borghesia imperialistica cerca con tutti i mezzi di trapiantare il movimento riformistico anche tra i popoli oppressi. I comunisti devono con­cludere alleanze provvisorie con la democrazia bor­ghese dei paesi arretrati, ma non devono fondersi con essa e devono assolutamente salvaguardare l’auto­nomia del movimento proletario perfino nella sua forma embrionale.

Tra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi oppressi si registra un certo ravvicinamento, sicché mol­to spesso quest’ultima, pur sostenendo i movimenti nazionali, lotta in pari tempo d’accordo con la borghesia im­perialistica, contro tutti i movimenti e le classi rivoluzionarie. In tali condizioni, anche nei paesi arretrati i comunisti devono lottare contro la borghesia riformistica. È perciò necessario spiegare e smascherare instancabilmente alle grandi masse lavoratrici di tutti i paesi, e soprattutto dei paesi arretrati, l’inganno a cui ricorrono metodicamente le potenze imperialistiche, le quali, asserendo di voler costituire stati politicamente indipendenti, crea­no in realtà degli stati da loro interamente dipendenti in senso economico, finanziario, militare.

D’altra parte, quanto più un paese è arretrato, tanto più forti sono i rapporti patriarcali e le anguste consuetudini locali, e tutto questo ha come conseguenza inevitabile che i pregiudizi piccolo-borghesi, cioè i pregiudizi dell’egoismo e della limitatezza nazionali, sono particolarmente saldi e radicati. Poiché questi pregiudizi possono scomparire solo dopo la scomparsa dell’imperialismo e del capitalismo nei paesi progrediti e dopo la radicale trasformazione delle fondamenta della vita economica nei paesi arretrati, la loro scomparsa non può non essere molto lenta.

Il capitalismo conosce nel corso del­la sua evoluzione due tendenze. La prima risiede nella comparsa della vi­ta nazionale e dei movimenti nazionali. La seconda risiede nello sviluppo e nella moltiplicazione di ogni tipo di relazioni tra le nazioni, nella distruzione delle barriere nazionali e nella creazione dell’unità internazionale del capitale, della vita economica in generale, della politica e della scienza. Queste due tendenze costituiscono la legge universale del capitalismo.                                  

[v.l.]

(da Vladimir Lenin, Sulle questioni nazionale e coloniale, II congresso I.C.; Sulle nazionalità1920-22)

 

 

Guerra # 4

(imperialismo neofascista)

L’attuale situazione nel campo industriale è caratterizzata da aspetti di eccezionale gravità. Contrariamente a quanto generalmente si afferma, la congiuntura di guerra non ha affatto segnato l’inizio di un periodo di più intensa attività produttiva. Si è avuta una certa effervescenza di affari ed una certa intensificazione dell’attività lavorativa nei mesi immediatamente antecedenti l’inizio delle operazioni per effetto soprattutto delle ordinazioni statali e per la ripercussione del movimento rialzista dei prezzi.

Ma a questa tendenza del tutto eccezionale ha tenuto dietro una fase di progressivo rallentamento del ritmo produttivo, complessivamente considerato. In sostanza il volume globale della produzione industriale è, per effetto della guerra, diminuito anziché aumentato, in quanto all’incremento produttivo di alcune branche, e specialmente di quelle direttamente o indirettamente legate alla guerra, ha fatto riscontro una diminuzione di maggior entità in tutte le altre branche di attività.

La guerra anziché determinare un ravvivamento generale dell’attività produttiva ha per contro determinato una più marcata diversità di comportamento nell’andamento delle varie branche d’industria. Diversità che in sostanza si è risolta in un ulteriore miglioramento di quelle industrie pri­vilegiate (industria pesante in senso largo e quella parte dell’industria leg­gera, costituita quasi esclusivamente da grandi imprese, la quale lavora per conto dello stato) che hanno sempre goduto dei favori governativi, che an­zi in funzione dell’una e degli altri si son sempre sviluppate e che perciò meno avevano risentito della crisi.

Che l’incremento di talune branche sia stato inferiore al regresso di talune altre e che nel complesso si sia avuto un regresso generale della produzione è dimostrato dal fatto che, ad onta delle operazioni di mobilitazione che hanno alleggerito il mercato del lavoro (tra soldati e operai), la disoccupazione è diminuita di poco. Qualora il ritmo produttivo fosse rimasto invariato, la massa dei disoccupati avrebbe dovuto essere completamen­te riassorbita.

Dunque, anche sotto quest’aspetto, la situazione è nettamente peggiorata. La congiuntura di guerra ha avuto l’effetto di acutizzare al massimo i contrasti sempre esistiti nell’interno della classe borghese. L’industria pesante è costituita prevalentemente da grandi imprese, da potenti organizzazioni monopolistiche legate le une alle altre da molteplici e complessi rapporti di cointeressenza.

La guerra con le sue impellenti necessità, non ha più consentito alla politica governativa di coprire il suo contenuto effettivo; è stata costretta a rivelarsi sfacciatamente per quello che è sempre stata e cioè una politica diretta a fare gli interessi della grande borghesia a scapito del proletariato, anzitutto, e della piccola e media bor­ghesia, poi. La guerra perciò anziché aumentare la coesione della borghesia industriale ha accresciuto il disorientamento. È accresciuta la divergenza d’interessi tra le categorie industriali, e, nell’ambito delle grandi imprese, tra imprese favorite dagli ordinativi statali e quelle non favorite, tra le imprese monopolistiche e imprese extramonopolio. Non v’è contrasto preesistente che non si sia, per effetto della guerra, acuito al punto da dar luogo a nuovi e ampi contrasti.

Il rialzo del costo della vita, a cui non ha tenuto dietro un corrispondente aumento delle paghe, la diminuzione cioè dei salari reali ha determinato un’ulteriore concentrazione delle vendite sul mercato interno. Il consumo di prodotti industriali è diminuito anche più di quello dei prodotti agricoli, dato il carattere di minore imprescindibilità dei primi rispetto ai secondi, si è avuto cioè un ulteriore peggioramento del già bassissimo tenore di vita delle grandi masse.

Senonché le aziende attrezzate per la produzione in serie e idonee a soddisfare prontamente gli ingenti or­dinativi militari, e cioè le grandi a­ziende, hanno trovato adeguato compenso alla diminuita vendita per i consumi civili nelle grosse e lucrose forniture di guerra, mentre la maggior parte delle piccole imprese hanno sopportato, senza compenso alcuno, le conseguenze della diminuita capacità di acquisto delle masse. Dato il principio della preminenza dei consumi militari sui consumi civili, il contingente di materie prime viene destinato esclusivamente o quasi alle industrie che lavorano per lo stato.

Competizioni e divergenze in ultima analisi si risolvono in un indebolimento della coesione di classe negli stessi strati decisivi della grande borghesia. Le grandi imprese trustificate e cartellizzate, giovandosi della loro si­tuazione di monopolio, hanno facilmente ovviato alle conseguenze della maggiorazione dei costi, imponendo ai consumatori prezzi più alti. Particolarmente agevole è riuscita la manovra rialzista per l’industria degli armamenti, che ha di fronte a sé un cliente unico: lo stato, cliente eccezionalmente prodigo specie quando è assillato dalla necessità di rifornirsi prontamente, come accade in caso di guerra. Ciò non vuole dire che l’au­mento dei costi non abbia punto pre­occupato le grandi industrie.

Il maggior prezzo pagato dagli industriali per i vari elementi del costo si è, direttamente o indirettamente (per tramite dello stato che ha destinato il maggior gettito unicamente a pagare gli ordinativi bellici), riversato nuovamente unicamente nelle tasche dei grandi industriali. E se qualcuno, in questo giro di affari, è rimasto colpito non è stato certo la grande industria, che ha prontamente reagito al­l’aumento dei costi con il rialzo dei prezzi; bensì la piccola e media industria che non si è vista ritornare sotto forma di ordinazioni governative quanto aveva pagato per maggiori imposte e, soprattutto, il proletariato e le grandi masse lavoratrici in genere sulle cui spalle si è in definitiva riversato l’aumento dei prezzi.

Ma nulla varrà a coprire agli occhi delle masse la realtà dei fatti che si manifesta con un rincaro del “costo della vita”. Di fronte ad un aumento del costo della vita cosa fanno i minori aumenti concessi, si noti, soltanto a talune categorie di operai?

I salari reali sono diminuiti; questo è un dato di fatto la cui portata nessuna campagna di stampa riuscirà ad attenuare: dato che acquista un valore tanto più significativo per le masse in quanto ad esso si contrappone al polo opposto, l’aumento dei profitti denunciato dai bilanci della maggior parte delle grandi società.

Da una parte i salari di fame, che vanno perdendo ognor più la loro capacità di acquisto, dall’altra pingui dividendi distribuiti ad una cerchia di capitalisti che va sempre più restringendosi nel­la misura in cui si accentua il fenomeno della concentrazione e centralizzazione dei capitali. L’ec­cezionale congiuntura inauguratasi con la guerra ha infatti tra le altre conseguenze provocato un acceleramento del processo di concentrazione e di centralizzazione.

Le grandi aziende, i trust monopolistici, hanno visto accrescere la loro sfera di azione, non solo perché si sono sostituiti alle imprese in dissesto rilevandone a prezzi di fallimento le aziende, ma anche perché eccezionali necessità dell’ora hanno determinato proprio nei settori ad essi pertinenti una situazione favorevole a nuovi investimenti. Abbiamo assistito ad una ripresa in pieno degli investimenti in­dustriali. Ma tale ripresa ha condotto ad un maggior grado di esasperazione alcune fra le sue più vive contraddizioni. Gli investimenti infatti sono stati rivolti proprio ed esclusivamente verso quelle branche di industrie parassitarie di cui sempre si deplorarono il carattere e le proporzioni ipertrofiche. In questi ultimi mesi i capitali sono infatti affluiti verso le industrie che (nessuno può negarlo) son sempre vissute, ed oggi più che mai, di protezione e di favori, cioè a carico dei contribuenti-consumatori (= gran­di masse).

Gli investimenti sono stati peraltro effettuati dalle stesse grandi organizzazioni monopolistiche, unitamente, anzi per iniziativa e sotto il patrocinio dei grandi istituti finanziari statali, specializzatisi ormai da lungo tempo nella loro tipica funzione di supremi promotori e coordinatori delle grandi operazioni di finanziamento industriale. Il grado di concentrazione dell’in­dustria, si è quindi, nel corso di pochi mesi e proprio per effetto della guerra, naturalmente elevato.

La crescente estensione delle attribuzioni economiche dei poteri dello stato si risolve automaticamente in un aumentato potere di quei gruppi, ai quali, o meglio agli organi “corpo­rativi” costituiti con elementi emananti direttamente dai quali, vengono infatti delegate le funzioni avocate dallo stato. Tali istituzioni sono completamente nelle mani degli uomini del grande capitale che vi dominano incontrastati, portando in esse il peso enorme dei loro interessi e la grande competenza dei tecnici ad essi asserviti, contro i quali nulla possono – ammesso pure che lo vogliano – gli avvocati e i ragionieri a cui è affidata la tutela degli interessi operai. Per ora ci basti ricordare che è appunto attraverso le “corporazioni” che i gruppi monopolistici si sono impossessati direttamente delle principali leve di comando dell’economia italiana.

I grandi industriali si vedono restituire sotto forma di finanziamenti. di commesse, di sovvenzioni quelle somme che hanno dovuto investire in titoli di stato. In sostanza questo provvedimento, che più di ogni altro è dalla stampa sfruttato a fini demagogici perché additato come la più evidente manifestazione della decisa volontà del governo di combattere il pescecanismo e i profittatori di guerra, si rivela come un vero e proprio prelevamento forzoso operato sugli utili, specialmente delle piccole e medie aziende per finanziare, per tra­mite dello stato, l’industria di guerra, cioè le grandi imprese.

Il governo denota che anche sotto queste disposizioni si cela un espediente per permettere ai grandi trust di eludere “legalmente” la legge. In un momento in cui il governo ha bisogno di mezzi liquidi per la sua grande azione è doveroso indirizzare i risparmi verso lo stato. È doveroso – aggiungiamo noi – in quanto nel­l’interesse precipuo del capitale finanziario e dell’industria di guerra, assicurare che allo stato non vengano meno proprio le principali fonti di cui esso si serve per finanziare la guerra, cioè quei ceti capitalistici che da questa traggono profitto.

Non sono fiscali i fini che si propone. A ben altre fonti dovrà ricorrere e su ben altre spalle il governo farà gravare il peso dei nuovi balzelli resisi necessari con la guerra. Non è sui capitalisti che esso premerà, anzi continuerà con essi a largheggiare con esenzioni ed agevolazioni tributarie. Le note esenzioni fiscali a favore delle fusioni di società vengono ulteriormente prorogate. Sarebbe sta­to di grave danno all’economia nazionale annullare le agevolazioni pro­prio in un periodo come questo in cui il processo di concentrazione delle imprese è in pieno sviluppo. Ed infatti le grandi società in questi ultimi tempi si sono giovate ampiamente di tale privilegio fiscale per estendere ancor più il loro raggio d’azione.

L’affannosa ricerca di capitali disponibili, che si estrinseca nella metodica ed implacabile azione promossa dal governo per rastrellare anche le minime risorse finanziarie, costituisce anzi una delle ragioni di maggior debolezza dell’imperialismo.

Nella misura in cui essa potrà realizzarsi, sarà effettuata a spese della forza-lavoro, specialmente coloniale, la quale dovrà, con il suo sopralavoro, creare una massa tale di profitto da sopperire in breve termine alle enormi esigenze di capitale. Il tasso di sfruttamento raggiungerà proporzioni altissime. La fame di capitali è destinata a crescere in tal misura da determinare il progressivo intensificarsi del ritmo di accumulazione capitalistica, intensificazione che non potrà essere altrimenti conseguita che mediante un più intenso sfruttamento della forza-lavoro metropolitana.

Qui, a conclusione dell’esame generale dell’attuale situazione industriale, è bene fermarsi con particolare attenzione a sottolineare il fatto che lo stato si è ormai fuso a tal punto con i gruppi dominanti del capitalismo monopolistico da dar vita a quella nuova forma di imprese nelle quali stato e privati formano un capitale e organizzano la gestione in comune.                    

[p.g.]

(da Pietro Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista – 1940)

 

 

Guerra # 5

(energia e petrolio)                         

L’idea di una guerra breve non è certo nuova; anche il primo conflitto mondiale doveva durare poche settimane, al limite mesi. Durò anni e causò qualcosa come tredici milioni di proletari morti. Durante la grande guerra si consumò, tra le altre cose, anche il passaggio tecnologico dall’e­nergia basata sul carbone a quella basata sul petrolio e suoi derivati. Non si trattò di una guerra per il petrolio, ma con il petrolio. Le previsioni tedesche di una vittoria rapida erano giustificate dalla propria superiorità in quanto a ferro e carbone; per la fine del conflitto la combustione interna del motore a benzina aveva completamente soppiantato l’energia del cavallo-vapore.

Il primo tank fu sperimentato dall’e­sercito inglese nella battaglia della Somme del 1916, ma si rivelò ben più importante a Cambrai, nel ‘17, e decisiva ad Amiens, l’8 agosto del 1918. Mentre i trasporti dell’esercito tedesco avvenivano utilizzando una efficiente rete ferroviaria, gli alleati combattevano motorizzati, e non solo via terra. Per quanto riguarda l’avia­zione furono gli italiani, nella campagna di Libia contro i turchi del 1911-12, a convincere gli strateghi militari dell’epoca delle potenzialità di quello che veniva considerato solo uno sport. Sia dal punto di vista numerico che da quello tecnologico l’e­voluzione dell’industria aeronautica  andò di pari passo con quella della guerra, le cui necessità guidarono il processo di sviluppo del settore. Diversamente andarono le cose sul fronte dell’industria navale, le cui novità non furono così clamorose, ma sicuramente la scelta di Churchill di convertire la flotta all’uso della nafta provocò la necessità di garantire adeguati rifornimenti di petrolio: a questo scopo il governo britannico acquisì un ruolo rilevante nella Anglo persian oil co. Quella che fu giudicata forse la prima impresa multinazionale deve la sua trasformazione in società per azioni alla scoperta in Persia, tra la fine del 1908 e l’inizio del 1909, di una promettente fonte di petrolio; da poco costituita, la Anglo persian oil fu aperta all’azionariato pubblico e nell’ottobre 1912, per assicurarsi una posizione di rilievo sul mercato mondiale, stipulò un accordo commerciale con Asiatic, una società appartenente al gigante Royal dutch shell.

Il 1° settembre 1914, dopo meno di un mese di guerra, Churchill, che pure era stato più che favorevole all’o­perazione Anglo persian, era pessimista sulle possibilità di difendere i giacimenti e la raffineria persiana; bi­sognava guardare altrove. Dopo essere riuscita a respingere le truppe del­l’impero ottomano che avevano attac­cato la raffineria di Abadan, i reparti britannici avanzarono fino a prendere una città vitale per il controllo dell’a­rea: Basra. La guerra durò ancora trop­pi anni, ma nel 1917 le truppe inglesi conquistarono – per la prima volta – Baghdad.

L’Anglo persian oil si avviava nel frattempo a diventare un’impresa “integrale” e a questo fine decise di acquistare una tra le più importanti reti distributive di petrolio della Gran Bretagna: la British petroleum. In realtà, nonostante il nome, si trattava di una società già di proprietà della Deutsche bank che se ne serviva per vendere il petrolio romeno. All’inizio del conflitto il governo inglese l’ave­va requisita ed ora l’Anglo persian se ne impadroniva. La strategia di impresa era allo stesso tempo strategia dichiaratamente politica: c’era bisogno di una impresa fidata per la Corona, dal momento che la Royal dutch shell, vendendo prodotti alla Germania, veniva considerata una possibile minaccia per la nazione.

Poi la guerra finì e, subito dopo la conclusione del conflitto armato, apparve chiaro che la questione energetica si andava intrecciando strettamente con i nuovi assetti geopolitici del mercato mondiale. La Gran Bretagna era sempre più interessata a espandere la propria influenza sulla Mesopotamia, ma la Francia, che pure controllava Damasco, avanzava pretese sulla zona di Mosul. Dal canto suo, un gruppo tedesco egemonizzato dalla Deutsche bank cercava alleati per contrapporsi alla cordata confluita nella Anglo persian, quando entrò in scena un nuovo protagonista trasversale e multinazionale, la Turkish petroleum co. La metà delle azioni di questa società era di proprietà della Turkish national bank fondata dagli  inglesi, mentre l’altra metà era divisa tra la Deutsche bank e la Royal dutch shell; a fare da “ago della bilancia”, con il suo 5%, un milionario armeno, Calouste Gulbekian, che a sua volta era proprietario del 30% della Turkish national bank e dunque del 15% della Turkish petroleum.

In una nota diplomatica poi variamente interpretata, il gran visir aveva promesso che alla Turkish petroleum sarebbe stata conferita la concessione per il petrolio in Mesopotamia, ma quella nota era stata scritta in un giorno decisamente particolare, quello dell’attentato di Serajevo: era il 28 di giugno del 1914.          

[m.d.]

 

 

Guerra di classe

(“tigre di carta”)

Le forze della reazione mondiale preparano effettivamente una terza guerra mondiale. Ma le forze democratiche dei popoli di tutto il mondo devono e possono superare il pericolo di guerra [<=]. È per questa ragione che nei rapporti con gli Usa il problema non è sapere se vi sarà compromesso o rottura, ma se il compromesso sarà raggiunto presto o tardi. “Compro­mes­so” significa raggiungere un accordo attraverso trattative pacifiche; con “presto o tardi” intendiamo alcuni anni, forse dieci anni e più, forse un tempo ancora maggiore.

Un compromesso su tutti i problemi internazionali è impossibile fino a quando gli Usa continueranno a essere dominati dai reazionari. Un compromesso con gli Usa può essere soltanto il risultato di lotte decise ed efficaci condotte da tutte le forze democratiche del mondo contro le forze reazionarie. Il principio che le forze reazionarie osservano nei confronti delle forze democratiche popolari è quello di distruggere risolutamente tutto ciò che possono e di prepararsi a distruggere in un secondo tempo ciò che non possono distruggere adesso. Di fronte a questa situazione, le forze democratiche popolari devono applicare lo stesso principio nei confronti delle forze reazionarie.

Sperare in una soluzione politica, pacifica, in un prossimo futuro, dipende dall’atteggiamento del governo Usa. Nei paesi capitalistici, a meno che in questi non regni il fascismo o non ci si trovi in periodo di guerra, esiste una democrazia borghese [<=]; nei loro rapporti esterni questi paesi non sono oppressi da altre nazioni, ma opprimono altre nazioni. Il còmpito dei partiti proletari nei paesi capitalistici è di educare i lavoratori e accumulare forze attraverso una lunga lot­ta legale, e prepararsi così a rovesciare definitivamente il capitalismo. Là, le forme di organizzazione sono legali e le forme di lotta non sono sanguinose (non si ricorre alla guerra). Non bisogna dare inizio a insurrezioni e guerre finché la borghesia non sarà veramente debole, finché la mag­gioranza del proletariato non sarà decisa a condurre u­n’in­surrezione ar­mata e una guerra. Ogni partito comunista è contro ogni guerra imperialistica condotta dal proprio paese.

Se dipendesse dal partito comunista cinese, noi non combatteremmo neppure un giorno, ma, per sopravvivere, il popolo deve difendersi. Questo, il popolo americano può comprenderlo. L’imperialismo [<=] Usa sta effettivamente preparando una guerra contro l’Urss; l’attuale propaganda, come ogni altra propaganda anticomunista, costituisce una preparazione politica a tale guerra. D’altra parte, questa propaganda è una cortina fumogena sollevata dai reazionari Usa per nascondere le numerose, reali, contraddizioni che si ergono dinnanzi all’im­perialismo Usa, e che oppongono l’im­perialismo Usa agli altri paesi capitalisti e ai paesi dominati. Nel momento attuale, lo slogan americano di una guerra antisovietica significa in realtà oppressione per il popolo americano ed espansione delle forze  Usa di aggressione nel mondo capitalistico.   

Per scatenare una guerra, i reazionari Usa devono in primo luogo attaccare il popolo americano. E lo stanno già facendo: opprimono politicamente ed economicamente i lavoratori e i democratici degli Stati uniti e si preparano a instaurare il fascismo nel paese. Ma fino a quando i reazionari Usa non avranno assoggettato i paesi dominati in Europa, Asia e Africa, un attacco contro l’Urss è fuori questione. Nel Pacifico, gli Usa controllano delle a­ree più ampie di tutte le passate sfere di influenza britanniche messe insieme; controllano da lungo tempo l’A­me­rica centrale e meridionale, e cercano di porre sotto il loro controllo anche l’Impero britannico e l’Europa occidentale. Con vari pretesti, gli Usa adottano provvedimenti militari su vasta scala e installano basi militari in molti paesi. I reazionari americani hanno detto che tali basi militari sono rivolte contro l’Urss; però, i paesi in cui queste basi militari sono installate sono i primi a subire l’aggressione Usa. Non passerà molto tempo perché questi paesi comprendano chi in realtà li opprime. Verrà il giorno in cui i reazionari Usa si troveranno contro i popoli del mondo intero.

L’esistenza dell’Urss rende assolutamente impossibile ai reazionari degli Usa e di tutto il mondo la realizzazione delle loro intenzioni. Ecco perché i reazionari americani nutrono un odio implacabile verso l’Urss e so­gnano realmente di distruggere que­sto “stato socialista”. Coperti dagli slogan anticomunisti, essi stanno freneticamente attaccando  i lavoratori e i democratici del loro paese, e trasformando in dipendenze americane tutte le nazioni che rappresentano il bersaglio dell’e­spansione Usa. La terza guerra mondiale potrà essere scongiurata solo con una vittoria nel­la lotta dei popoli di tutti i paesi minacciati contro i reazionari Usa; altrimenti essa è inevitabile.

La bomba atomica è una “tigre di carta” [<=] di cui i reazionari Usa si servono per spaventare la gente. Sem­bra terribile, ma in realtà non lo è [<=]. Naturalmente, la bomba atomica è un’arma di eccidio di massa, ma l’esito di una guerra è deciso dal popolo, non da una o due armi di tipo nuovo. Tutti i reazionari sono tigri di carta. In apparenza essi sono terribili, ma in realtà non sono poi così potenti. Da un punto di vista lungimirante, non i reazionari ma il popolo è veramente potente.

[m.t-t]

(da Mao Tse-tung, Situazione internazionale e Intervista con A.L.Strong, 1946,

Problemi della guerra, 1952)

 

 

Imperialismo # 1

(radici economiche delle guerre)

Gli interessi economici del paese nel suo insieme sono subordinati a quelli di certi interessi particolari che usurpano il controllo delle risorse naturali e le usano per il loro profitto privato. Questa non è un’accusa né strana né mostruosa: è la malattia più comune di tutte le forme di governo [<=]. Le famose parole di sir Thomas More sono tanto vere ora come quando le scrisse: “ovunque vedo una cospirazione di uomini ricchi che cercano il proprio vantaggio sotto il nome e il pretesto del bene comune”. L’analisi economica ha mostrato che vi è antagonismo solo tra gli interessi delle cricche concorrenti degli uomini d’affari – investitori, imprenditori che lavorano su commesse statali, esportatori di manufatti, e certe classi professionali; essa ha mostrato che queste cricche, usurpando l’autorità e la voce del popolo, usano le risorse pubbliche per far avanzare i loro interessi privati, e spendono il sangue e il denaro del popolo in un vasto e disastroso gioco militare, simulando antagonismi nazionali che non hanno base nella realtà. Sebbene il nuovo imperialismo sia un cattivo affare per il paese, esso è un buon affare per certe classi e certi commerci all’interno della nazione [<=].

Alcuni interessi economici e professionali specifici che prosperano nella spesa imperialistica o sulle conseguenze di tale spesa si contrappongono all’interesse comune, e, convergendo istintivamente verso una stessa mèta, si trovano uniti da una grande comprensione reciproca nel sostenere qualsiasi impresa imperialistica. I grandi produttori di manufatti per l’esportazione guadagnano soddisfacendo i bisogni, veri o artificiali, dei nuovi paesi annessi o verso i quali si è aperta una strada. I debiti pubblici [<=] che maturano nelle economie imperialistiche e nei paesi stranieri che cadono sotto il loro “protettorato” e la loro influenza, sono in grande misura “prestiti” fatti sotto forma di ferrovie, motori, armi da fuoco e altro materiale tecnicamente avanzato. La produzione di ferrovie, canali e altre opere pubbliche, l’insediamento di fabbriche, l’apertura di miniere, il miglioramento dell’agricoltura nei nuovi paesi, stimolano un interesse specifico in importanti industrie e alimentano una salda fede imperialistica nei loro proprietari. Da questo punto di vista le “colonie” sono ancora come le descrisse cinicamente James Mill, “un vasto sistema di soccorso esterno per le classi ricche”.

Ma il fattore economico di gran lunga più importante per spiegare l’imperialismo riguarda gli investimenti. Il crescente cosmopolitismo del capitale [<=] è stato il principale cambiamento economico degli ultimi tempi. Ogni nazione industrialmente avanzata ha puntato a collocare una parte sempre maggiore dei suoi capitali al di fuori della sua area politica, in paesi stranieri, o nelle “colonie”, e a ricavare un reddito crescente da questa fonte. Non è esagerato dire che la politica estera moderna si concretizza soprattutto in una lotta per accaparrarsi profittevoli mercati d’investimento. Un anno dopo l’altro i paesi imperialistici diventano sempre più nazioni che vivono sui tributi dall’estero, e le classi [<=] che ricevono questi tributi hanno un incentivo crescente a utilizzare la politica dello stato, il tesoro pubblico e la forza pubblica, per estendere il campo dei loro investimenti privati e per salvaguardare e migliorare gli investimenti già compiuti. Questo è, forse, il fatto più importante accaduto nella politica moderna; e l’oscurità in cui è avvolto costituisce un grave pericolo.

L’esistenza di un rilevante mercato estero diventa una questione di vitale importanza per l’imperialismo. Queste riflessioni sono  importanti per farci capire che non è giusto misurare la rilevanza del commercio mondiale tramite la sua proporzione con lo scambio interno, e che non è assolutamente necessario che, per il progresso industriale di una nazione, il commercio mondiale debba in ogni circostanza mantenersi al passo col suo mercato interno. Quando una nazione moderna ha raggiunto un alto livello di sviluppo delle proprie attività industriali, una porzione crescente delle sue energie produttive comincerà a venir dirottato verso generi superiori di attività industriali, verso i servizi di trasporto, verso la distribuzione, e verso i servizi professionali, pubblici e privati; queste attività producono merci e servizi meno adatti, nel complesso, al commercio internazionale di quelli più semplici, su cui è concentrato lo sforzo produttivo nei più bassi stadi di civilizzazione. Senonché, se è probabile che gli interessi particolari dell’investitore si scontrino con l’interesse pubblico e portino a una politica rovinosa, ancor più pericolosi, a questo riguardo, sono gli interessi particolari dei finanzieri, cioè di chi compra e vende titoli d’investimento. Un gran numero di piccoli investitori, per ragioni d’affari e per politica, si comportano in larga misura come pedine delle grandi case finanziarie, che usano titoli e azioni non tanto come investimenti per ricavarne un interesse, quanto come strumenti di speculazione [<=] nel mercato monetario.

I magnati della borsa [<=] trovano il loro guadagno nel maneggiare grandi quantità di titoli e azioni, nel lanciare nuove società, nel manipolare le fluttuazioni dei valori dei titoli. Questi grandi interessi finanziari – le operazioni bancarie, quelle di intermediazione, il risconto, il lancio dei prestiti, la promozione di nuove società – formano il nucleo centrale del capitalismo finanziario [<=] internazionale. Uniti dai più forti legàmi organizzativi, sempre nel più stretto contatto l’uno con l’altro e pronti a ogni rapida consultazione. Situati nel cuore della capitale economica di ogni stato, controllati principalmente da uomini di una “razza” particolare – uomini che hanno dietro di sé molti secoli di esperienza finanziaria – questi grandi interessi finanziari sono in una posizione unica per manipolare la politica delle nazioni. Non è possibile utilizzare rapidamente una grande quantità di capitale, se non con il loro consenso [<=] tramite le loro agenzie finanziarie. Qualcuno pensa davvero che uno stato forte potrebbe iniziare una guerra [<=], o che un cospicuo finanziamento statale potrebbe venir sottoscritto, se il grande capitale finanziario e le sue associate vi si opponessero? Qual è dunque il diretto risultato economico dell’imperialismo? Un gran dispendio di denaro pubblico per navi, fucili, equipaggiamento e provviste per l’esercito, che cresce e produce enormi profitti quando ci si trova di fronte a una guerra o a un allarme di guerra; nuovi prestiti pubblici e fluttuazioni significative nelle borse interne e in quelle estere; più posti per militari e per servizi diplomatici e consolari; miglioramento nelle condizioni di investimento all’estero, conquista dei mercati per certi tipi di esportazioni, protezione e assistenza per i commerci in queste attività; occupazione per ingegneri, missionari, cercatori d’oro, allevatori di bestiame e altri emigranti.

L’affermazione della scuola del si pacem vis para bellum, secondo cui solo gli armamenti costituiscono la migliore sicurezza per la pace, è basata sull’assunzione che esiste un vero e duraturo antagonismo di interessi tra i vari popoli che sono chiamati a subire questo mostruoso sacrificio. La follia disastrosa di queste guerre, il danno materiale e morale che ne deriva anche al vincitore, appare così chiaramente allo “spettatore” disinteressato che egli comincia a disperare che uno stato raggiunga l’età della ragione; e tende a considerare questi cataclismi come prodotti dall’esistenza di un irrazionalismo di fondo nella politica. Ma un’attenta analisi delle relazioni esistenti tra gli affari e la politica mostra che l’imperialismo aggressivo non è per niente il prodotto delle cieche passioni delle razze o della follia mista alle ambizioni dei politici. È molto più razionale di quanto non appaia a prima vista. Irrazionale com’è, dal punto di vista dell’intera nazione, è invece perfettamente razionale dal punto di vista di alcune classi interne alla nazione. L’imperialismo [<= #2] aggressivo, che costa così caro al contribuente, che è di così scarso valore per il produttore e per il commerciante, che è causa di così gravi e incalcolabili pericoli per i cittadini, è invece una fonte di grandi guadagni per l’investitore che non riesce a trovare in patria impieghi profittevoli per il suo capitale e insiste che il governo lo aiuti per poter fare investimenti profittevoli e sicuri all’estero.

Gli investitori che hanno collocato il loro denaro in terre straniere, a condizioni che tengano pieno conto dei rischi connessi con la situazione politica del paese in cui investono, desiderano però usare le risorse del proprio governo per minimizzare codesti rischi e aumentare così il valore del capitale e gli interessi sui loro investimenti privati. Le grandi spese per armamenti, le guerre costose, i gravi rischi e le difficoltà della politica estera, i freni imposti alle riforme sociali e politiche interne, benché abbiano portato grave danno alla nazione, sono servite molto bene ai concreti interessi economici di certe attività e professioni. È inutile occuparsi di politica se non si riconosce chiaramente questo fatto centrale e se non si capisce quali siano questi interessi particolari, nemici della salvezza nazionale e del bene pubblico. Dobbiamo abbandonare le analisi puramente sentimentali che spiegano le guerre e gli altri gravi errori nazionali come scoppi di animosità patriottica o come manchevolezze nell’arte di governo [<=]. Senza dubbio, a ogni scoppio di guerra non solo l’uomo della strada, ma anche l’uomo in divisa, è spesso ingannato dall’astuzia con cui motivazioni aggressive e avidi propositi si vestono con abiti difensivi. Infatti, si può affermare con sicurezza che non vi è stata una sola guerra che si ricordi che, per quanto scopertamente aggressiva possa apparire allo storico spassionato, non sia stata presentata alla gente che era chiamata a combattere come una necessaria politica di difesa, in cui erano in ballo l’onore dello stato e forse anche la sua stessa esistenza.

Si può vedere più chiaramente la vera natura politica dell’imperialismo se la si confronta con le parole d’ordine di progresso condivise da uomini moderati di entrambi i grandi “partiti” nazionali, sebbene con interpretazioni che variano di grado: pace, economia, riforme e autogoverno popolare. Nemmeno ora troviamo alcun abbandono formale dei princìpi di governo che questi termini esprimono, e una larga fetta di liberali [<=] dichiarati crede o afferma che l’imperialismo non sia in contraddizione con il mantenimento di tutte queste virtù. Questa affermazione, tuttavia, è smentita dai fatti. I decenni dell’imperialismo sono stati prolifici di guerre, e si sono concluse con la conquista del territorio mediante la forza. Ogni passo dell’espansione è stato accompagnato da spargimento di sangue; ogni potenza imperialista mantiene un esercito sempre più grande pronto per missioni all’estero; rettificazione delle frontiere, spedizioni punitive, e altri eufemismi usati al posto della parola guerra, sono in continuo aumento. La pax imperialistica, che era sempre stata una impudente falsità, è diventata un grottesco mostro di ipocrisia.

[j.h.]

 

 

Imperialismo # 2

(esportazione di capitale e speculazione)

Il fatto dell’esportazione di capitale compare con il capitalismo stesso. Esso è noto fin dagli inizi del capitalismo, ma come qualcosa di non “caratteristico”. Dato lo scarso livello dell’accumulazione, vi era grande libertà di investimento di capitale all’interno, senza essere costretti a esportarlo. Se al capitalismo dell’Eu­ro­pa occorsero 150 anni per svilupparsi dalla forma organizzativa del periodo della manifattura fino alla forma capitalisticamente sviluppata del trust mondiale, così non occorre che le aree “coloniali” di Asia, America e Africa, ripetano questo lungo sviluppo. Esse assumono il capitale nella forma più matura raggiunta nei paesi ad alto sviluppo capitalistico. Il còmpito scientifico consiste nella spiegazione di questo fatto, cioè nel presentare la funzione che spetta a questo fenomeno nel meccanismo capitalistico della produzione.

Hobson stabilisce nel suo libro sull’imperialismo [<= #1] che “il fattore economico di gran lunga più importante per spiegare l’imperialismo riguarda gli investimenti”, che acquistano sempre maggior peso. “L’imperialismo aggressivo, che costa così caro al contribuente, che è di così scarso valore per il produttore e per il commerciante, che è causa di così gravi e incalcolabili pericoli per i cittadini, è invece una fonte di grandi guadagni per l’investitore che non riesce a trovare in patria impieghi profittevoli per il suo capitale e insiste che il governo lo aiuti per poter fare investimenti profittevoli e sicuri all’estero”. Perché non si può dunque trovare in patria un investimento redditizio di capitale? Questa decisiva questione neppure una volta viene affrontata da Hobson; in generale, nel suo libro – che peraltro ci offre la descrizione dei fatti in modo pregevole – Hobson si discosta da ogni problema teorico.

Qual è il fattore decisivo dal punto di vista economico generale? Perché in patria il capitale non può essere investito così vantaggiosamente come all’estero? Alla base di tutta l’esposizione sta il concetto di “satu­ra­zione economica”, di eccedenza del capitale disponibile in rapporto alla possibilità d’impiego. Oltre le constatazioni empiriche non si procede, in particolare non viene mostrato perché mai in queste circostanze la condizione di “saturazione” debba subentrare necessariamente. Si esprime il processo senza darne una spiegazione. Non sono le formazioni casuali delle condizioni di mercato all’interno e all’estero i fattori determinanti dell’esportazione di capitali, bensì la regolarità interna dello sviluppo economico di una dato paese, cioè un determinato grado di questo sviluppo, ulteriormente accelerato dalla guerra [<=] e dall’arricchimento conseguito grazie alla guerra. Ma perché tali circostanze si verificano solo presso certe nazioni [<=], presso paesi spiccatamente esportatori di capitale, mentre altri paesi sono importatori di capitali? Perché si debba giungere a tali eccedenze di capitale, perché queste non possano trovare investimento nell’economia interna del paese, questo non è spiegato.

Anche nella saggistica marxista, sebbene essa proprio negli ultimi anni si sia molto occupata dei problemi dell’esportazione e delle migrazioni di capitali, si cercherebbe invano un chiarimento della funzione vera e propria  che spetta all’esportazione di capitale nel sistema capitalistico. Mai è stata sollevata la questione, e ancor meno è stata data risposta, relativa a quale funzione e ruolo spetti all’esportazione di capitale nel sistema teorico marxiano. Si sono visti i fenomeni, come essi si presentavano in superficie, e se n’è data una descrizione, senza che si sia tentato di inserirli nel sistema marxiano complessivo. Già Ricardo aveva affermato che le migrazioni di capitale, non soltanto all’interno tra le differenti sfere di produzione, ma anche tra i differenti paesi, sono condizionate dal livello del tasso di profitto, in quanto esista la libera concorrenza [<=]; cioè, qualora nessun impedimento giuridico o di fatto si contrapponga al movimento. Se si prendessero le mosse dalla supposizione erronea che ogni somma di capitale, anche grande, possa trovare all’interno illimitata possibilità d’investimento, si dimenticherebbe la verità elementare che, negando la possibilità di sovrabbondanza di capitale, si verrebbe a negare al tempo stesso anche la possibilità della sovraproduzione di merci. Proprio Marx dimostrò l’impossibilità dell’investimento illimitato di capitale in un determinato paese, ed enunciò le condizioni nelle quali avviene la spinta all’esportazione di capitale.

L’investimento di capitale esige plusvalore [<=]. Ma il plusvalore è lavoro. Però il lavoro in ogni paese è costituito da una data grandezza, e da una data popolazione può essere estratta soltanto una determinata grandezza massima di pluslavoro, anche se dotata di una certa elasticità. L’affermazione che il capitale può essere ingrandito senza limiti sottintende che anche il plusvalore è parimenti illimitato, dunque è aumentabile indipendentemente dalla grandezza della popolazione, il che non significa altro che il plusvalore non dipende dal lavoro. Invece, il capitale del paese capitalisticamente sviluppato si appropria di una parte del plusvalore che è stato prodotto nel paese meno sviluppato. Non il tasso di plusvalore più alto, quello dei paesi meno sviluppati, forma la causa dell’esportazione di capitale, ma è la massa di plusvalore conseguita in proporzione al capitale che è più elevata in questi paesi. Come all’interno del capitalismo, pensato come sistema isolato, gli imprenditori, che si sono attrezzati con una tecnica sviluppata oltre la media sociale, vendendo le merci ai prezzi medi sociali conseguono un extraprofitto a spese di quegli imprenditori la cui tecnica è rimasta al di sotto della media sociale, allo stesso modo, sul mercato mondiale, i paesi a elevato sviluppo tecnico conseguiranno extraprofitti a spese di quei paesi la cui composizione organica è inferiore, e il cui sviluppo tecnico ed economico è arretrato.

In questo fatto risiede anche lo stimolo e nello stesso tempo la costrizione all’incessante sviluppo della tecnica, all’attuazione di una sempre più alta composizione organica del capitale nei paesi ad alto sviluppo capitalistico. Ciò significa però che, per questo motivo in questi paesi, parallelamente allo sviluppo della tecnica, all’introduzione di una sempre più elevata composizione organica del capitale sorge, nello stesso tempo, un campo per investimenti di capitale più vantaggiosi. Per quanto alti possano essere i profitti nei paesi coloniali, tuttavia gli extraprofitti dei magnati del capitale, nei settori con più alta composizione organica del capitale, non soltanto non sembrano essere inferiori, ma addirittura appaiono più elevati. Perché dunque il capitale viene esportato? Dal punto di vista della teoria per cui i più alti tassi di profitto spingono il capitale all’emigrazione, tutto questo complesso di fatti non si riesce a spiegare. Se davvero il tasso di profitto più elevato fosse il motivo dell’affluenza del capitale verso le aree poco sviluppate di Asia, America, Africa, ecc., come si spiegherebbe che nei paesi dell’Europa ad alto sviluppo capitalistico e negli Usa – nonostante il basso tasso di profitto – vengano investiti in generale capitali nell’industria? Perché il loro apparato di produzione si estende sempre più? Perché l’intero plusvalore, allora, non viene impiegato nell’esportazione di capitale? D’altro canto, non risulta che la composizione organica del capitale, nei paesi recentemente apertisi alla produzione capitalistica, sia sempre inferiore a quella della “madrepatria” del capitalismo.

Poiché soltanto nella produzione viene creato valore, dunque anche plusvalore, la riduzione del tempo di produzione rappresenta la diminuzione del plusvalore e del profitto. Perciò la politica economica capitalistica tende a cercare sfere d’investimento per il capitale monetario [<=] rimasto inoperoso. Il capitale non impiegato che cerca investimento viene esportato all’estero; l’esportazione di capitale servirebbe in questo caso a trovare nuove disponibilità per questo capitale monetario disoccupato. Senonché, non si deve confondere il capitale monetario che giace nelle banche con il capitale che cerca investimento. Una parte, e a dire il vero una parte in assoluto crescente – scrive Marx – anche se sempre più piccola, relativamente alla grandezza del volume di scambio, del capitale sociale complessivo deve sempre rimanere nella forma di denaro, come capitale monetario, e questo capitale monetario nell’interesse della continuità del processo di riproduzione può persino non essere diminuito. Sebbene, dunque, il capitale monetario, in quanto appartenente alla sfera della circolazione [<=], non crei alcun valore, dunque nemmeno alcun plusvalore, sebbene esso limiti il funzionamento della parte di capitale produttivo, anche se, dunque, risulta improduttivo, sulla base del modo di produzione capitalistico non si può né escludere né diminuire in modo arbitrario, poiché adempie tuttavia funzioni necessarie e “poiché il processo di riproduzione stesso comprende funzioni improduttive” [Marx].

Subentra qui dunque il momento che Marx ha presente quando dice “che viene accumulato più capitale di quel che si può investire nella produzione. Donde il prestito all’estero”. Invece di accumulare il plusvalore, cioè di accrescere il capitale, questo viene reso disponibile per l’esportazione. Da questo momento in poi l’accumulazione, cioè la ritrasformazione di una parte del profitto in capitale addizionale, trova ostacoli, e questo può accadere “perché questa sfera è satura di capitale. Questa pletora di capitale monetario da prestito attesta semplicemente i limiti della produzione capitalistica, ostacolo dovuto alle leggi della sua valorizzazione”. Certamente è un limite capitalistico, “che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio”, cioè dall’esportazione di capitale e dal plusvalore addizionale che viene conseguito in questo modo. Così l’esportazione di capitale – in connessione con la quale sta anche la funzione necessaria della speculazione [<=] nel capitalismo –  non è più un fenomeno occasionale, ma per tutti i paesi di avanzato sviluppo capitalistico è divenuta un fenomeno tipico e necessario: è divenuta un mezzo per attenuare la tendenza al “crollo”, per prolungare l’esistenza del capitalismo.

Il capitale privo d’investimento si procura così una serie di canali di deflusso, sia all’interno con la speculazione in borsa, sia all’estero con l’esportazione di capitale. Marx ha mostrato come, dietro l’apparenza dei movimenti di denaro, si debbano osservare gli avvenimenti reali dal lato delle merci. Un buon corrispondente borghese di un giornale commerciale dice: “i presupposti più importanti per un’esportazione di capitale rimangono sempre i processi economici mercantili che stanno dietro il movimento di denaro”. Non il capitale monetario, ma il capitale-merce è emerso dal ciclo del capitale industriale, il che non significa nient’altro se non l’esistenza di una sovraproduzione di capitale-merce che è invendibile e non può perciò ritrovare la via verso la sfera della produzione.

[h.g.]

 

 

Imperialismo # 3

(prestiti, materie prime)

Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza [<=], era caratteristica l’espor­tazione di merci [<=]; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale [<=]. Il capitalismo è la produzione mercantile al suo massimo grado di sviluppo, quando anche la forza-lavoro [<=] è diventata una merce. Segno caratteristico del capitalismo è l’aumento del­lo scambio delle merci così all’inter­no del paese come, specialmente, sul mercato internazionale. Nel capitalismo sono inevitabili la di­suguaglianza e la discontinuità nello sviluppo di singole imprese, di singoli rami industriali, di singoli paesi.

Prima di tutti divenne paese capitalistico l’Inghil­terra; e questa, intorno alla metà del secolo XIX, allorché introdusse il libero commercio, pretendeva di esercitare la funzione di “opificio di tutto il mondo”, di rifornitrice di manufatti a tutti i paesi, che in cambio dovevano fornirle materie prime. Ma questo monopolio [<=] dell’In­ghilterra era già profondamente vulnerato nell’ultimo quarto del secolo XIX, poiché una serie di paesi, garantitisi con dazi “protettivi”, si svilupparono come paesi capitalistici indipendenti.

Sul limitare del secolo XIX troviamo la formazione di nuovi tipi di mo­nopolio; in primo luogo i sindacati monopolistici dei capitalisti in tutti i paesi a capitalismo progredito, in secondo luogo la posizione monopolistica dei paesi più ricchi, nei quali l’accumulazione del capitale ha raggiunto dimensioni gigantesche. Si determinò nei paesi più progrediti un’enorme “eccedenza di capitale”.

Finché il capitalismo resta tale, l’ec­cedenza dei capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse del rispettivo paese, perché ciò comporterebbe diminuzione dei profitti dei capitalisti, ma a elevare tali profitti mediante l’esportazione all’e­stero, nei paesi meno progrediti. In questi ultimi il profitto ordinariamen­te è assai alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno vi è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo.

La possibilità dell’esportazione di capitali [<=] è assicurata dal fatto che una serie di paesi arretrati è già attratta nell’orbita del capitalismo mondiale, che in essi sono state già aperte le principali linee ferroviarie, o ne è almeno iniziata la costruzione, sono assicurate le condizioni elementari per lo sviluppo dell’industria, ecc. La necessità dell’esportazione del capitale è creata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato “più che maturo” e al capitale non rimane più campo per un investimento “reddi­tizio”. L’esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo. Pertanto tale e­sportazione non può non dare origine a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo. I paesi esportatori di capitale hanno quasi sempre la possibilità di godere certi “vantaggi”, la cui natura pone in chiara luce gli specifici caratteri del­l’epoca del capitale finanziario [<=] e dei monopoli. La cosa più frequente nella concessione di crediti è quella di mettere come condizione che una parte del denaro prestato debba venire impiegato nell’acquisto di prodotti del paese che concede il prestito, specialmente di materiale da guerra, navi, ecc.

La Francia, concedendo prestiti alla Russia, la “strozzò” col trattato commerciale del 16 dicembre 1905, costringendola a certe concessioni sino al 1917; e lo stesso avvenne nel trattato di commercio concluso col Giappone il 19 agosto 1911. In un rapporto del console austro-ungarico di San Paolo (Brasile) è det­to: “la costruzione delle ferrovie brasiliane si compie principalmente con capitali francesi, belgi, britannici e tedeschi; questi paesi, nel finanziare le ferrovie, pongono come condizione la fornitura di materiale ferroviario”.

In tal guisa il capitale finanziario stende letteralmente, si può dire, i suoi tentacoli in tutti i paesi del mondo. A tale riguardo rappresentano una parte importantissima le banche [<=] fondate nelle colonie e le loro filiali. Le leghe monopolistiche dei grandi imprenditori sono specialmente solide allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc. Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti delle materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie.

Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani esser messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali. Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o quella materia prima, ecc.

Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale. Nello stesso modo che i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola due o tre volte al disopra del vero, giacché fanno assegnamento sui profitti “possibili” (ma non reali) del futuro e sugli ulteriori risultati del monopolio, così il capitale finanziario, in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, con la paura di rimanere indietro nel­la lotta furiosa per l’ultimo lembo della sfera terrestre non ancora diviso, per una nuova spartizione dei territori già divisi.                  

[v.l]

 (da L’imperialismo, fase suprema del capitalismo)

 

 

Imperialismo Usa

(guerra e rivoluzione industriale)                         

Ciò che è vero della Gran Bretagna, lo è anche per la Francia, la Ger­mania, gli Stati Uniti e tutti i paesi in cui il capitalismo moderno ha messo grandi risparmi eccedenti nelle mani di una plutocrazia o di una borghesia risparmiatrice. D’altra parte que­sto mezzo finanziario non è solo conveniente nei casi di nazioni straniere, nei cui riguardi esso rappresenta uno strumento importante o un pretesto per com­mettere abusi; per le classi finanziarie l’esistenza di un grosso debito nazionale rappresenta un notevole vantaggio. Mettere in circolazione e trattare questi pre­stiti pubblici è un grosso affare e un mezzo per esercitare importanti pressioni politiche nei momenti cruciali. Dove il capitale tende continuamente ad essere eccessivo, ulteriori debiti servono co­me mezzo di drenaggio finanziario. Ma, a parte ciò, ogni aumento della spesa pubblica [<=], ogni oscillazio­ne del credito pubblico, ogni impresa rischiosa, in cui risorse nazionali possano diventare la garanzia di speculazioni private, è vantaggiosa per chi presta grandi quantità di denaro e per lo speculatore.

Sebbene l’imperialismo [<=] sia un cat­tivo affare per il paese, esso è un buon affare per certe classi e certi commerci all’interno della nazione [<=]. Le grandi spese per armamenti, le guerre costose, i gravi rischi e le difficoltà della politica estera, i freni imposti alle riforme sociali e politiche interne, benché abbiano portato grave danno alla nazione, sono servite molto bene ai concreti interessi economici di certe attività e professioni. È inutile occuparsi di politica se non si riconosce chiaramente questo fatto centrale e se non si capisce quali siano questi interessi particolari, nemici della salvezza nazionale e del bene pubblico. Dobbiamo abbandonare le analisi puramente sentimentali che spiegano le guerre e gli altri gravi errori nazionali come scoppi di animosità patriottica o come manchevo­lezze nell’arte del governo. Senza dubbio a ogni scoppio di guerra non solo l’uomo della strada, ma anche l’uomo in divisa, è spesso ingannato dall’astuzia con cui motivazioni aggressive e avidi propositi si vestono con abiti difensivi. Infatti si può affermare con sicurezza che non c’è stata una sola guerra che si ricordi che, per quanto scopertamente aggressiva possa apparire allo storico spassionato, non sia stata presentata alla gente che era chiamata a combat­tere come una necessaria politica di difesa, in cui erano in ballo l’onore dello stato [<=] e forse anche la sua stessa esistenza.

La follia disastrosa di queste guerre, il danno materiale e morale che ne deriva anche al vincitore, appare così chiaramente allo spettatore disinteres­sato che egli comincia a disperare che uno stato raggiunga l’età della ragione, e tende a considerare questi cataclismi come prodotti dell’esistenza e di un irrazionalismo di fondo della politica. Ma un’attenta analisi delle relazioni esistenti tra gli affari e la politica mostra che l’im­perialismo aggressivo non è per niente il prodotto di cieche passioni delle razze o della follia mista alle ambizioni dei politici. È molto più razionale di quanto non appaia a prima vista. Irrazionale com’è dal punto di vista del­l’intera nazione, esso è invece perfettamente razionale dal punto di vista di alcune classi interne alla nazione. Qualcuno pensa davvero che uno stato europeo potrebbe iniziare una guerra, o che un cospicuo finanziamento statale potrebbe venir sottoscritto se la casa Rotschild e le sue associate vi si opponessero? Il recen­te imperialismo sia della Gran Bretagna che degli Stati uniti d’America è stato materialmente aiutato dai generosi contributi di uomini come Rockefeller, Hanna, Rhodes, Beit, alle finanze dei partiti per l’ele­zione di rap­presentanti “imperialisti” e per l’edu­cazione politica del popolo.

La politica di questi uomini, è vero, non porta necessariamente alla guerra [<=]; quando la guerra porterebbe un danno troppo grande e duraturo al­la struttura in­dustriale, che rappresenta il fondamento ultimo ed essenziale di ogni attività speculativa, essi usano la loro influenza in favore della pace (come è successo nella pericolosa controversia tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti riguardo al Venezuela). Così l’imperialismo con le sue guerre e i suoi armamenti è senza dubbio respon­sabile per i debiti crescenti delle nazioni continentali; e mentre la prosperità in­dustriale senza pari della Gran Bretagna e l’isolamento degli Stati Uniti hanno permesso a queste due nazioni negli ultimi decenni di sfuggire a questa rovinosa gara all’in­debitamento, il periodo della loro im­munità è finito; entrambe, impe­gnate come sembrano in un imperialismo senza limiti, soccomberanno sempre di più alle loro classi che prestano denaro vestite da imperialiste e da pa­triote.

Gli effetti concreti dell’argomen­tazione economica sulla politica sono illustrati in modo sorprendente dalla storia recente degli Stati Uniti. Questo paese ha rotto improvvisamente con la sua politica conservatrice, che era stata sostenuta da entrambi i suoi partiti politici ed era legata alle tendenze istintive e tradizionali della po­polazione americana; esso si è gettato in una rapida carriera imperialistica, per la quale non possedeva l’equi­pag­giamento né materiale né morale, met­tendo a repentaglio i princìpi e la pra­tica della libertà e dell’u­guaglian­za per instaurare una politica militarista e per soggiogare con la forza popoli che non ha poi potuto far partecipare alle condizioni proprie della cittadinanza Usa. Questo fatto di voler far volare l’aquila americana è stato un puro capriccio, uno scoppio di ambizione politica da parte di una nazione arrivata a un’im­provvisa rea­lizza­zione del suo destino? Niente af­fatto. Lo spirito d’avventura, la “missio­ne di civiltà” americana, come for­ze pro­pulsive dell’imperialismo, sono stati chiaramente subordinati alla forza determinante del fattore economico.

Il carat­tere drammatico del cambiamento di rotta è causato appunto dalla rapidità senza precedenti con cui si è sviluppata la rivoluzione industriale negli Stati Uniti a partire dagli anni 1880. Durante quel periodo gli Stati Uniti, con le loro ricchezze naturali senza pari, le loro immense risorse di lavoro specializzato e generico, e il loro genio per l’inven­zione e l’organizzazione, svilupparono l’economia indu­striale meglio attrezzata e più produttiva che si sia mai vista al mondo. Favorite da rigide tariffe protettive, le loro industrie metallurgiche, tessili, meccaniche, di confezioni, di mobili e così via sbocciarono nel corso di un’unica generazio­ne dall’infanzia alla piena maturità e, dopo essere passate per un periodo di in­tensa concorrenza, conseguirono, sotto la direzione di abili imprenditori fonda­tori di grandi cartelli industriali, una capacità produttiva maggiore di quella che fosse mai stata raggiunta nei paesi industriali più avanzati d’Europa.

Un periodo di concorrenza [<=] sfrenata, seguito da un rapido processo di fusioni, gettò un’enorme quantità di ricchezza nelle mani di un piccolo numero di capi­tani d’industria. Ma, per quanto lussuosa fosse la loro vita, ciò non poteva esse­re sufficiente a controbilanciare l’aumento del loro reddito; si verificò così un processo di automatico aumento dei risparmi in una misura che non ha prece­denti. D’altra parte gli investimenti di questi risparmi in altre industrie aiutò a portare anche queste sotto le stesse forze di concentrazione. Così un grande au­mento dei risparmi in cerca di investimenti redditizi si manifesta in conformità con un’economia più rigorosa nell’uso dei capitali esistenti. Non c’è dubbio che la rapida crescita di una popolazione, abituata a un alto e crescente livello di comodità, assorbe nella soddisfazione dei suoi bisogni una grande quantità di nuovo capitale; ma l’attuale saggio di risparmio, unito a un uso più economico del capitale esistente, ha superato considerevolmente l’aumento del con­sumo nazionale di manufatti. La capacità produttiva è cresciuta quindi di gran lunga più del consumo attuale e, contrariamente a quanto sosteneva la vecchia teoria economica, ciò non è stato in grado di promuovere un aumento corrispondente dei consumi [<=] tramite la diminuzione dei prezzi [<=].

Questa non è mera teoria. La storia di ciascuno dei numerosi cartelli o unioni industriali degli Stati Uniti dimostra i fatti in modo preciso e completo. Nella fase di libera concorrenza delle manifatture che precede la fase degli accordi tra diversi produttori, esiste una condizione cronica di “sovrapproduzione [<=]; nel sen­so che tutte le fabbriche e gli opifici possono continuare a lavorare soltanto tra­mite una continua riduzione dei prezzi, fino al punto in cui i concorrenti più de­boli sono costretti a chiudere perché non possono vendere i loro prodotti a un prezzo che copre solo il costo di produzione. Il primo risultato del successo del­la formazione di un cartello o di un’unione industriale è quello di chiudere le fabbriche peggio attrezzate e peggio situate e di rifornire l’intero mercato con quelle migliori. Questo fatto può essere seguito da un aumento dei prezzi e da qualche restrizione nei consumi, ma può anche non esserlo; infatti in alcuni casi i cartelli ottengono la maggior parte dei loro profitti alzando i prezzi, in altri ca­si invece tramite la riduzione dei costi di produzione, il che si ottiene appunto facendo operare solo le fabbriche migliori e mettendo fine allo spreco causato dalla concorrenza.

In effetti, la presenza contemporanea di concorrenza spietata da un lato, e di concentrazione [<=] industriale dall’altro, è prova tangibile del grado di congestione di capitale esistente nelle industrie manifatturiere che sono entrate nell’econo­mia delle macchine. Non ci riferiamo qui ad alcuna questione teorica relativa al­la possibilità di produrre con i metodi delle macchine moderne più merci di quante possano trovare un mercato. Ai nostri fini è sufficiente notare che la ca­pacità produttiva di un paese come gli Stati Uniti può crescere così in fretta da eccedere la domanda del suo mercato interno. Chiunque abbia dimestichezza con queste cose non potrà negare un fatto che tutti gli economisti americani ri­conoscono; cioè che questa condizione è appunto stata raggiunta dagli Stati Uniti alla fine del XIX secolo, almeno per quanto riguarda le industrie più sviluppa­te. Le sue attività manifatturiere erano sature di capitali e non ne potevano as­sorbire più. Una dopo l’altra esse cercarono rifugio dallo spreco della concor­renza in “unioni” che assicuravano un po’ di pace vantaggiosa per tutti, restrin­gendo la quantità del capitale in attività.

I magnati industriali e finanziari del pe­trolio, dell’acciaio, dello zucchero, delle ferrovie, delle banche ecc. si sono tro­vati di fronte al dilemma di dover spendere di più di quanto sapessero spendere utilmente, oppure di dover forzare i mercati esterni all’area del paese. Due corsi economici erano infatti aperti di fronte a loro, ed entrambi conducevano verso un abbandono dell’isola­mento politico del passato e verso l’adozione di metodi imperialisti per il futuro. In primo luogo, invece di chiudere le officine peggiori e di limitare rigidamente la produzione alla quantità vendibile a prezzi conve­nienti sul mercato nazionale, essi si sono trovati in condizione di utilizzare a pieno la loro capacità produttiva (e anche di allargarla reinvestendo i loro ri­sparmi) se, pur regolando il prodotto e i prezzi per il mercato interno, decideva­no di “forzare” i mercati esteri; vendendo così il loro plusprodotto a prezzi più bassi di quelli che sarebbero stati possibili se non ci fosse stato alle spalle un mercato interno assai profittevole. In secondo luogo hanno potuto im­piegare i loro risparmi in investimenti fuori del loro paese, ripagando innanzitut­to il capitale preso a prestito dalla Gran Bretagna e da altre nazioni per lo svi­luppo iniziale delle loro ferrovie, miniere e manifatture; e in seguito diventando essi stessi una classe creditrice nei confronti di paesi stranieri.

Fu chiaramente questa improvvisa domanda di mercati esteri per le merci e per gli investimenti la responsabile dell’adozione dell’imperialismo come politica e come pratica da parte del partito repubblicano, al quale appartenevano appunto i grandi capitani d’industria e i grandi finanzieri e che era da essi controllato. L’en­tusiasmo avventuroso del presidente Theodore Roosevelt e il suo “partito del destino” e della “missione civilizzatrice” non ci devono ingannare. Furono i Rockefeller, i Pierpont Morgan e i loro associati che ebbero bisogno del­l’impe­rialismo e che lo imposero saldamente sulle spalle di questa grande repubblica occidentale. Essi avevano bisogno dell’imperiali­smo perché vo­levano usare le risorse nazionali del loro paese per trovare un utilizzo con­veniente per il loro capitale che altrimenti sarebbe risultato superfluo. Perfino la Gran Bretagna era passata a difendersi e si dava al prte­zioni­smo. I grandi produttori e finanzieri americani dovevano così guardare al­la Cina, al Pacifico e al sud America per cercare occasioni più profittevoli. La spesa pubblica necessaria per intraprendere un’espansione imperialistica di questo tipo rappresentava un’im­mensa occasione di profitto per questi uomini sostenuti dai sussidi del governo, come finanzieri negoziatori di prestiti, come fornitori e produttori di armi e di altri strumenti dell’imperiali­smo. La rapidità di questa rivoluzione politica è dovuta alla rapidità con cui questo bisogno si è manifestato.

L’imperialismo americano è stato così il prodotto naturale di una pressione eco­nomica causata da un rapido balzo avanti del capitalismo Usa che non poteva più  trovare in patria un impiego adeguato per i propri prodot­ti e per i propri in­vestimenti e perciò aveva bisogno di mercati esteri. Questi stessi bisogni esistevano anche nei paesi europei e, come è noto, portaro­no i governi lungo lo stesso cammino. La sovrapproduzione, vale a dire l’esi­stenza di impianti manifatturieri eccessivi da un lato, e il sovrappiù di capitale che non poteva trovare un investimento profittevole al­l’interno del paese dall’al­tro, forzarono la Gran Bretagna, la Germania, l’Olan­da, la Francia a collocare porzioni sempre più grandi delle loro risorse economiche al di fuori dell’area del loro attuale dominio politico e perciò spinsero a intraprendere una politica di espansione per conquistare nuove aree. Le origini economiche di questo feno­meno sono messe a nudo da periodiche depressioni commerciali, causate dal fatto che i produttori non trovano mercati adatti e profittevoli per collocare la loro merce.

La relazione di maggioranza della Commissione sulla depressione del 1885 po­neva la questione in poche parole: “che, data la natura della nostra epoca, la domanda per i nostri prodotti non cresce allo stesso tasso di prima; che la nostra capacità produttiva è di conseguenza in eccesso rispetto a ciò di cui avremmo bisogno e potrebbe anche essere considerevolmente aumentata in breve tempo; che ciò è dovuto in parte alla concorrenza dei capitali che senza interruzione vengono accumulati nel nostro paese”. La relazione di minoranza d’altro canto più direttamente imputava la causa della depressione alla “sovrapproduzione”. Inoltre la Germania agli inizi del novecento soffriva fortemente di ciò che si chiama una saturazione di capitale e di capacità produttiva: essa aveva bisogno di nuovi mercati. I suoi consoli in tutto il mondo “spingevano” a commerciare; venivano imposti con la forza accordi commerciali nell’Asia minore; infine nell’Africa orientale e occiden­tale, in Cina e altrove l’impero tedesco fu co­stretto a una politica di colonizzazione e di protettorati come sfo­go per la sua potenza commerciale.

Una volta circondata la Cina con una rete di strade ferrate e di navi a vapore, la di­mensione del mercato del lavoro [<=] che si può estrarre è così formidabile da poter ben assorbire nel suo sviluppo tutto il capitale e tutta l’energia imprenditoriale in più che i paesi europei avanzati e gli Stati Uni­ti possono fornire per genera­zioni. Un tale esperimento potrebbe rivoluzionare i metodi dell’imperialismo. La pressione del movimento della classe operaia occidentale in politica e nell’attività produttiva potrebbe essere contenuta da un flusso di beni prove­nienti dalla Cina (in modo da tenere bassi i salari e da costringerla ad un lavoro incessante); oppure, dove il potere dell’oligarchia imperialista è ben saldo, da minacce di impor­tare lavoratori gialli o di usare truppe mercenarie gialle, men­tre la collaborazione in questa grande impresa o­rientale potrebbe comportare un’inte­sa tra i gruppi dei politici e degli uomini d’affari negli stati occidentali abbastanza stretta e forte da assicurare la pace internazionale in Europa e un qualche allentamento del militarismo. Ogni miglioramento dei metodi di produzione, ogni concentrazione di proprietà e di controllo, sembra accentuare questa tendenza.

Via via che una nazione do­po l’altra entra nell’economia delle macchine e adotta metodi industriali avan­zati diventa più difficile per i suoi produttori, mercanti e finanzieri disporre con profitto delle loro risorse economiche; essi sono sempre più tentati di utilizzare i loro governi in modo da assicurare al loro uso particolare, per mezzo di annes­sioni e di protettorati, qualche lontano paese arretrato. Si potrebbe obiettare a questo punto che il processo è inevitabile, e così sembra infatti ad uno sguardo superficiale. Ovunque appaiono eccessiva capacità di produzione ed eccessivi capitali in cerca di investimento. È am­messo da tutti gli uomini d’affari che la crescita della capacità produttiva nei loro paesi eccede l’aumento dei consumi, che si possono produrre più beni di quanti possono esse­re venduti ad un prezzo profittevole, che esiste più capitale di quanto può trova­re un investimento remunerativo. L’interfe­renza con la libertà intellettuale è raramente diretta, raramente persona­le, sebbene tanto negli Stati Uniti che nel Canada si siano avuti casi della più volgare “caccia alle streghe”. L’ossequio al rango e al denaro è stato messo cosi a nudo, e la necessità di nuovi aiuti finanziari appare necessariamente così grande che il pericolo che abbiamo indicato cresce sempre.                        

[j.h.]

 

 

Imposte indirette

(finanza imperialistica, spesa pubblica)                         

È inutile attaccare l’imperialismo [<=] o il militarismo nella loro manifestazione politica se non si punta l’a­scia alla radice economica dell’albero e se le classi che hanno interesse al­l’imperialismo non vengono private dei redditi eccedenti che cercano questo sfogo. Abbiamo spiegato quali sono le forze dominanti dell’in­teresse di classe [<=] che stimolano e sostengono questa falsa politica economica. E non vi è certo nessuna garanzia che queste forze non continuino ad operare in questo modo anche nel futuro.

Non si può certo negare che una spesa pubblica continuamente crescente, a parte ogni giustificazione politica, sia una fonte diretta di guadagno per certi interessi ben organizzati e potenti; e che per essi la politica imperialistica rappresenti lo strumento principale per ottenere questo aumento di spesa. Ma il più chiaro significato della finanza imperialistica, tuttavia, appare non dal lato della spesa, ma da quello della tassazione. Far passare l’incidenza diretta della tassazione dalle loro spalle a quelle di altre classi o della posterità è per loro una naturale politica di autodifesa. I­noltre, mentre chi dirige questa politica decisamente parassitaria sono dei capitalisti, essa può tuttavia far presa su gruppi specifici di lavoratori.

D’altra parte, se le forze capitalistico-imperialistiche volessero scaricare apertamente il peso della tassazione sulle spalle del popolo, con un sistema di governo a suffragio popolare risulterebbe assai difficile varare una politica così dispendiosa. La gente de­ve pagare, ma non deve sapere che sta pagando o quanto sta pagando; e il pagamento deve essere diluito su un periodo quanto più lungo possibile. È raro che un governo, anche nel mezzo di gravi fatti d’emer­genza, sia in grado di imporre un’imposta sui redditi; d’altra parte anche le imposte sulla proprietà sono generalmente e­vase quando riguardano la proprietà mobiliare; e sono sempre impopolari.

Sarebbe effettivamente impossibile finanziare la politica imperialistica con una tassazione diretta dei redditi o delle proprietà. Se ogni cittadino fosse messo in grado di rendersi direttamente conto del costo del militarismo e della guerra [<=] pagando in denaro contante, militarismo e guerra non potrebbero esistere in tutti i luoghi in cui è presente una forma qualsiasi di controllo popolare. Perciò l’im­perialismo tende ovunque ad incrementare la tassazione indiretta: non tanto per ragioni di convenienza, quanto per nascondere le cose. O forse sarebbe più giusto dire che l’impe­rialismo si avvantaggia della preferenza codarda e stupida che hanno gli uomini della strada di farsi ingannare con i contributi al fondo pubblico; esso usa questa comune follia per il proprio vantaggio.

La radice economica dell’imperiali­smo è il desiderio di forti interessi organizzati della finanza e del­l’indu­stria di assicurarsi e di sviluppare a spese della nazione e con la forza dello stato nuovi mercati per le loro merci e i loro capitali eccedenti. La guerra, il militarismo e un’“ardente politica estera” sono i mezzi necessari a questo scopo. Questa politica implica un largo aumento della spesa pubblica. Se gli imperialisti dovessero attingere il denaro necessario dalle loro tasche con le imposte sui redditi e sulla proprietà il gioco non varrebbe la candela. Essi devono trovare il modo di far ricadere le spese sul grande pubblico.

La tassazione deve essere indiretta e deve cadere su quegli articoli di consumo o di uso generale che fanno parte del livello comune di vita e la cui domanda, se vengono tassati, non diminuisce o non si sposta verso sostituti. Questa protezione non serve solo gli scopi della “finanza imperiale”, che tassa il consumatore ignorante e impotente per procurare lauti gua­dagni a influenti interessi economici: a quanto sembra essa fornisce a questi, come produttori, anche un secondo vantaggio perché protegge il loro mercato interno che è minacciato dalla concorrenza estera e perché gli per­mette di aumentare i prezzi nei confronti dei consumatori del loro paese; cosa che gli dà la possibilità di ottenere più alti profitti.

Per coloro i quali pensano che il commercio estero in condizioni normali sia uno scambio leale di merci e di servizi, può sembrare difficile spie­gare come questi interessi economici si propongano da un lato di escludere le merci estere dai loro mercati, mentre allo stesso tempo cercano di spingere le loro merci sui mercati esteri. Ma dobbiamo ricordare a questi economisti che qui il primo motore non è il commercio, ma l’inve­stimento: si ritiene infatti che un’eccedenza di esportazioni rispetto alle importazioni sia il modo più conveniente per favorire gli investimenti all’estero; e quan­do una nazione (o più precisamente le sue classi investitrici) ha deciso di diventare un paese creditore o parassita senza alcun limite, non c’è ragione perché le sue esportazioni e le sue importazioni debbano essere in pareggio perfino in un lungo periodo di anni. Tutta la lotta del cosiddetto imperialismo sul fronte economico è una lotta per un crescente parassitismo.

In ogni momento esiste un limite definito alla quantità di spesa corrente che può essere finanziata tassando i consumatori; mentre invece la politica dell’imperialismo per essere efficace richiede a volte la spesa di grosse somme impreviste per la guerra e per gli equipaggiamenti militari. Que­ste spese non possono essere coperte dalla tassazione corrente; debbono es­sere trattate come spese in conto capitale, il cui pagamento può essere dif­ferito indefinitamente, oppure coperto da un fondo di ammortamento che si forma lentamente e che rimane in sospeso per lungo tempo.

La creazione del debito pubblico è una caratteristica usuale e significativa dell’imperialismo e serve a un dop­pio scopo: da un lato fornisce una alternativa per sfuggire alla tassazione sui redditi e sulla proprietà che altrimenti sarebbe inevitabile, dall’altro crea una forma utilissima di investimento molto vantaggioso per risparmi inutilizzati. Così la creazione di un debito pubblico grande e crescente non è solo la conseguenza necessaria di una spesa imperialistica troppo gran­de per le entrate correnti, o di una qualche improvvisa estorsione forzata per un’in­dennità di guerra o altra penalità pubblica; è anche un obiettivo diretto della finanza imperialistica, così come l’obiettivo dell’usuraio è di spingere il cliente in mezzo a difficoltà finanziarie in modo che esso debba continuare a ricorrere a lui.

Un’analisi degli investimenti esteri dimostra che i debiti pubblici o garantiti dallo stato sono in larga misura nelle mani di investitori e finanzieri di altre nazioni, e la storia mostra qua­le sia il peso che hanno sulla politica i proprietari di titoli pubblici, o i potenziali proprietari di essi. D’altra par­te questo mezzo finanziario non è solo conveniente nei casi di nazioni stra­niere, nei cui riguardi esso rappresenta uno strumento importante o un pretesto per commettere abusi; per le classi finanziarie l’esistenza di un grosso de­bito nazionale rappresenta un notevole vantaggio. Mettere in circolazione e trattare questi prestiti pubblici è un grosso affare e un mezzo per esercitare importanti pressioni politiche nei momenti cruciali. Infine, dove il capitale tende continuamente ad essere eccessivo, ulteriori debiti servono come mezzo di drenaggio finanziario.

Così l’imperialismo con le sue guerre e i suoi armamenti è senza dubbio responsabile per i debiti crescenti delle nazioni continentali; e mentre la prosperità industriale della Gran Bretagna e degli Stati Uniti hanno permesso a queste due nazioni negli ultimi decenni di sfuggire a questa rovinosa gara all’indebitamento, il periodo della loro immunità è finito; entrambe, impegnate come sembrano in un imperialismo senza limiti, soccomberanno sempre di più alle loro classi che prestano denaro vestite da imperialiste e da patriote .

Le più importanti riforme sociali, come il miglioramento del sistema dell’istruzione pubblica, un ampio in­tervento nelle questioni del suolo e della casa in città e in campagna, le pensioni di vecchiaia, la legislazione per migliorare le condizioni dei lavoratori – comportano considerevoli spe­se di denaro pubblico ottenuto con la tassazione imposta dalle autorità centrali e locali. Ora, con le spese militari sempre crescenti, l’impe­rialismo chiaramente prosciuga i fondi del denaro pubblico che potrebbe essere impiegato per questi scopi. Gli interessi costituiti che noi consideriamo come i principali promotori della politica imperialistica, mirano a un dop­pio scopo, perché cercano di ottenere un loro guadagno privato commerciale e finanziario a costo di spese e pericoli per la comunità; e al tempo stesso perché proteggono la loro supremazia economica e politica in patria dai movimenti per le riforme sociali.

Il proprietario di aree edificabili, il proprietario terriero, il banchiere, l’u­suraio; e poi il finanziere, il fabbricante di birra, il proprietario di miniere, il padrone della ferriera, il costruttore di navi; e poi gli esportatori, i produttori per l’esportazione e i mercanti, il clero della chiesa di stato, le università e le grandi scuole private, i sindacati legali e i funzionari pubblici si sono uniti, tanto in Gran Bretagna che sul continente, per organizzare una comune resistenza politica contro attacchi al potere, alla proprietà e ai privilegi che essi rappresentano in varie forme e gradi. Dopo che dietro la pressione delle masse è stata concessa la forma del potere politico, ossia le istituzioni elettive e un largo diritto di voto, essi stanno lottando per impedire alle masse di ottenere la sostanza di questo potere e di usarlo per stabilire una uguaglianza nelle condizioni economiche.

È, invero, una nemesi dell’imperia­lismo che le arti e i mestieri della tirannia, acquisite e esercitate nel nostro impero illiberale, siano rivolte contro le nostre libertà in patria. Coloro che sono stati colti di sorpresa dalla totale noncuranza o dall’aperto disprezzo mostrato dall’aristocrazia e dalla plutocrazia di questo paese per l’infrazione delle libertà del cittadino e per l’abrogazione dei diritti e delle usanze costituzionali non hanno considerato a sufficienza il costante riflusso del veleno dell’autocrazia irresponsabile dal nostro impero “illiberale, intollerante e aggressivo “.

Gli effetti politici, reali e necessari, del nuovo imperialismo, così come si mostrano nel caso della più grande potenza imperialista, possono essere riassunti in questo modo. Esso è una minaccia costante alla pace, fornisce continue tentazioni di ulteriori aggressioni su terre occupate da “razze inferiori” e fomenta la discordia tra la nostra nazione e le altre nazioni con ambizioni imperialistiche rivali; all’a­cuto pericolo di guerra aggiunge il pericolo cronico e la degradazione del militarismo, che non guasta solo le concrete risorse fisiche e morali delle nazioni, ma blocca il corso stesso della civiltà. Consuma in modo il­limitato e incalcolabile le risorse finanziarie di una nazione con i preparativi militari, bloccando la spesa delle entrate correnti dello stato per progetti pubblici produttivi e gravando la posterità con pesanti carichi di debito.

L’imperialismo sta solo cominciando a mettere in pratica tutte le sue risorse e a fare del governo delle nazioni un’arte raffinata: la larga concessione del diritto di voto, controllato da un popolo la cui istruzione ha raggiunto lo stadio della capacità di leggere carta stampata senza esercitare alcuna critica, favorisce immensamente i disegni degli astuti politici affaristi che, controllando la stampa, la scuola, e se necessario la chiesa, impongono l’imperialismo alle masse nella forma attraente di un patriottismo sensazionale. Abbiamo anche in­travisto la possibilità di una più ampia alleanza di stati occidentali, una “federazione europea” di grandi potenze che, lungi dal promuovere la causa della civiltà mondiale, potrebbe presentare il gigantesco pericolo di un parassitismo occidentale, prodotto dall’esistenza di un gruppo di nazioni industriali avanzate, le cui classi superiori ricevessero grandi tributi dal­l’Asia e dall’Africa.

[j.h.]

 

 

Ingraismo

(se lo conosci, lo eviti)

L’ingraismo è una malattia perniciosa del proletariato di sinistra, a carattere infettivo virale, con esiti degenerativi, sovente letali nelle fasi epidemiche della lotta di classe [<=]. I ricercatori rivoluzionari mostrano un particolare interes­se per lo studio di questo morbo poiché è quello che, aggredendo l’emicere­bro destro nel tentativo di inibirne i disturbi, finisce per provocare la parziale immobilità della parte sinistra del corpo politico, fino alla sua totale paralisi che degenera in uno stato comatoso dell’intero organismo. In effetti, gli altri stati morbosi del proletariato, per la parte destra del suo corpo, sono ormai largamente studiati, con pratica terapeutica conosciuta e sperimentata; come tali è lecito trascurarli. Basterà ricordare, tra tutti, due casi: l’amendolite che – con alcune sue ben note varianti, ceppo napolitano, sindrome del lama, diar­rhœa iottis o delirium super partes, ecc. – si è sviluppata nella generica mi­gliorite; e, in un’area sociale più indistinta, la craxite, con sintomatologia ri­pugnante, fino all’esito (sindrome del duce alternata col fumus persecutionis craxii, e poi olfactus martellii, vomito del turco, piorrea o ghigno del benve­nuto, fino alle forme più disgustose, che secernono muco, di unctus de mi­chælis ed exsudatio intinii).

Oltre a questi casi, invece, rimangono incerte le manifestazioni dolorose della berlinguerite che, individuata inizialmente come “terza via” tra l’amendolite e l’ingraismo, è poi comparsa in forme così differenziate da lasciare disorientati i ricercatori meno attenti e specializzati. In effetti, molti non sanno spiegarsi come la berlinguerite abbia potuto scavalcare a sinistra l’ingraismo (tanto che alcuni la reputano derivata da quest’ultimo), e abbia così compromesso stori­camente lo stato di salute psicofisica anche di una maggioranza di proletariato rifondato. Per le sue caratteristiche la berlinguerite richiede perciò ancora un vasto programma di indagine. Viceversa, l’ingraismo consente ormai di for­mulare diagnosi precise e consolidate.

I primi ricercatori che isolarono e studiarono il morbo ritennero impropria­mente di individuarlo come caso particolare di “quarta” malattia. Alcuni sin­tomi sembravano avvalorare questa tesi: manìa di persecuzione, forti dolori alla nuca, senso di isolamento, autoreferenzialità, sdoppiamento della perso­nalità, comportamento esteriore di tipo adattivo (sindrome dell’entrismo). Tuttavia, pur se l’etiologia virale del morbum ingrai presenta margini di in­certezza che non consentono ancora una terapia precisa, sembra che la sua in­clusione nell’ambito della “quarta” malattia sia sicuramente riduttiva nonché fuorviante. L’analoga sintomatologia ha probabilmente cause diverse: al pun­to che la stessa principale “sindrome entrista” è stata recentemente ritenuta assolutamente inesatta per il caso in osservazione. In effetti, dopo ripetute analisi ed esperimenti, si è rilevato che il comportamento adattivo dei soggetti colpiti dal virus dell’ingraismo è di tutt’altra natura, conducendo ineluttabil­mente alla paralisi politica (al contrario dell’entrismo classico della “quarta” malattia, che si manifesta piuttosto attraverso una frenesia psicomotoria, per certi versi salutare per la guarigione dei soggetti colpiti). Anziché cercare di “entrare” in un posto, invece, gli affetti da ingraismo vengono colti da smarri­mento, amnesia e paura di “uscire” dal posto in cui si trovano (forma fobica che è stata definita come sindrome dell’angelo sterminatore).

La profonda differenziazione delle manifestazioni della malattia ha suscitato perciò una ripresa d’interesse da parte dei ricercatori. Così, a es., le gravi for­me di sonnolenza che l’ingraismo induce anche nei portatori sani sono state imputate al contagio con l’irrazionalismo borghese, che l’immunologo dr. Preve ha riconfigurato come sonno della ragione proletaria. Il virus ingrai, an­corché isolato e tipizzato, si insinua subdolamente e a volte impercettibilmen­te negli organismi più deboli, con un tempo di incubazione variabile. Esso è sovente assai lungo, talché è difficile diagnosticare con tempestività l’insor­genza del male e, nonostante l’accertata positività sierologica dei soggetti col­piti, scarse sono le prospettive di risoluzione del morbo con gli interventi te­rapeutici oggi conosciuti e disponibili. In effetti, anche se riscontrabili come promettenti indizi di evoluzione favorevole del male, finora sono rarissimi gli eventi osservati di retrocessione della sieropositività (anche tra i soggetti che non necessariamente ammalano) e tanto meno i casi di guarigione.

La ricerca sulla prevenzione delle cause sembra ancora oggi essere la sola via percorribile per evitare il contagio e la malattia (influenza di Barcellona). Al­cune indagini hanno perciò ipotizzato che l’immuno­defi­cienza che caratteriz­za la comparsa del virus ingrai sia attribuibile alla particolare predisposizione e debolezza mostrata da soggetti psicolabili, con forme accentuate di fobìa verso il banalissimo retrovirus della migliorite (per le sue complicanze di op­portunismo, riformismo e revisionismo), che viceversa risulta essere sostan­zialmente innocuo per soggetti proletari normali [quel retrovirus si cura molto facilmente facendolo e­spellere rapidamente dall’organismo colpito, purché non gli si dia alcuna importanza, col solo riposo]. Tuttavia, data la degenera­zione ambientale che attualmente favorisce la diffusione endemica di quel re­trovirus, alcuni ricercatori d’avanguardia ritengono ormai imprescindibile una campagna di massa di vaccinazione di marxismo (da richiamare almeno ogni tre anni, o più frequentemente per i soggetti a rischio), cosicché siano garanti­te le difese immunitarie di tutti i proletari anche rispetto ad altre possibili for­me di contagio [vi è chi, a es., ha ipotizzato, in verità senza molte prove a so­stegno, l’eventuale diffusione del virus cossuttæ, come variante della “terza” malattia, in quanto difficilmente isolabile per la gran varietà di forme degene­rative che esso presenta; ma i pochi casi individuati non sembrano per ora de­stare allarme].

In considerazione della condizione di psicolabilità fobica – accompagnata dal­lo sdoppiamento di personalità caratterizzato da profonda sensazione di incer­tezza – che sembra essere alla base dell’ingraismo, i soggetti più a rischio fi­nora risultano essere soprattutto gli intellettuali (o piuttosto coloro che si ri­tengono tali, pur volendo sembrare proletari) e quei pochi proletari che ambi­scono a diventare intellettuali. Non è raro incontrare soggetti ammalati che dicono “no” pensando di dire “sì”. In effetti, la scissione della personalità dei soggetti colpiti, anche prima di ammalare, è tale che essi, pur essendo real­mente altro, non di rado ritengono di essere cultura, essere tendenza, essere partito, essere sindacato, ecc. Una delle manìe più diffuse dell’in­graismo è quella di riferirsi alle “masse”: tale affezione, peraltro, fu già studiata dal dr. Engels a proposito del tradunionismo (morbo dell’aristocrazia operaia) che si sviluppava in ambiente in cui, viceversa, diventava impossibile e perciò illu­sorio tenere sotto controllo la reale maggioranza delle masse [in séguito il dr. Ulianov identificò il morbo come kautskismo].

Sulla base dei vari caratteri esaminati, sono state perciò isolate e tipizzate due varianti principali del virus ingrai: quella teorico-politica e quella pratico-sindacale. La prima dà luogo a una gravissima forma degenerativa, caratterizzata da crescente confusione mentale che porta il soggetto ammalato a cambiare personalità e nome, farne­ticando e asserendo cose diversissime e anche opposte a distanza di pochi mi­nuti con la medesima falsa sicurezza e arroganza (sindrome del paperetto o di Akel); i soggetti giunti a questo stadio, in mancanza di disposizioni certe sul­l’eutanasia, vanno senz’altro tenuti in isolamento essendo inguaribili. Nella prima variante rientrano altresì i comportamenti ossessivi e autistici, caratte­rizzati da manìa giornalistica dei soggetti colpiti, anche se portatori sani (sin­drome della testata comunista). La seconda variante (nota come sindrome del trentin) dà luogo a forme schizofreniche di presenza nel campo sindacale, in quanto il soggetto colpito – attraverso atteggiamenti deliranti che derivano in genere da forte produzione onirico-democratica economica e industriale – ri­tiene di svolgere attività a favore dei lavoratori e delle masse, mentre invece compie azioni diametralmente opposte (con le complicanze di consociativi­smo, partecipazionismo flessibile, corporativismo [<=], ecc.).

I soggetti colpiti da giovani presentano forme croniche ritenute dai più assolu­tamente incurabili, data la profondità e la durata di incubazione e sviluppo della malattia (la letteratura specializzata riporta come esempio emblematico il ricordato caso Akel). D’altra parte, l’immunodeficienza protratta fa sì che nei soggetti ammalati giunti in età avanzata si evidenzi con maggiore esaspe­razione la morbilità tipica della senescenza (dai casi più gravi col morbo di Alzheimer, fino a forme più innocue di fissazione, moralismo, “sindrome del poeta”, facile emotività, ecc.: è classico il caso Pietro). Proprio per queste ra­gioni, come si diceva, si raccomanda ormai la vaccinazione proletaria marxi­sta su larga scala per debellare fin dalla radice anche la “migliorite” borghese, il cui retrovirus è indirettamente responsabile delle risposte sbagliate che i genomi degli organismi più esposti sono portati, degenerativamente, a dare. Anche se l’ingraismo come malattia perniciosa del proletariato è grave, tutta­via essa è aggredibile, sicché la strategia immunologica è suggerita anche dal­la considerazione che, a tutt’oggi, non esista una prevenzione profilattica at­tendibile sul piano puramente fisico – che non sia cioè capace di agire sulla coscienza [<=] dei soggetti: ma l’ingraismo, se lo conosci, lo eviti; se lo conosci, non ti uccide.

[gf.p.]

 

 

Insurrezione

(rivolte di popolo e lotte di classe)

Come Marx aveva predetto, la guerra del 1870-71 e la sconfitta della Comune avevano contemporaneamente spostato il centro di gravità del movimento operaio dalla Francia alla Germania. In Francia occorsero naturalmente degli anni per rifarsi del salasso del maggio 1871. In Germania, invece, dove l’industria, favorita dalla manna dei miliardi francesi [un’indennità di 5 miliardi di franchi], si sviluppava sempre più rapidamente, come in una serra calda, ancora più rapidamente e intensamente si sviluppava la socialdemocrazia. In seguito venne il riconoscimento di questi progressi da parte delle autorità superiori, sotto la forma della legge contro i socialisti; sotto la pressione della legge d’eccezione, il partito fu momen­taneamente disperso, senza stampa, senza organizzazione esteriore, senza diritto di associazione e di riunione.

Il suffragio universale esisteva in Francia già da molto tempo, ma era caduto in discredito per l’abuso fattone dal governo bonapartista. Dopo la Comune non era più esistito un partito operaio che potesse utilizzarlo. Gli operai rivoluzionari dei paesi latini si erano abituati a considerare il diritto di voto come una trappola, come uno strumento di mistificazione governativa. Non facciamoci illusioni: una vera vittoria della insurrezione sull’esercito nella lotta di strada, una vittoria come tra due eserciti, è una delle cose più rare. Gli insorti stessi del resto ben di rado avevano contato su di essa. Si trattava per essi soltanto di paralizzare le truppe con influenze morali, che nella lotta tra gli eserciti di due paesi belligeranti non entrano affatto in gioco o vi entrano in misura molto piccola. Se la cosa riesce, la truppa rifiuta di marciare, oppure il comando perde la testa e l’insurrezione è vittoriosa. Se la cosa non riesce, anche se l’esercito è inferiore come numero, si impone la superiorità derivante dal migliore armamento e dalla migliore istruzione militare, dalla unità di comando, dall’impiego razionale delle forze combattenti e dalla disciplina. Il massimo che l’insurrezione può dare in un’azione veramente tattica, è la costruzione e la difesa razionale di una barricata singola.

Perciò la resistenza passiva è la forma di lotta che prevale: l’attacco si scatena qua e là, ma solo in via d’ec­cezione, sotto forma di incursioni e attacchi di fianco occasionali; di regola però si riduce all’occu­pazione delle posizioni abbandonate dalle truppe in ritirata. A questo si aggiunge ancora che l’esercito dispone di artiglieria e di truppe del genio perfettamente equipaggiate e istruite, mezzi di lotta che mancano quasi sempre agli insorti. Nessuna meraviglia dunque che anche le lotte sulle barricate combattute col più grande eroismo terminassero con la sconfitta dell’insurrezione, non appena i capi che dirigevano l’attacco, immuni da riguardi politici, agirono con criteri puramente militari e i soldati rimasero loro fedeli. La barricata aveva perduto il suo fascino; il soldato non vedeva più dietro ad essa “il popolo”, ma ribelli, mestatori, saccheggiatori, spartitori di bottino, la feccia della società; l’ufficiale aveva col tempo acquistato esperienza delle forme tattiche del combattimento di strada; non marciava più diritto e senza coprirsi contro la trincea improvvisata, ma la aggirava attraversando giardini, cortili e case. E con un po’ di abilità, in nove casi su dieci la cosa riusciva.

Le guarnigioni possono più che raddoppiarsi in ventiquattr’ore e in quarantott’ore possono diventare eserciti giganteschi. L’armamento di questa massa di soldati enormemente accresciuta, è diventato incomparabilmente più efficace. Dal lato degli insorti, al contrario, tutte le condizioni sono diventate peggiori. Nella lotta di classe non avverrà infatti mai che tutti i ceti medi si raggruppino in modo così esclusivo attorno al proletariato da far quasi scomparire il partito della reazione raccolto attorno alla borghesia. Il “popolo” apparirà quindi sempre diviso e verrà perciò a mancare una leva potente che fu tanto efficace nel 1848. Se è vero che dalla parte degli insorti vi sarà un maggior numero di uomini che hanno compiuto il servizio militare, tanto più difficile sarà però il loro armamento. Sarebbe pazzo il rivoluzionario che scegliesse di sua volontà una lotta di barricate.

Una futura lotta di strada potrà dunque essere vittoriosa soltanto se questa situazione sfavorevole verrà compensata da altri fattori. Essa si produrrà perciò più raramente all’inizio di una grande rivoluzione che nel corso ulteriore di essa e dovrà essere impegnata con forze molto più grandi. Ma allora queste, com’è avvenuto nel cor­so della grande rivoluzione francese e poi il 4 settembre e il 31 ottobre 1870 a Parigi [abbattuto l’impero di Napoleone iii e proclamata la repubblica], preferiranno l’attacco aperto alla tattica passiva delle barricate.

Se sono cambiate le condizioni per la guerra tra i popoli, non meno sono cambiate per la lotta di classe. È passato il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni sociali, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta, per che cosa dànno il loro sangue e la loro vita. Questo ci ha insegnato la storia. Ma affinché le masse comprendano quel che si deve fare è necessario un lavoro lungo e paziente. Questo lavoro è ciò che noi stiamo facendo adesso e con un successo che spinge gli avversari alla disperazione.

I socialisti si convincono sempre più che per essi nessuna vittoria durevole è possibile se non conquistano prima la grande massa del popolo che ivi è costituita dai contadini. I nostri compagni non rinunciano affatto al loro diritto alla rivoluzione. Il diritto alla rivoluzione è del resto il solo vero “diritto storico”, l’unico su cui riposano tutti gli stati moderni senza eccezione [la rivoluzione aristocratica segnò nel 1755 il “patto di successione”, ancor oggi consacrazione scritta del feudalesimo]. Il diritto alla rivoluzione è così incrollabilmente penetrato nella coscienza universale, che persino il generale von Boguslawski fa risalire a questo diritto del popolo il diritto al “colpo di Stato” che egli rivendica per il suo imperatore.

L’ironia della storia capovolge ogni cosa. Noi, i “rivoluzionari”, i “sovversivi”, prosperiamo molto meglio con i mezzi legali che con i mezzi illegali e con la sommossa. I partiti dell’ordine, com’essi si chiamano, trovano la loro rovina nell’ordinamento legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente: la legalità è la nostra morte; mentre noi in questa legalità ci facciamo i muscoli forti e le guance fiorenti e prosperiamo. E se non commetteremo noi la pazzia di lasciarci trascinare alla lotta di strada per far loro piacere, alla fine non rimarrà loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale.

Ma facciano pure le loro leggi contro i sovversivi; le rendano pure anche più gravi; rendano pure di gomma elastica tutto il codice penale; non otterranno altro che una prova di più della loro impotenza. Per mettere sul serio alle strette la socialdemocrazia dovranno prendere ancora ben altre misure. Alla sovversione socialdemocratica cui proprio ora giova molto osservare le leggi, essi possono opporre solo la sovversione propria del partito dell’ordine, la quale non può vivere senza violare le leggi. Violazione della Costituzione, dittatura, ritorno all’assolutismo, regis voluntas suprema lex!

Tutti gli stati moderni sono il prodotto di un patto, in primo luogo tra di loro e in secondo col popolo. Se una parte rompe il patto, tutto il patto viene meno e anche l’altra parte allora non è più vincolata. Se voi violate dunque la Costituzione, allora la socialdemocrazia è libera e può fare nei vostri confronti ciò che vuole. Ma ciò che essa farà allora, si guarda bene dal farvelo sapere oggi!            

[f.e.]

(Friedrich Engels, Introduzione (1895 a Le lotte di classe in Francia (1848-1850))

 

 

Intellettuali  # 1

(funzioni e decadenza)

La poesia dedicata A chi si è allineato procura delle difficoltà, e non è rivolta soltanto agli ideologi di professione. Ci sono tanti di quei milioni di piccoli borghesi e lavoratori della testa ora “inquadrati” politicamente, i barbieri che lavorano nelle formazioni squadriste, gli artigiani e i piccoli commercianti riuniti nelle loro numerose associazioni di categoria, per non parlare di insegnanti, ingegneri, ecc. L’ingegnere che promuove la razionalizzazione del lavoro, e con ciò lo sfruttamento fisico del proletariato, produce ugualmente danni: l’elemento ideologico in fondo non è altro che l’espressione della realtà di fatto. Le forze motrici dello sfruttamento e dell’oppressione non sono certo le “manifestazioni di principio”. I nostri ideologi si agitano per la confusione delle parole più che per i danni concreti subìti dal proletariato. I delitti del regime non sono altro che i suoi delitti contro il proletariato, l’allineamento consiste nel far partecipare a questa attività delittuosa certi determinati individui e ceti.

Ci sono concetti contro cui è difficile lottare per il fatto che diffondono intorno a sé una tale noia – come “decadenza”. Com’è facile annidarsi in tutte le posizioni sgomberate dal proletariato! Si torna a parlare di quel realismo ora felicemente ridotto in uno stato da far pietà, come i nazisti hanno fatto col socialismo. Nelle riviste marxiste ricompare più di frequente, negli ultimi tempi, il concetto di decadenza. In effetti il marxista ha bisogno del concetto di declino. Egli riscontra un declino della classe dominante borghese, nel campo politico e in quello economico. Sarebbe idiota da parte sua rifiutarsi di vedere il declini nel campo dell’arte. Quest’epoca della decadenza sarebbe poi la nostra: all’inizio ancora un paio di “epoca della decadenza borghese” biascicati a mezza bocca, poi non rimane altro che “epoca della decadenza”; è il tutto che va in rovina, non la sola borghesia. Lo scrittore realista dell’“epoca della decadenza” viene dispensato dall’es­sere materialista dialettico. Basta che egli “nell’atto creativo dia la preferenza alla realtà esattamente percepita e vissuta, piuttosto che all’ideologia, ai pregiudizi acquisiti”.

Tra i realisti borghesi – ché loro la realtà la “riproducono”! – e quelli del proletariato non ci sarebbe nessuna contrapposizione, e magari neanche tra la borghesia e il proletariato?! (E del resto come sarebbe possibile all’insegna del “fronte popolare”?). Secondo i “murxisti”, i realisti borghesi avevano un realismo imperfetto, avevano ancòra degli idola: escludiamo questi ultimi, e tutto sarà a posto. I loro dati di fatto vengono accettati e riordinati in modo nuovo. Marx è un Ricardo fornito delle conclusioni esatte, e nient’altro.

Essere attratti per magìa dal problema delle decadenze ideologiche, significa essere kantiani che portano ad absurdum le categorie marxiste, non confutandole ma applicandole. In tal modo si vengono ad avere dei realisti (liberati da ogni sospetto, contrapponendo a essi una “decadenza”) le cui descrizioni lasciano fuori del quadro la “lotta di classe” [<=], cosicché il lettore sia costretto a far lui quelle complicate riflessioni che servono a far capire che gli avvenimenti descritti traggono origine dalla lotta di classe: naturalmente possiamo sempre aggiungercela noi col pensiero. “In fin dei conti”, tutto è lotta di classe"! Questa ottusità è colossale.

Ecco qua la lotta di classe, un concetto svuotato, sputtanato, saccheggiato, sbruciacchiato fino a renderlo irriconoscibile: in ogni modo “esiste” e fa la sua comparsa! La lotta di classe, così, non è più nient’altro che un dèmone, un vuoto principio che confonde le idee alla “gente”, non è più una cosa che si verifichi. Nella realtà la lotta di classe c’è, lo scrittore descrive quindi la realtà e allora la lotta di classe si verrà a trovare dentro le sue descrizioni! E questa mossa, il fatto cioè che questa gentucola dia l’avvio alla sua critica formalistica con una battaglia contro il formalismo, ricorda terribilmente da vicino le manovre nazional“so­cialiste”. E mai che si accenni al formalismo delle democrazie e dei fascismi!

Questo sì che è vero “realismo socialista”! Nuovo perché vecchio. Che cos’è mai la forma? Qui c’è un contenuto: “ci sono uomini di carne e di ossa”. Com’è noto (?) il teatro, per la carne e per le ossa, dispone di cartone e inchiostro rosso, che appunto sembrano proprio carne e ossa: “ma in esso ci sono degli uomini con le loro contraddizioni”. Nel dramma il capitalismo è cattivo perché rende la gente avida di ricchezza: la dialettica dell’espressione “fare di ogni erba un fascio”! Così il marxismo “non è rimasto soltanto un pensiero, ma piuttosto esso compenetra tutto il suo essere, la sua sensibilità giù giù fin nelle profondità di ciò che non è più cosciente”. Il che poi in sostanza vuol dire che il marxismo non è rimasto, o, per meglio dire, non si è mai trasformato in pensiero.

Marx insegnava che per capire le idee degli uomini bisogna studiare la storia della loro produzione di ciò che è necessario alla vita. Quando, per capire ciò che intendo­no per “libertà” [<=] i lavoratori della testa della nostra epoca, si studia la storia della produzione di ciò che è necessario al­la vita, si trova che la classe [<=] cui sono legati i nostri lavora­tori della testa aspirava a una libertà che era la libertà del­la concorrenza [<=]. Questa era una libertà ben determinata. Anche la concorrenza era una concorrenza ben determina­ta, dissimile da altre forme di concorrenza che si erano già viste a questo mondo. Era infatti la concorrenza nella ven­dita delle merci [<=].

Le merci che avevano da vendere i lavo­ratori della testa erano opinioni e conoscenze. La libertà cui aspirano è la libertà della concorrenza nel vendere opi­nioni e conoscenze. Questo non suona molto bene: ma che non suoni bene dimostra soltanto che al nostro tempo la produzione di ciò che è necessario alla vita in forma di libera concorrenza nella vendita delle merci non funziona più bene. Al tempo in cui essa veniva portata avanti in questa forma, la frase non suonava male. Quando si paga­vano opinioni e conoscenze così come pesci e reti da pe­sca, panno e lavoro di sartoria, e quando i lavoratori della testa modellavano le loro opinioni e impiegavano le loro conoscenze in modo tale da favorire la produzione, non si scorgeva in questo rapporto di dipendenza nulla di male. Nella concorrenza si sviluppavano le personalità e se gli inventori richiedevano tributi per l’uso delle loro inven­zioni e gli artisti e i filosofi deprecavano l’altrui imitazio­ne dei propri stili e modi di pensare e la perseguitavano come furto, questi inventori, artisti e filosofi erano utili alla produzione.

Dato che vi erano molti interessi tra loro contrastanti, potevano esservi molte opinioni che poteva­no essere liberamente esposte. Al nostro tempo la produ­zione di ciò che è necessario alla vita non può più essere favorita nella forma della libera concorrenza nella vendita delle merci, essa continua a incepparsi e si trasforma sem­pre più nella produzione di strumenti di distruzione, e c’è un nuovo impulso di libertà e una nuova idea di libertà, che non mira alla libertà della concorrenza nella vendita delle merci. E una simile libertà che ormai dovrebbe por­tare innanzi la produzione, ed è chiaro che le idee e i de­sideri dei lavoratori della testa circa la libertà non posso­no realizzare una libertà di questa fatta.

Così i tedeschi, per parte loro, hanno sviluppato un “materialismo incorporeo”; lo “spirito” riflette sempre sullo spirito. I corpi e gli oggetti rimangono privi di spirito. Nelle canzoni tedesche dedicate al vino si parla sempre di effetti “spirituali”, perfino nelle canzoni più volgari. Mai che si senta l’odore delle botti: ai tedeschi il sapore del mondo non piace. Prestate attenzione anche a questa combinazione di parole: “puramente spirituale”. Basta che lo spirito entri in contatto con la materia e immediatamente si contamina. Per i tedeschi più o meno la materia non è nient’altro che merda. Intanto ex agitatori berlinesi sono passati al teatro borghese, proclamando che in arte bisogna fare appello al “sentimento” – il che non può voler dire altro se non che bisogna lasciar fuori la ragione!

L’“intelletto” non è che venga soffocato, esso svolge la funzione del “controllore”: è un serbatoio in cui si raccoglie tutto ciò che di pretesco c’è nell’arte teatrale. Uno comincia col “sentire”, cioè si mette in grado di sentire grazie ad abluzioni di tipo spirituale (il che vuol poi dire essenzialmente dimenticare che l’arte è un affare), e in un secondo tempo fa “rettificare” (espressione che in questo caso equivale a giustificare) questi “sentimenti” dalla ragione: il tuismo[<=] personificato! È il sentimento a dimostrarci se una cosa è “autentica”: come se le emozioni non fossero per lo meno altrettanto corrotte quanto le funzioni intellettuali. “Non c’è dubbio che l’arte si rivolga al sentimento” – gronda l’inchiostro! L’elemento emozionale viene stivato nella “sottostruttura”, quello intellettuale nella “sovrastruttura”. La separazione di “intelletto” e “senti­mento” viene accettata. Se si pone l’accento sull’aspetto razionale, ecco che si avverte eo ipso la mancanza dell’aspetto sentimentale. Nel migliore dei casi si parla (e non sempre con espressioni di rincrescimento) della patologica separazione tra “sentimento” e “intelletto”. La falsità di “tempio dell’arte”, liturgia della parola, culto del poeta e della sua interiorità, purezza, esaltazione, naturalezza, da cui continuamente si teme (e non si può non temere) di uscire “fuori”, corrisponde all’arretratezza spirituale, alla sfiducia nel-luomo, nelle idee, ecc. Questo è autentico “naturalismo”: la natura è il grande sconosciuto che viene imitato, imitando la sua barba posticcia.

Imitare! “L’illusione che tutta la vita sia rappresentata nella sua intera estensione”. L’organica varietà della composizione si trasforma in connessione meccanica. Crescente disumanizzazione del romanzo! Gli “sciagu-rati” scrittori, caduti così in basso da trasformarsi da “narratori” in “descrittori”, capitolano, si mettono dal punto di vista del capitalismo, disumanizzano la vita: ma che il proletariato disumanizzato ponga di fatto tutta la sua umanità nella protesta e di là parta per la sua lotta contro la disumanizzazione della produzione, di tutto questo il signor professore Lukács non se accorge.

Terribile leggere le poesie di Shelley – per non parlare dei canti dei contadini egiziani di 3000 anni fa – in cui ci si lamenta dell’oppressione e dello sfruttamento! Anche a noi ci leggeranno allo stesso modo, ancòra oppressi e sfruttati, e diranno: già allora ...?

[b.b.]

(tratto da Diario di lavoro, 1938-44)

 

 

Intellettuali # 2

(Tui)

L’imperatore è in grande imbarazzo perché incomincia a trapelare la voce che per risanare le proprie finanze egli ha organizzato una carenza di cotone. Ha ammassato nei suoi magazzini il raccolto eccezionalmente abbondante di cotone, l’ha cioè ritirato dal mercato per tenerne alti i prezzi. Il popolo mormora e pretende che si dica dove è andato a finire il cotone. L’opinione pubblica,  in Cina, è ancòra còmpito dei Tui – i Tellet-ual-in [gli “intellettuali” capovolti]. Essi esercitano il pensiero facendone un affare poco pulito, vivono del commercio delle idee. I lavoratori della testa badano a nutrirsi con la loro te­sta. Nel nostro tempo la testa li nutre meglio se escogita invenzioni a molti dannose. Perciò Me-ti diceva di essi: “Il loro zelo mi dà cruccio”. Per contare qualche cosa nello stato, bisogna essere Tui. Ci sono scuole per Tui e un’università per Tui, che insegnano l’arte di essere un Tui e di produrre opinioni utilizzabili. I Tui conoscono la verità ma non la dicono per salvaguardare il proprio interesse, e sentono di avere una “funzione sociale” unicamente come semplici venditori di opinioni lecite.

I lavoratori della testa sono in antitesi con il “rivolgi­mento” perché, disse Me-ti, “essi si compor­tano di fronte ad esso non come teste, ma come pance. Te­mono che noi, esortandoli a riempire i nostri depositi e serbatoi di sapere, li disturbiamo nella loro princi­pale oc­cupazione, che è quella di riempirsi la pancia. Credono che una cosa escluda necessariamente l’altra. Vivono in un sistema che produce penuria, producono essi stessi penu­ria e temono la penuria. Vedono che solo pochi possono viver bene e non capiscono che nel cattivo sistema attuale questi pochi vivono bene solo perché tanti vivono male. Essi ritengono questo sistema necessario e inevitabile. Di­cono: come potrebbe il fiore fiorire in altro modo se non appunto fiorendo? E dimenticano che dopo il fiore viene il frutto, qualcosa d’altro e di altrettanto naturale”.

I Tui radiano dalle loro file chi “bazzica con la canaglia”, non facendo perciò cattivo uso del proprio intelletto. I Tui delle due principali associazioni di massa non si mettono d’accordo e si odiano più di quanto non odino il nemico. Litigano su quale sia la via più giusta, sul ruolo della violenza, si richiamano a Marx e adoperano i suoi libri per darsele sode. Dei loro litigi approfitta non soltanto il debole imperatore, ma soprattutto un ex brigante che si è fatto brigante unicamente per diventare un Tui: ma non riesce a farsi ammettere a una delle numerose scuole dei Tui e si dà alla politica. Come salvatore della patria, questo ex brigante con la sua guardia del corpo viene preferito ai Tui, che nel momento decisivo si dimostrano incapaci di assicurare la sovranità dell’“imperatore”.

Il “concilio dei Tui – il congresso degli “imbiancatori” (o Turandot) – convocato dall’“imperatore”, perché essi trovassero parole ben scelte per scagionarlo dal sospetto di aver ammassato il cotone, di manipolizioni economiche, è fallito. Al miglior “imbiancatore” sarebbe andata in premio la principessa Turandot. Ma l’ex brigante si impadronisce del potere, fa perseguitare i Tui e distruggere le loro opere d’arte, perché Turandot va in fregola facilmente ed è anche perversa: corre dietro ai Tui. Le sue simpatie per un uomo cessano quando il Tui fallisce dal punto di vista intellettuale, quando fallisce nel suo còmpito di “imbiancatore”. Si deve mentire bene, le cattive menzogne si pagano con la testa. 

Eisler propone, come trama per il Romanzo sui Tui – ovvero Moralia cinesi, storie di costume dell’età dei Tui la storia dell’Istituto di sociologia di Francoforte, il ruolo degli intellettuali [<=] nello stato capitalista, la loro dipendenza, la loro deformazione. La presunta democrazia conduce al fascismo. Un vecchio ricco (Hermann Weil, grossista di cereali liberale, speculatore in grano in Argentina) muore preoccupato per la miseria che c’è nel mondo. Nel suo testamento lascia erede suo figlio Felix, laureato a Francoforte sui problemi pratici della realizzazione del socialismo, e destina una grossa somma alla fondazione di un istituto che deve individuare quale sia l’origine della miseria. Naturalmente questa origine è proprio lui. L’istituto svolge la sua attività in un’epoca in cui anche l’“imperatore” vuole che si dia un nome all’origine di tutti i mali, dato che la collera del popolo cresce. L’istituto partecipa al “concilio”.

L’Istituto di sociologia di Francoforte ha [alla fine della II guerra] consolidato la sua base finanziaria che era divenuta fragile: gli ebrei di New York gli forniscono i mezzi per un esteso progetto di indagini sull’anti-semitismo. Horkheimer e Adorno hanno già elaborato un questionario grazie al quale si potranno fissare le caratteristiche del tipo fascista, metodicamente e su base rigorosamente scientifica. È questo il tipo che in potenza è antisemita e, d’ora in poi, gli si potrà fare una diagnosi (ed eventualmente lo si potrà curare) già nello stadio non virulento. Ma i finanzieri ebrei di New York sono fascisti potenziali molto più delle masse istupidite da pregiudizi antisemiti che appoggiano il sistema fascista.

Portato il discorso sul breve scritto di Karl Marx sulla questione ebraica, ci si sente dire che è “superato” (e poi risale al Marx giovane!): Marx deve essere caduto nella trappola di Göbbels che distingue tra capitale che produce e capitale che accumula. Chiedendo malignamente se secondo Adorno i newyorkesi finanzierebbero il punto di vista marxista – nel caso in cui Marx non avesse avuto torto, o anche nel caso che l’Istitu­to potesse dimostrare che nonostante tutto aveva ragione – la domanda è caduta nel vuoto (quasi sicuramente Adorno non l’accoglierebbe neanche nel questionario). Marx ha preso l’ebreo “così com’era” storicamente, plasmato dalle persecuzioni e dalla resistenza opposta a esse, con la sua specializzazione nel campo commerciale, con il suo bisogno di denaro liquido (la necessità di comprarsi l’emancipazione o la parità), il suo culto per antichissime superstizioni, ecc., e Marx gli ha consigliato di emanciparsi – e gliene ha dato l’e­sempio.

La faccia di Adorno non può diventare più lunga, il che per un teorico come lui è un vantaggio. [Così Brecht è stato costretto ad andare più avanti]. Attaccare il capitalismo per il fatto che ha liquidato il “mercanteggiare”: col che ha eliminato dal commercio tutta la fantasia, tutto lo humour, tutta la divertente schermaglia – insomma lo spirito; descrivere il disprezzo che il cinese (di gran lunga superiore all’ebreo nell’arte di mercanteggiare) prova per il mercante occidentale che semplicemente paga il prezzo richiesto e se ne va col bottino, senza che sia avvenuto alcun fatto di tipo umano, nessuna gara tra cervelli: se la presenza del venditore è così superflua, tanto varrebbe limitarsi a scassinare ...

A un garden party si è fatto vedere il duo di pagliacci Horkheimer & Pollock, due Tui dell’Istituto di sociologia di Francoforte. Horkheimer è milionario, Pollock è soltanto di buona famiglia, cosicché solo Horkheimer può comprarsi una nuova cattedra universitaria ogni volta che cambia di residenza “per coprire verso l’esterno l’attività rivoluzionaria dell’Istituto”.  Coi loro soldi tengono a galla una dozzina di intellettuali che in cambio debbono consegnare tutti i loro lavori, senza nessuna garanzia che una volta o l’altra la “rivista” li pubblichi. Così possono sostenere che “in tutti questi anni il loro principale dovere rivoluzionario è consistito nel salvare i soldi dell’Istituto”, mascherando le vere cause della barbarie fascista per non distruggersi la propria base materiale.

C’è Adorno, il teorico più versato dell’Istituto, il cui compiaciuto modo di esprimersi e la cui prontezza di lingua lo raccomandano come modello per un personaggio da palcoscenico: questo Istituto di Francoforte è una vera miniera per il Romanzo sui Tui. Gli “amici della rivolta armata” fanno da pendant ai “disinteressati ammiratori dell’idea di materialismo”! “A Marx non interessano le cose, ma soltanto quelle relazioni tra gli uomini che sono reificate nelle cose” – divertente. Peccato soltanto che questa borghesia sia caduta nelle mani delle divisioni corazzate e delle unità delle Ss. I Tui sono davvero inesauribili. Il più saggio, ma anche il più vanitoso dei Tui, il dio del seminario di filosofia, si fa imbellettare prima di comparire e intanto prova davanti allo specchio le frasi che dovrà pronunciare nei suoi famosi “discorsi improvvisati”.

A casa di Adorno discutono con lui Horkheimer, Pollock, Marcuse, Eisler, Stern, Reichenbach, Steuermann. Ci sono alcuni fenomeni dell’età moderna che turbano, si constata un lento calo dei bisogni culturali. Quando si soddisfano troppo i bisogni fisici, i bisogni spirituali ne risentono. È la sofferenza che ha creato la cultura: vuol dire che se si eliminerà la sofferenza si avrà la barbarie? Il dr. Pollock, l’economista dell’Istituto (una volta a Francoforte e ora a Hollywood – Hollywood si è rivelata una straordinaria miniera di materiale Tui, con intellettuali prudenti e vigliacchi) è convinto che il capitalismo potrebbe senz’altro liberarsi di tutte le sue crisi [<=] semplicemente mettendosi a fare “lavori pubblici”. Marx non poteva certo prevedere che un giorno il governo avrebbe potuto semplicemente mettersi a costruire strade! [Eisler e Brecht, un po’ esausti a un tiro tale, perdono ben presto la pazienza e “si mettono dalla parte del torto” in mancanza di un altro posto in cui mettersi: a volte non si possono esentare neppure i migliori amici dal sospetto che potessero essere diventati Tui].

Gli Usa stanno facendo a pezzi il Romanzo sui Tui. Qui è impossibile togliere i veli alla vendita delle opinioni. Essa se ne va in giro tutta nuda. La grande ridicolaggine di credere che siano loro – i Tui – a guidare, mentre invece sono guidati: il donchisciottismo della coscienza, la quale presume di determinare l’essere sociale – tutto ciò, evidentemente, era valido per l’Europa. Ma Eisler ha una borsa di studio della fondazione Rockefeller per comporre musica per il cinema (“quindici modi di descrivere la pioggia”): forse poi il Romanzo sui Tui non ... È sempre il vecchio Eisler, spiritoso e saggio come sempre.

L’età d’oro dei Tui è la repubblica liberale. L’idealismo, sceso al suo gradino più basso, celebra i suoi più giganteschi trionfi. Per dirla in termini filosofici, e perciò adeguati: la coscienza [<=], nell’attimo stesso in cui risulta più completamente asservita all’essere sociale , si arroga il diritto di comandarlo nella maniera più dispotica. L’“idea” non è più altro che un riflesso, e questo riflesso si contrappone alla realtà in forma quanto mai imperiosa e terroristica. Un aspetto parziale – conflitto tra Tui “democratici” e Tui “autoritari”: i primi hanno santificato quei contratti che sono stati imposti con mezzi di pressione economica e sono stati aboliti mediante maneggi economici. I secondi si servono di mezzi militari. Nei paesi democratici non si è svelata (e cioè si è velata) la natura violenta propria dell’economia, nei paesi autoritari succede la stessa cosa per quel che riguarda la natura economica propria della violenza [<=].

Anche lo Stato degli operai e dei contadini, dopo tre lustri dalla sua fondazione cadde sotto l’influsso dei Tui. L’enorme compito dell’edificazione del Grande Or­dine provocò un grande contrasto di opinioni che na­tural­mente fece scendere in campo i Tui. In quel tempo il paese era dominato da due reggitori [Stalin e Trotskij]: il primo risiedeva nel centro del paese, il secondo al di là del mare, molto lontano. Tuttavia avevano un pote­re pressappoco uguale. Il primo difendeva tutto quello che accadeva nel paese, il secondo lo attaccava. Di tutto quello che si faceva nel paese Stalin diceva: “L’ho fatto io”, e Tro­tskji: “Ho sconsigliato di farlo”. In realtà accadevano molte cose volute da Trotskji e molte non volute da Stalin. Chi po­teva influenzare il corso degli eventi era contento; ma na­turalmente anche gli scontenti influenzavano il corso de­gli eventi. Trotskji insisteva sul colossale potere di Stalin e costui non parlava quasi di nulla se non del colossale potere dell’altro. Alcuni dei Tui chiamavano padre dei popoli o corruttore dei popoli il primo, altri il secondo. E tutti i Tui si chiamavano a vicenda “Tui” nel peggior senso della parola.

E la classe [<=] operaia? Sono molti i bocconi che ha inghiottito, in cambio della scomparsa della disoccupazione [<=]. Niente guerra significa disoccupazione, dirà il regime nazista (e a ragione). Ciò che conferisce al regime questa parvenza di intelligenza – i vecchi studiosi del tuismo lo vedono sempre più chiaramente – è la circostanza che esso è un “tardo capitalismo” coerente; esso, parando i colpi, fa una politica coerente e di qui deriva quella sua “sicurezza da sonnambulo”! La critica che Hitler ha mosso alla socialdemocrazia e al “francofortismo” è eccellente. Quei deficienti pretendevano di cambiare il consumo senza cambiare la produzione! Dopo di che ti mettono su un’industria colossale, organizzata razionalmente in un paese spodestato politicamente, e ti vanno a fare una politica di pace! Mentre Hitler, lui sì che è coerente: i confini che le merci [<=] non possono superare, ora li superano i suoi carri armati. I quali sono anch’essi una merce (così com’è la manodopera che li fa funzionare).

I Tui rimangono sconvolti.

[b.b.]

(tratti ed elaborati da Diario di lavoro, 1938-44, Me-ti,

e da riferimenti in Klaus Völker, Vita di Bertolt Brecht, XXXIII).

 

 

Intifada

(territori occupati)

Di una complicata vicenda di conflitti semisecolari non è decente rendere conto in poche righe. La gente è parsa coinvolta con violenza [<=], lo sapesse o no, agli eventi politici quotidiani. Sottinteso o esplicito, il tema di fondo di ogni conversazione era la ri­volta nei territori occupati. Non ci vo­leva molto per capire, anche chi a­vesse voluto non saperlo, che la vita produttiva ed economica del paese e­ra determinata da un rapporto improprio con gli Usa.

Quel che sorprende e, alla fine, indigna è che a destra come a sinistra [<=], tra i “falchi” come fra le “co­lombe”, tra gli israeliani come fra i palestinesi, la controversia non sia mai preceduta da un accenno alle strutture della produzione, al sistema economico e ai rapporti di classe [<=]. Il discorso politico porta sul conflitto nazionale o et­ni­co o religioso, riguarda la guerra e la pace, le possibilità di convivenza, il potere dei gruppi di pressione del­l’e­­­stre­mismo religioso israeliano o i­sla­­mico. L’ap­­parenza coincide con la realtà. Si percepisce corporalmente il conflitto politico, etnico e religioso fra gli israeliani e gli arabo-palestine­si e ancor più l’aura della generale e diffusa menzogna in buona fede che in ogni momento maschera le ragioni sociali ed economiche del conflitto a favore di quelle politiche, etniche e re­ligiose.

Do­po gli Usa, i maggiori importatori di prodotti israeliani sono i “terri­to­ri occupati”; quel che guadagnano con lavoro pagato la metà di quel che viene pagato a un israeliano, i palestinesi devono spenderlo acquistando prodotti degli occupanti. Nel nostro paese, quotidiani d’informazione noti per la loro simpatia per Israele possono, senza dar cenno di turbamento, informare come, per compensare la di­minuzione della mano d’opera palestinese, indotta dell’intifada, il governo israeliano pensa seriamente di importarla. Esemplare la differenza fra il quartiere ebraico e quel­lo arabo, l’u­no congiunto all’al­tro. Questo è qua­si tutto di vecchie abitazioni malandate. Gli appartamenti ven­gono occupati per essere “ristrut­tu­rati”, la bandiera israeliana issata sul terrazzo o, nel caso dell’abitazio­ne occupata da Sharon, è un enorme candelabro a sette braccia, che fa raccapriccio. Gli abitanti sloggiati se ne vadano altrove (da noi muta solo la formula di giustificazione, “moder­niz­za­trice” anziché nazionalpolitica).   

Non occorre far professione di mar­xismo per capire che c’è da capire qual­­cosa che i media tacciono e le parti in conflitto sembrano concordi a far passare sotto silenzio. Anche da noi e in buona parte di Europa accade la medesima cosa, cui i dizionari davano nome di sfruttamento [<=]. Con la differenza che da noi non si accompagna all’occupa­zio­ne armata. Le chiac­chiere sulla “fine del marxismo” e delle prospettive comuni­ste sono, appunto, chiacchiere; ma il muro che esse innalzano è così alto e compatto che la contraddizione e il suo punto archimedico vanno ricercati al centro, non alla periferia della globale città paranoica nella quale viviamo.

Il fanatismo, da parola e idea di tempi remoti, qui è lezione del “pre­sen­te come storia”. Si dice che un seco­lo di movimento operaio marxista ha indebitamente oscurato la forza delle identità etniche e nazionali. Anzi, è stato possibile rileggere la storia del secolo come quella dell’“errore internazionalista”. Ma soprattutto che enorme è la vittoria ottenuta intorno a noi e in noi medesimi dalle maschere ideologiche che tutto interpretano con manovre “politiche” nel senso più basso e volgare della parola, o ma­fie o servizi segreti o fanatismi con­trapposti. Nelle cose del mondo hanno sempre operato sètte, società segrete, spie, polizie, mafie. Ma nel secondo dopoguerra si è verificata una coincidenza fra l’incidenza reale in cui quelle forma­zioni operano e l’uti­li­tà, per i gestori del potere, di farle credere decisive. E non è senza analogia con l’enfasi che l’informa­zione manipolata pone sui caratteri religiosi, etnici, nazionalistici dei conflitti. Non perché quei caratteri non ci siano, ma perché sono maschera di altri, dei quali si preferisce non parlare.

Non c’è nulla di più monotono del rumore delle vanghe che tutti i giorni, eccettuato il sabato, scavano la terra ai corpi di due o tre giovani ammazzati per aver preso a sassate altri giovani armati di mitra. Sui giornali, la notizia è nascosta in due righe, all’in­ter­no di un articolo. Non è, in alcun senso, una notizia: e più nessuno è incolpevole. “Quando i delitti si moltiplicano diventano invisibili” [Brecht,1935]. Una testimone dice che “non è vero che ci sia un problema dei colòni che si organizzano in squadre di autodifesa per terrorizzare i palestinesi dei villaggi nei "territori occupati". I colòni e l’esercito sono la stessa cosa. Spesso i soldati si fingono colòni e viceversa. Certe violenze che l’esercito non può compiere in proprio, le fa compiere ai colòni”.

Le funzioni politiche, economiche, militari, cui gli israeliani adempiono in congiunzione agli interessi americani (soprattutto eseguendo le operazioni che per gli Usa sarebbero politicamente troppo “in­de­centi”) sono or­mai tante e così ramificate che, co­me ha det­to un rabbi molto noto per il suo u­mo­rismo, “stiamo diventando una na­zione di a­genti segreti”.

Quel che, con la sua goffaggine mistica, dice la parola “olocausto” è una innocenza simbolica. Oggi sarebbero i palestinesi a fruire di quella eco sim­bolica (il giusto come vittima) e intorno a loro si farebbe del “vitti­mi­smo”, ossia della retorica emotiva sul­la condizione di vittima. Ma i palestinesi dell’intifada non sono vittime. Sono gente che si ribella a una condizione che è stata loro fatta e che paga per la loro ribellione. Non sono vittime almeno fino a quando si ribellano.

Stare dalla parte dei palestinesi, quindi contro la politica militare del governo israeliano, e chiedere pronunce di parte immediatamente prima che di pace, vuol dire ricordare che esistono cause di lotta antimperialista internazionale per le quali può essere necessario rompere i legàmi più cari e ardui; ossia scegliere che cosa mettere al primo posto: la fedeltà a una patria, a un’etnia, a una cultura, a una tradizione religiosa o familiare, ai propri morti, oppure altro, ogni volta che si presenta un conflitto di doveri e di fedeltà.

È quanto Hegel giovane aveva capito criticando la kantiana Metafisica dei costumi, dov’era affermato che “u­na collisione di doveri e di obbligazioni non è affatto possibile”. In un’e­tica di quel tipo, diceva Hegel, “non vi è nessun cambiamento, nessun acquisto, nessun sorgere e perire”. Gente come noi ha sempre considerato positivo il moto e la contraddizione, fino a quando l’immobilità ripetitiva e distruttiva del tardo capitalismo (che non esclude, anzi, innovazione tecnologica, eccidi e genocidi) ha rese possibili e utili al suo sistema le attuali ideologie che predicano essere mera favola il “sorgere e perire” e, contro ogni pericolosa conflittualità, invocano pluralismo e giustapposizione avalutativa.

 Ci era necessario arrivare a questo tempo del mondo per vedere sino a che punto il sentimento tragico o esistenziale della storia fosse legato allo sviluppo moderno delle contraddizioni capitalistiche. E oggi le forme “ar­re­trate” fondate su conflitti “religio­si”, che non riescono e neanche vogliono occultare il loro turpe còmpito di maschere, altro non sono che l’a­spet­to pittoresco e apparentemente secondario di qualcosa che è ampiamente diffuso in tutto l’Occidente e che una finzione razional-democrati­ca impedisce di vedere nella sua realtà: non si vuole “nessun cambiamento, nessun acquisto, nessun sorgere e perire” o, tutt’al più, spostare lo sfruttamento più vistoso in altre parti del pianeta. Il presente si pone come definitivo. Il carico rituale passa a u­n’al­tra istituzione: lo stato etico. È una contraddizione di cui testimoniano le tensioni interne alle comunità ortodosse (ebraiche). La conclusione coerente è la teocrazia, i sacerdoti armati.

[f.f.]

(da Franco Fortini, Un luogo sacro, 1990)

 

 

Istruzione

“L’ignoranza è madre tanto dell’industria quanto della superstizione. La ri­flessione e la fantasia sono soggette a errare; ma un’abitudine di muovere la mano o il piede in certo modo è indipendente dall’una e dall’altra. Quindi le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che l’officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini” (Adam Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, 1767). La cultura di cui la borghesia deplora la perdita è per l’enorme maggioranza degli uomini il processo della loro trasformazione in macchina. Di fatto, già alla metà del XVIII secolo, alcune manifatture adopravano di preferenza, per certe operazioni, dei semiidioti (oggi, i giapponesi hanno collaudato procedu­re nella fabbrica integrata della qualità totale definite “a prova di stupido”). Perciò, per la borghesia, come la cessazione della proprietà di classe significa cessazione della produzione stessa, così cessazione della cultura di classe è per essa lo stesso che cessazione della cultura in genere. Dunque, non è anche la “vostra” educazione determinata dalla società, dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dall’intervento più o meno diretto o indiretto della società per mezzo della scuola, ecc.? “Educazione popolare uguale per tutti”: che cosa ci si immagina con queste parole? Si crede forse che, nella società odierna, l’educazione possa essere uguale per tutte le clas­si [<=]? Oppure si vuole anche che le classi superiori debbano essere coattivamen­te ridotte a quella modesta educazione – la scuola elementare – che sola è compatibile con le condizioni economiche dei proletari?

“L’intelletto della grande maggioranza degli uomini – scrive Smith – è forma­to necessariamente dalle loro operazioni quotidiane. L’uomo che spende tutta la vita eseguendo poche operazioni semplici non ha nessuna occasione di esercitare il suo intelletto. Generalmente diventa stupido e ignorante quanto è possibile a creatura umana”. Dopo aver descritto l’ottusità del lavoratore par­ziale, Smith continua: “L’uniformità della sua vita stazionaria corrompe natu­ralmente anche il coraggio della sua mente. La destrezza nella sua particolare attività sembra, in tal modo, acquisita a spese delle sue virtù intellettuali. Ma, in ogni società progredita e civilizzata, questo è lo stato in cui devono neces­sariamente cadere i poveri che lavorano, cioè la grande massa della popola­zione [<=], a meno che il governo non faccia qualcosa per prevenire ciò”. Perciò, per impedire la completa atrofia della massa della popolazione, derivante dal­la divisione del lavoro, Smith stesso raccomanda l’istruzione popolare stata­le, seppure a prudenti dosi omeopatiche. In effetti, la desolazione intellettuale, prodotta artificialmente con la trasfor­mazione di uomini immaturi in semplici macchine per la fabbricazione di plu­svalore [<=] (non quell’ignoranza naturale e spontanea che non corrompe la capa­cità di sviluppo), ha finito per costringere perfino i parlamenti borghesi a fare dell’istruzione elementare una condizione obbligatoria per il lavoro, almeno fino ai quattordici anni di età. Tuttavia, lo spirito della produzione capitalisti­ca traluce splendidamente dalla sciatta formulazione di simili cosiddette clau­sole sull’istruzione obbligatoria, le quali rendono quest’ultima in gran parte illusoria, soggetta a trucchi e sotterfugi pratici per eluderla (a parte lo stato vergognoso dei luoghi chiamati scuole e l’ignoranza degli insegnanti).

Il sistema di fabbrica rende vane le leggi sulla scuola: basti osservare come la formazione intellettuale, se il lavoratore la possedesse, sarebbe senza alcun effetto diretto sul suo salario [<=]; che l’istruzione dipende soprattutto dalle condi­zioni di vita e che, con il pretesto dell’educazione morale, la borghesia inten­de inculcare agli studenti i princìpi borghesi; e che infine la classe borghese, se avesse i mezzi per offrire al popolo una vera istruzione, si rifiuterebbe di impiegarli. Del resto, l’“istruzione generale obbligatoria” o l’“insegna­mento gratuito” esi­stono formalmente in molti stati borghesi per le scuole di massa. Se in alcuni stati anche gli istituti di istruzione superiore sono “gratuiti” in linea di fatto ciò significa soltanto che si sopperisce alle spese per l’educazione delle classi dirigenti coi mezzi forniti in generale dalle imposte. In effetti l’istruzione, in particolare l’istruzione industriale generale, ossia quel grado di istruzione idonea allo sviluppo dell’indu­stria moderna, è un “ri­medio” molto caro ai borghesi. Rappresenta una banale contraddizione il fat­to, spesso dimenticato, che l’industria moderna tende a sostituire sempre più il lavoro complesso con il lavoro semplice, il quale non richiede nessuna for­mazione. Con l’espandersi del modo di produzione capitalistico su scala mon­diale, paese dopo paese, sempre più numerosi fanciulli sono gettati dietro la macchina [<=] per farne una sorgente di guadagno non soltanto per la classe bor­ghese ma anche per i loro proprî genitori proletari.

Dal punto di vista puramente economico, per gli economisti filantropi, l’i­struzione significa realmente una sola cosa: fare sì che ogni lavoratore impari ad esercitare più attività possibili, in maniera che, se l’im­piego di nuove mac­chine e una nuova divisione del lavoro lo espellono da un ramo, egli possa in­serirsi senza difficoltà in un altro. Anche supponendo che ciò sia possibile, resta il fatto che, in caso di eccedenza di lavoratori in un ramo di attività, questa eccedenza si produrrebbe sùbito in tutti gli altri rami della produzione; ancora più di prima, la diminuzione di salario in un ramo trascinerebbe imme­diatamente una diminuzione generale del salario. Per il fatto che l’industria moderna semplifica ovunque il lavoro e lo rende facile ad apprendersi, essa generalizza a più o meno lunga scadenza la riduzione del salario. Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità del lavoratore, e riproduce la divisione del lavoro, con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Questa contrad­dizione assoluta elimina ogni tranquillità, solidità e sicurezza dalle condizioni di vita del lavoratore. Questo è l’aspetto negativo.

Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale distruttiva, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori, e quindi della maggior versatilità possibile (multifunzionalità) del lavoratore, diventi legge sociale generale del­la produzione. Per essa diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione lavoratrice disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’indi­viduo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si dànno il cambio l’una con l’altra. Elementi di questo processo di sovvertimento, sviluppatosi spontaneamente sulla base della grande indu­stria, sono le scuole tecniche professionali nelle quali, tuttavia, la borghesia dà ai figli del proletariato appena un’ombra di istruzione professionale.

Nonostante tutto, per quanto nel complesso appaiano misere, le clausole sull’istruzione obbligatoria per il lavoro, col loro successo, dimostrarono per la prima volta la possibilità di collegare l’istruzione e l’educazione fisica col lavoro manuale, e viceversa; facendo scoprire che i ragazzi occupati in fabbri­ca imparano quanto gli scolari regolari delle scuole diurne, e spesso di più. “Il sistema metà lavoro e metà scuola fa sì che ognuna delle due occupazioni sia riposo e ristoro dell’altra, ed è quindi molto più adatto per il ragazzo che l’i­ninterrotta continuazione dell’uno o dell’altro lavoro”, scrisse un ispettore di fabbrica. Dal sistema di fabbrica, come osservò Robert Owen, è nato il germe dell’educazione dell’avvenire, che collegherà, per tutti i ragazzi oltre una cer­ta età, il lavoro produttivo con l’istruzione e l’educazione fisica, non solo co­me metodo per aumentare la produzione sociale, ma anche come unico meto­do per produrre uomini di pieno e armonico sviluppo. La classe operaia conquisterà anche all’istruzione tecnologica teorica e prati­ca il suo posto nelle scuole dei lavoratori. Non c’è dubbio che la forma capi­talistica della produzione, e la situazione economica dei lavoratori che le cor­risponde, siano diametralmente antitetiche a questi fermenti rivoluzionari e alla loro mèta, che è l’abolizione della vecchia divisione del lavoro. Lo svol­gimento delle contraddizioni di una forma storica della produzione è tuttavia l’unica via storica per il suo dissolvimento e la sua trasformazione.

Non sono i comunisti che inventano l’influenza della società sull’educazione; essi ne cambiano soltanto il carattere; essi strappano l’educazione all’influen­za della classe dominante, chiedendo almeno scuole tecniche (teoriche e pra­tiche) in unione con la scuola elementare. Per istruzione intendiamo tre cose: i. educazione mentale; ii. educazione fisica; iii. addestramento tecnologico, che impartisca i princìpi generali di ogni pro­cesso di produzione, e contemporaneamente inizi il fanciullo e il giovane all’uso pratico e manuale degli strumenti elementari di ogni tipo di lavoro. Un corso graduale e progressivo di addestramento mentale, fisico e tecnologi­co dovrebbe corrispondere alla classificazione dei giovani lavoratori. I costi delle scuole tecnologiche dovrebbero essere coperti in parte dalla vendita dei loro prodotti. La combinazione di lavoro produttivo pagato, educazione men­tale, esercizio fisico e addestramento politecnico, solleverà la classe lavoratri­ce a un livello ben più elevato di quelle delle classi medie e alte.

È assolutamente da respingere una “educazione del popolo per opera dello stato”. Fissare con una legge generale i mezzi delle scuole elementari, la qua­lifica del personale insegnante, i rami d’insegnamento, ecc., e sorvegliare per mezzo di ispettori dello stato l’adempimento di queste prestazioni legali, è qualcosa di affatto diverso dal nominare lo stato “educatore del popolo”! Piut­tosto si debbono ugualmente escludere governo e chiesa da ogni influenza sulla scuola: completa separazione tra chiesa e stato, scrisse Engels [per il programma di Erfurt]. Tutte le comunità religiose, senza eccezione, debbono essere trattate dallo stato come “società private”, senza alcun appoggio da par­te delle pubbliche risorse, perdendo ogni influenza sulle scuole pubbliche: non si può tuttavia, impedire loro di fondare, con i loro proprî mezzi (cioè, senza oneri per lo stato) delle scuole che siano di loro proprietà, e di inse­gnarci le loro idiozie!

[f.e.-k.m.]

(testo composto da Manifesto, II; Gotha, IV.B; Istruzioni ai delegati Ail;

Sa­lario, VI.2; Capitale, I.12.5; I.13.9)

 

 

Lavoro collettivo

(capacità potenziale sociale)

La forma del lavoro di molte persone che lavorano l’una accanto all’al­tra e l’una assieme all’altra secondo un piano, in uno stesso processo di produzione, o in processi di produzione differenti ma connessi, si chiama cooperazione. La somma meccanica delle forze dei lavoratori singoli è sostanzialmente differente dal potenziale sociale di forza che si sviluppa quando molte braccia cooperano contemporaneamente a una stessa operazione indivisa. Qui il lavoro sin­golo non potrebbe produrre affatto l’effetto del lavoro combinato oppure potrebbe produrlo soltanto in periodi molto più lunghi oppure soltanto su infima scala.

Qui non si tratta soltanto di aumento della forza produttiva individuale me­diante la cooperazione, ma di creazione di una forza produttiva che deve essere in sé e per sé forza di massa. Fatta astrazione dal nuovo potenziale di forza che deriva dalla fusione di molte forze in una sola forza complessiva, il semplice contatto sociale genera nella maggior parte dei lavori produttivi una emulazione e una peculiare eccitazione degli spiriti vitali [animal spirits], le quali aumentano la capacità di rendimento individuale dei singoli.

Benché molte persone compiano insieme e contemporaneamente la stessa operazione, oppure operazioni dello stesso genere, il lavoro individuale di ciascuno può tuttavia rappresentare, come parte del lavoro complessivo, differenti fasi del processo di lavoro di per sé preso, fasi che l’ogget­to del lavoro percorre più rapidamente in conseguenza della cooperazione. Per esempio, quando ciascuno fa la stessa cosa, tuttavia le singole operazioni costituiscono parti continue di una operazione complessiva, fasi particolari che nel processo lavorativo debbono esser percorse tutte: l’ogget­to del lavoro percorre lo stesso spazio in un tempo più breve; si ha combinazione di lavoro, poiché il lavoratore combinato o complessivo ha occhi e mani davanti e di dietro, e possiede fino a un certo punto la dote dell’ubi­quità, fa procedere il prodotto complessivo più alla svelta che non le stesse giornate effettuate da lavoratori più o meno isolati, che debbono ap­plicarsi al loro lavoro in maniera più unilaterale. Parti differenti del prodotto, separate nello spazio, maturano nello stesso tempo.

Se il processo di lavoro è complicato, la semplice massa dei collaboranti permette di distribuire tra differenti braccia le differenti operazioni, e quindi di compierle contemporaneamente e di abbreviare il tempo di lavoro necessario a fare il prodotto complessivo. Da una parte, la cooperazione permette di dilatare l’ambito spaziale del lavoro, che per certi processi lavorativi è richiesta già dall’e­stensione stessa dell’og­getto del lavoro; d’altra parte, la cooperazione rende possibile, relativamente alla scala della produzione, una contrazione spaziale del campo di produzione. Tale restrizione spaziale del lavoro, accompagnata dalla dilatazione della sua sfera d’azione, per la quale si risparmiano una gran quantità di false spese, deriva dalla conglomerazione dei lavoratori, dalla riunione di diversi processi di lavoro e dalla concentrazione dei mezzi di produzione.

La giornata di lavoro combinata produce quantità di valore d’uso maggiori della somma di un uguale numero di giornate lavorative individuali singole, e quindi diminuisce il tempo di lavoro necessario per produrre un determinato effetto utile. Che la giornata lavorativa combinata riceva tale forza produttiva accresciuta, in ogni caso la forza produttiva specifica della giornata lavorativa combinata è forza produttiva sociale del lavoro, ossia forza produttiva del lavoro sociale. E deriva dalla cooperazione stessa. Le condizioni sociali del lavoro di molti lavoratori direttamente cooperanti permettono come tali un risparmio in contrasto con la loro dispersione nel caso della produzione su scala più modesta.

Queste forze produttive sociali del lavoro o forze produttive del lavoro sociale si sviluppano storicamente solo con l’apparire del modo di produzione specificamente capitalistico. Le condizioni oggettive del lavoro, a causa della dimensione in cui vengono impiegate, come mezzi di produzione concentrati, diventano rappresentanti della ricchezza sociale grazie all’am­piezza ed efficienza delle condizioni produttive del lavoro socialmente combinato.

Nella cooperazione pianificata con altri il lavoratore si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della sua specie. Poiché in generale non si può avere cooperazione diretta tra lavoratori senza che stiano insieme, e quindi il loro agglomeramento in uno spazio determinato è condizione della loro cooperazione, non si può avere cooperazione tra salariati senza che lo stesso capitale, lo stesso capitalista, li impieghi nello stesso tempo, cioè comperi nello stesso tempo le loro forze-lavoro. Il valore complessivo di queste forze-lavoro, ossia il totale del salario per il giorno, la settimana, ecc. deve essere quindi riunito nella tasca del capitalista prima che quelle forze-lavoro vengano riunite nel processo produttivo.

Dunque, il numero dei lavoratori impegnati nella cooperazione, ossia la scala della cooperazione, dipende in primo luogo dalla grandezza del capitale che il capitalista singolo è in grado di sborsare per l’acquisto di forza-lavoro; cioè, dipende dalla misura nella quale ogni singolo capitalista dispone di volta in volta dei mezzi di sussistenza di molti lavoratori.

Con la cooperazione di molti lavoratori salariati il comando del capitale si evolve a esigenza della esecuzione del processo lavorativo stesso, cioè a condizione reale della produzione. Ora l’ordine del capitalista sul luogo di produzione diventa indispensabile. Ogni lavoro sociale in senso immediato, ossia ogni lavoro in comune, quando sia compiuto su scala considerevole, abbisogna, più o meno, di una direzione che procuri l’armonia delle attività individuali e compia le funzioni generali che derivano dal movimento del corpo produttivo complessivo, in quanto differente dal movimento degli organi autonomi di esso. Questa funzione di direzione, sorveglianza, coordinamento, diventa funzione del capitale appena il lavoro ad esso subordinato diventa cooperativo. La direzione del capitalista non è soltanto una funzione particolare derivante dalla natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente; ma è insieme funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale ed è quindi un portato del­l’inevitabile antagonismo tra lo sfruttatore e la materia prima da lui sfruttata. Così pure, col crescere del volume dei mezzi di produzione che il lavoratore salariato si trova davanti come proprietà altrui, cresce la necessità del controllo affinché essi vengano adoprati convenientemente.

Il lavoratore è proprietario della propria forza-lavoro finché negozia col capitalista come venditore di essa; ed egli può vendere solo quello che possiede: la sua individuale, singola forza lavorativa. Questo rapporto non viene in alcun modo cambiato per il fatto che il capitalista comperi cento forze-lavoro invece di una e invece di concludere un contratto con un singolo lavoratore lo concluda con cento lavoratori indipendenti l’uno dall’al­tro. Può impiegare i cento lavoratori senza farli cooperare. Il capitalista paga quindi il valore delle cento forze-lavoro autonome, ma non paga la forza-lavoro combinata dei cento lavoratori. Come persone indipendenti i lavoratori sono dei singoli i quali entrano in rapporto con lo stesso capitale ma non in rapporto reciproco tra loro. La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’appartenere a se stessi. Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, come membri di un organismo operante, sono essi stessi soltanto un modo particolare di esistenza del capitale. Dunque, la forza produttiva sviluppata dal lavoratore come lavoratore sociale è forza produttiva del capitale.

La forza produttiva sociale del lavoro si sviluppa gratuitamente appena i lavoratori vengono posti in certe condizioni; e il capitale li pone in quelle condizioni. Siccome la forza produttiva sociale del lavoro non costa nulla al capitale, perché d’altra parte non viene sviluppata dal lavoratore prima che il suo stesso lavoro appartenga al capitale, essa si presenta come forza produttiva posseduta dal capitale per natura, come sua forza produttiva im­manente. L’applicazione sporadica del­la cooperazione su larga scala nel mondo antico, nel medioevo e nelle colonie moderne poggia su rapporti immediati di signoria e servitù, e per la maggior parte dei casi sulla schiavitù. Invece la forma capitalistica presuppone fin da principio, il lavoratore salariato libero, il quale vende al capitale la sua forza-lavoro.

Di fronte al contadino o all’artigia­no indipendenti, non è la cooperazione capitalistica che si presenta come una forma storica particolare della cooperazione, ma è proprio la cooperazione di per sé che si presenta come una forma storica peculiare del processo di produzione capitalistico, la quale lo distingue specificamente. Come la forza produttiva sociale del lavoro sviluppata mediante la cooperazione si presenta quale forza produttiva del capitale, così la cooperazione stessa si presenta quale forma specifica del processo produttivo capitalistico, in opposizione al processo produttivo dei singoli lavoratori indipendenti o anche dei piccoli mastri artigiani. È il primo cambiamento al quale soggiace il reale processo di lavoro per il fatto della sua sottomissione al capitale. Questo cambiamento avviene in maniera naturale e spontanea.

Il suo presupposto che è l’impiego simultaneo di un numero considerevole di salariati nello stesso processo lavorativo, costituisce il punto di partenza della produzione capitalistica. E questo coincide con l’esistenza dello stesso capitale. Se quindi il modo capitalistico di produzione da una parte si presenta come necessità storica affinché il processo lavorativo si trasformi in un processo sociale, dall’al­tra parte questa forma sociale del pro­cesso lavorativo si presenta come metodo applicato dal capitale per sfruttare il processo stesso  profittevolmente mediante l’accresci­mento della sua forza produttiva.

La dispersione dei mezzi di produzione tra innumerevoli proprietari che lavorano per conto proprio, distruggendo la centralizzazione del capitale, distrugge anche ogni base del lavoro combinato. La gestione di un impianto organizzato sulla base di nuove invenzioni comporta costi molto più elevati rispetto agli impianti che successivamente sorgono sulle sue rovine: i primi imprenditori nella maggior parte dei casi falliscono e soltanto i successivi, nelle cui mani finiscono a buon mercato edifici, macchinario ecc., cominciano a prosperare. Ne consegue che in genere è la categoria più indegna e spregevole di capitalisti monetari quella che trae il maggior profitto da tutti i nuovi sviluppi del lavoro universale dello spirito umano e dalla loro applicazione sociale operata mediante il lavoro combinato.

[k.m.]

 

 

Lavoro combinato

(svuotamento della capacità lavorativa)

Nel processo di produzione del capitale il lavoro è una totalità – una combinazione di lavori – i cui singoli elementi sono l’un l’altro estranei, sicché il lavoro complessivo come totalità non è opera del singolo lavoratore, ed è opera collettiva dei diversi lavoratori solo in quanto questi sono combinati, non in quanto si comportano, l’uno rispetto all’altro, come operatori della combinazione. Nella sua combinazione questo lavoro si presenta al servizio di una volontà estranea e di una intelligenza estranea, e ne è diretto giacché ha la sua unità spirituale al di fuori di esso, tanto quanto nella sua unità materiale è subordinato all’unità oggettiva delle macchine, del capitale fisso, che come mostro animato oggettivizza il pensiero scientifico e ne è di fatto la sintesi, e non è esso come strumento a riferirsi al singolo lavoratore, ma è piuttosto il lavoratore come singola puntualità animata, come isolato accessorio vivente, a esistere in funzione sua.

Il lavoro, in quanto estrinsecazione della capacità lavorativa, in quanto sforzo, appartiene al singolo lavoratore, pur oggettivandosi nel prodotto come appartenente al capitalista; per contro la combinazione sociale, nel cui àmbito le singole forze-lavoro non agiscono che come organi particolari della forza-lavoro collettiva, non solo non appartiene a esse ma si erge loro di fronte, è loro imposta come ordinamento capitalistico. A parte la combinazione dello stesso lavoro, il carattere sociale delle condizioni di lavoro – compresa tra l’altro la loro forma in quanto macchinario e capitale fisso di qualunque tipo – appare come alcunché di assolutamente autonomo, separato nella sua esistenza dal lavoratore. Anche il carattere sociale assunto dalle condizioni della produzione – in quanto condizioni di produzione collettive del lavoro associato – appare come capitalistico, indipendente dai lavoratori.

La quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, rimane come fattore decisivo della produzione della ricchezza. Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta questa loro poderosa efficacia non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia o dall’applicazione di questa scienza alla produzione.

Il lavoro stesso, al pari del suo prodotto, è negato come lavoro del lavoratore particolare, isolato. La negazione del lavoro isolato è ora in effetti la posizione del lavoro collettivo o combinato. Ma il lavoro collettivo o combinato cosi posto — sia come attività, sia in quanto è tradotto nella forma statica dell’oggetto — è al tempo stesso posto immediatamente come qualcosa di altro dal lavoro singolo realmente esistente — sia come oggettività estranea (proprietà altrui) sia come soggettività estranea (quella del capitale). Il capitale rappresenta dunque sia il lavoro sia il suo prodotto come lavoro isolato negato e perciò come proprietà del lavoratore isolato. Esso è perciò l’esi­stenza del lavoro sociale – la sua combinazione sia come soggetto sia come oggetto – ma questa esistenza è poi tale da esistere autonomamente rispetto ai suoi momenti reali, e perciò è essa stessa una esistenza particolare accanto ad essi. Il capitale da parte sua si presenta allora come soggetto egemone e proprietario di lavoro altrui, e il suo stesso rapporto è completamente contraddittorio tanto quanto quello del lavoro salariato.

Il lavoro combinato è dunque per un duplice verso combinazione a se stante; combinazione non come relazione reciproca degli individui che lavorano insieme né come loro egemonia sulla loro particolare e isolata funzione e sullo strumento del lavoro. Se perciò il rapporto del lavoratore col prodotto del suo lavoro è un rapporto di estraneità, lo è altrettanto sia il suo rapporto col lavoro combinato come lavoro estraneo, sia il suo rapporto col suo stesso lavoro in quanto estrinsecazione vitale la quale, sì, gli appartiene, ma gli è estranea, estorta, e che per questo viene intesa da A. Smith come disagio, sacrificio ecc. La cooperazione dei lavoratori salariati è un semplice effetto del capitale che li impiega simultaneamente; la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo complessivo stanno al di fuori dei lavoratori salariati, nel capitale che li riunisce e li tiene insieme. Ai lavoratori salariati la connessione tra i loro lavori si contrappone, idealmente co­me piano, praticamente come autorità del capitalista, come, potenza d’una volontà estranea che assoggetta al proprio fine la loro attività.

I mezzi di produzione non appaiono più che come assorbitori, succhiatori, della quantità maggiore possibile di lavoro vivo; si ergono di fronte al lavoro vivo come esistenza del capitale, e a questo stadio come dominio del lavoro passato, morto, sul lavoro presente, vivo. Questo processo appare come processo dell’auto­valorizza­zione del capitale; meglio ancora, dell’immiserimento del lavoratore, che lo crea come valore a lui estraneo. Sulla base della produzione capitalistica, questa proprietà del lavoro oggettivato di trasformarsi in capitale appare come inerente in sé e per sé ai mezzi di produzione e quindi come proprietà che a essi compete in quanto cose. Non diversamente la forma sociale che il lavoro riceve dal denaro era apparsa come proprietà di una cosa. Il domino dei capitalisti sui lavoratori non appare se non come dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte ai lavoratori.

Dunque la direzione capitalistica è, quanto al contenuto, di duplice natura a causa della duplice natura del processo produttivo stesso che deve essere diretto, il quale da una parte è processo lavorativo sociale per la fabbricazione di un prodotto, dall’al­tra parte processo di valorizzazione del capitale; ma quanto alla forma è dispotica. Questo dispotismo sviluppa poi le sue forme peculiari mano a mano che la cooperazione si sviluppa su scala maggiore. Con l’aggiunta di una quantità preponderante di fanciulli e di donne al personale di lavoro combinato, le macchine spezzano la resistenza che l’operaio maschio ancora opponeva al dispotismo del capitale nella manifattura.

Una massa di lavoratori operanti insieme sotto il comando dello stesso capitale ha bisogno di dirigenti [managers] e di sorveglianti, capireparto, controllori industriali, i quali durante il processo di lavoro comandano in nome del capitale. Il lavoro di sorveglianza si consolida diventando loro funzione esclusiva. Chi tratta di economia politica, quando esamina il modo di produzione capitalistico, identifica la funzione direttiva, in quanto deriva dalla natura stessa del processo lavorativo comune, con la stessa funzione, in quanto portato del carattere capitalistico, quindi antagonistico, di questo processo. Il capitalista non è capitalista perchè dirigente industriale ma diventa comandante industriale perchè è capitalista. Il comando supremo nell’industria diventa attributo del capitale.

Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto di più di quanto potesse avvenire nel corso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale. È d’al­tra parte soltanto qui che il significato storico della produzione capitalistica appare nella sua evidenza specifica, proprio attraverso la trasformazione dello stesso processo di produzione immediato e lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro. Non solo nella “rappresentazione” ma nella “realtà”, l‘aspetto sociale, la socialità ecc. del lavoro si erge di fronte al lavoratore come elemento non soltanto estraneo ma ostile e antagonistico, apparendo oggettivato e personificato nel capitale. Quando il rapporto di dominazione e sottomissione prende il posto della schiavitù, della servitù della gleba, del vassallaggio, delle forme di subordinazione patriarcali, ecc., la sua forma si modifica, cioè diventa più libera perché è di natura puramente materiale, formalmente volontaria, meramente economica.

Le funzioni che il capitalista esercita non sono allora se non funzioni dello stesso capitale: il capitalista funziona unicamente come capitale personificato, capitale persona, in quanto personificazione del carattere sociale del lavoro, dell’operosità collettiva; allo stesso modo il lavoratore funziona come lavoro personificato, e di fronte al lavoratore tali condizioni appaiono come date, da lui indipendenti, e perciò forma del capitale. Il lavoro che per lui è pena e sforzo, per il capitalista è sostanza creatrice di ricchezza che appare come elemento incorporato al capitale nel processo di produzione, suo fattore vivente. Il dominio del capitalista sul lavoratore è quindi dominio della cosa sull’uo­mo. Questa inversione appare come punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l’inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono fornire la base materiale di una libera società umana. È il processo di alienazione del lavoro.

E qui il lavoratore si eleva fin dal­l’inizio al di sopra del capitalista, per­ché quest’ultimo è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto, mentre il lavoratore in quanto ne è vittima, è a priori con esso in un rapporto di ribellione, lo sente come processo di riduzione in schiavitù. Il capitalista come sovrintendente e direttore ha una funzione da svolgere nella vera e propria produzione; l’autova­lorizza­zione è lo scopo animatore dominante, ossessivo del capitalista, il pungolo e il contenuto assoluto del suo operare; in realtà non è altro che l’im­pulso e il fine razionalizzati del tesaurizzatore – un contenuto totalmente astratto e meschino che, da un lato, fa apparire il capitalista come sottomesso alla schiavitù del rapporto capitalistico non meno che, al polo opposto, il lavoratore.

L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro, l’impiego delle macchine, e in genere la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica, ecc, e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente (solo questo lavoro socializzato è infatti in grado di applicare i prodotti generali dell’e­volu­zione umana, a esempio le matematiche, al processo di produzione immediato, allo stesso modo d’altra parte che l’intero sviluppo di queste scienza presuppone un dato livello del processo di produzione materiale), questo incremento della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – al processo di produzione immediato, si presentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro; nel caso dato, perché essa eleva il potenziale meccanico del lavoro, o dilata nello spazio la sfera d’azione del lavoro, o contrae nello spazio, in rapporto alla scala di produzione, il campo di produzione, o  nel momento critico rende liquido molto lavoro in poco tempo, o eccita l’e­mulazione dei singoli intensificandone gli spiriti vitali, o imprime alle operazioni dello stesso genere compiute da molte persone il carattere della continuità e della multilateralità, o compie contemporaneamente operazioni differenti, o economizza i mezzi di produzione mediante l’uso in comune di essi, o conferisce al lavoro individuale il carattere di lavoro sociale medio; in ogni caso non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione.

Se cosi, da un lato, la trasformazione del processo di produzione dal processo lavorativo semplice in un processo scientifico che sottomette le forze naturali al suo servizio e le fa operare al servizio dei bisogni umani, si presenta come carattere proprio del capitale fisso di fronte al lavoro vivo; se il lavoro singolo come tale cessa in generale di presentarsi come produttivo, o piuttosto è produttivo solo nei lavori collettivi che subordinano a sé le forze della natura, e questa elevazione del lavoro immediato a lavoro sociale si presenta come riduzione del lavoro singolo a impotenza rispetto alla collettività rappresentata, concentrata nel capitale. Nella stessa misura in cui il tempo di lavoro – la mera quantità di lavoro – è posto dal capitale come unico elemento determinante, il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio determinante della produzione – della creazione di valori d’uso – e vengono ridotti sia quantitativamente a una proporzione esigua, sia qualitativamente a momento certamente indispensabile, ma subalterno, rispetto al lavoro scientifico generale, all’appli­cazione tecnologica delle scienze naturali da un lato, e rispetto alla produttività generale derivante dall’arti­colazione sociale nella produzione complessiva dall’altro: produttività generale che si presenta come dono naturale del lavoro sociale (benché sia, in realtà, prodotto storico). Il capitale lavora così alla propria dissoluzione come forma dominante della produzione.

Lo schiavo lavora unicamente sotto il pungolo della paura esterna, non per la propria esistenza, che non gli appartiene ma gli è garantita; laddove il lavoratore salariato è spinto e pungolato dai suoi bisogni. La coscienza (o meglio l’idea) di essere liberamente autodeterminato, di essere libero, e la sensazione (coscienza) di responsabilità che vi si accompagna fanno dell’uno un lavoratore molto migliore dell’altro. La continuità del rapporto tra schiavo e schiavista era assicurata dalla costrizione diretta di cui lo schiavo era vittima. Il lavoratore libero è invece costretto ad assicurarla egli stesso, perché l’esistenza sua e della sua famiglia dipende dal continuo ripetersi della vendita ai capitalisti della propria capacità lavorativa. Il capitalista deve essere proprietario o detentore di mezzi di produzione su scala sociale, quindi in una grandezza che ha perduto ogni rapporto con quanto può essere prodotto dal singolo. Il minimo di capitale è tanto maggiore quanto più la produttività sociale del lavoro vi si è sviluppata; il capitale deve assumere dimensioni sociali, spogliandosi di ogni veste individuale.

Tutto questo poggia sul fatto che i mezzi di produzione sono usati collettivamente e questo impiego collettivo ha come presupposto assoluto la cooperazione di lavoratori conglomerati. Non è quindi che l’espres­sione oggettiva del carattere sociale del lavoro e della forza produttiva sociale che ne risulta; la forma particolare di queste condizioni (a es. il macchinario) non sarebbe utilizzabile se non per il lavoro associato.

La scienza, come prodotto intellettuale generale dell’evoluzione sociale – questo prodotto dello sviluppo storico generale nella sua quintessenza astratta – appare essa stessa come direttamente incorporata al capitale, e la sua applicazione al processo di produzione materiale appare come distinta dal sapere e dalle capacità del singolo lavoratore; e lo sviluppo generale della società, di contro al lavoro, appare a sua volta come sviluppo del capitale, e ciò tanto più in quanto gli si accompagna uno svuotamento della capacità lavorativa. Questa diviene impotente, la sua forza produttiva autonoma ne è schiantata, le con­dizioni del lavoro, anche dal punto di vista tecnologico, appaiono come do­minanti il lavoro e nello stesso tempo lo sostituiscono, lo opprimono e lo rendono superfluo nelle sue forme autonome.

In realtà, l’unità collettiva nella cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle energie naturali e delle scienze, dei prodotti del lavoro come macchinario – tutto ciò si contrappone ai singoli lavoratori, in modo autonomo, come qualcosa di estraneo, di oggettivo, di preesistente; e l’intelligenza e la volontà dell’attività collettiva incarnate nel capitalista e nei suoi subalterni, nella misura in cui l’industriosità collettiva si basa sulla loro combinazione, gli si contrappongono come funzioni del capitale che nel capitalista vive. Le forme sociali di lavoro dei singoli – soggettivamente come oggettivamente – o la forma del loro proprio lavoro sociale, sono rapporti stabiliti in modo da essi del tutto indipendente.

La forza-lavoro non è una ricchezza: il lavoro produce tutte le altre ricchezze, cioè produce ricchezze per tutti eccetto se stesso; non il lavoro è ricchezza, ma soltanto il suo prodotto. La trasposizione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capitale è talmente radicata nel­l’immaginazione che i vantaggi della scienza ecc. vengono concepiti in questa loro forma alienata come loro forma necessaria, quindi visti come proprietà del capitale.

Così il capitale diventa un “essere” terribilmente misterioso. 

[k.m.]

(dal Capitale, i,11; vi ineditoinfra).

 

Lavoro improduttivo

La confusione che ancora oggi domina circa la definizione e l’importanza dell’individuazione del lavoro improduttivo è enorme. È una confusione che comincia dai riferimenti impropri che comunemente vengono fatti al contenu­to del lavoro svolto (il tipo di lavoro, il mestiere) anziché alla sua forma di re­lazione economica, che può essere diversa per un medesimo tipo di lavoro concreto; e va a finire sui giudizi morali che assai spesso, e sempre immotiva­tamente, vengono affibbiati al lavoro improduttivo come perlopiù esecrabile di contro a un lavoro produttivo chissà perché innalzato dal cattivo senso co­mune alla gloria dell’encomio sociale. Marx avvertiva che essere lavoratore produttivo, lungi dal rappresentare una fortuna, costituiva una disgrazia; che i lavoratori improduttivi potevano essere più utili alla società di tanti lavoratori produttivi costretti a applicare la loro forza-lavoro ad attività del tutto inutili se non addirittura nocive; e che gli stessi lavoratori improduttivi finiscono quasi sempre per essere sfruttati più di quelli produttivi. Se la definizione di lavoro produttivo e improduttivo, in quanto categoria analitica funzionale al concetto di modo di produzione capitalistico è coeva e immutata rispetto alla nascita di questo sistema sociale stesso, la sua impor­tanza storica, a dispetto delle elucubrazioni accademiche dei post-marxisti, è cresciuta assieme allo sviluppo della forma industriale del capitale, ossia alle macchine [<=]. Per definire e individuare l’importanza del lavoro improduttivo è necessario caratterizzarne il suo “complemento” positivo, ossia il lavoro produttivo[<=].

La questione richiede un ulteriore approfondimento specifico. Qui, per ora, ci si può limitare a definire nella maniera più generale l’attribuzione di lavoro pro­duttivo (nel senso capitalistico del termine, sia detto ora una volta per tutte) onde procedere sùbito – per negazione di ciò – alla caratterizzazione di quello che è lavoro improduttivo. In generale, cioè, basti dire questo: per essere capi­talisticamente produttivo è necessario che il lavoro sia scambiato ovvero pa­gato con capitale, ed è sufficiente che produca plusvalore [<=], nella sfera della produzione immediata. Il resto procede da sé. Una prima immediata conseguenza è che ogni lavoro che non stia nel rappor­to di capitale, ossia che non sia salariato, neppure può riferirsi alle categorie di “produttivo” o “improduttivo”. Così, chiunque non venda la propria forza-lavoro ma direttamente il risultato (prodotto, servizio o prestazione qualsivo­glia) del suo stesso lavoro (artigiano, piccolo contadino, bottegaio di famiglia o libero professionista: insomma lavoro autonomo), o addirittura non lo ven­da (lavoro domestico o di “cura”, così si suol dire, per sé e per la famiglia), sia che produca realmente un valore d’uso o si limiti a predisporne la fruizio­ne, nella forma del valore di scambio o meno – ebbene, tutta questa casistica non rientra nella rubrica qui esaminata, in quanto non attiene al modo di pro­duzione capitalistico.

Occorre tuttavia precisare sùbito che il rientrarvi o no concerne la sostanziale forma economica della relazione stessa e non quella giuridica o sociologica. Giacché, se la forma formale stabilita in via di diritto o per convenzione so­ciale chiama sempre più sovente “autonomo” un lavoro reso come attività ar­tigianale o semiartigianale, di piccola produzione e distribuzione, o di presta­zione d’opera, in una forma sostanziale sussunta realmente al capitale, ovve­rosia in un rapporto di sottomissione al capitale che si può invece configurare sostanzialmente come rapporto di lavoro salariato, in qualche modo occultato sotto forme esteriori diverse – in tutte queste circostanze l’analisi rientra ap­pieno nella rubrica del lavoro produttivo e improduttivo. Così, preliminarmente, l’intero comparto del lavoro che non sia economica­mente salariato rimane escluso sia dalla definizione di “produttivo” sia da quella di “improduttivo”. Ma non tutto il lavoro salariato è produttivo: quella si è detta essere una condizione necessaria ma non sufficiente. Tutto il lavoro produttivo ha da essere salariato, ma vi è anche una grande parte (crescente) di lavoro salariato – proletariato, perciò – che è improduttivo, entro una medesima definizione di classe [<=]. Lavoratori improduttivi sono dunque co­loro che scambiano le loro prestazioni – la loro forza-lavoro [<=] come merce – con reddito o anche con capitale, ma entro la sfera della circolazione [<=].

In primo luogo, il caso più generale ma meno specifico si ha quando l’acqui­rente di forza-lavoro non si contrappone al lavoratore come capitalista, trat­tandosi solo di consumo del reddito (privato o pubblico), che come tale rien­tra sempre nella circolazione semplice e non in quella del capitale: apparten­gono a tale figura di lavoro, anzitutto, domestici e inservienti in genere alle dipendenze di un qualsiasi redditiero privato in quanto consumatore. Si tratta di lavoratori salariati, sfruttati (il loro orario di lavoro è superiore al tempo di lavoro a essi pagato), assai spesso sfruttati anche più della media sociale, date le peculiari condizioni del loro lavoro. Ma essi non producono valori vendibili e tanto meno plusvalore, per definizione, procurando solo utilità al loro reddi­tiero. Una posizione concettualmente molto simile è quella dei dipendenti pubblici (stato, enti locali, ecc.), non a caso spesso retoricamente chiamati “fedeli ser­vitori dello stato”. Costoro sono pagati con reddito pubblico (prelevato me­diante il fiscalismo [<=] delle imposte e il debito pubblico [<=], o tasse di scopo e prezzi politici), per procu­rare utilità ai cittadini (amministrazione, istruzione, assistenza sanitaria, giu­stizia, protezione militare e quant’altro) in forma generalmente non vendibile, o fornita dietro pagamento ad hoc o al limite venduta quasi come merce ma a prezzi politici o amministrati, e comunque sempre senza plusvalore alcuno (per definizione, ancora, trattandosi di spesa di reddito e non di capitale). So­no comprese in questa rubrica anche quelle produzioni (opere pubbliche, co­me il caso della costruzione di strade) che, in diverse condizioni, rappresenta­no sicuri e lucrosi investimenti capitalistici con produzione di valore e plusva­lore. Ma in momenti storici determinati è possibile che tali attività, in via provvisoria, piuttosto che al capitale complessivo facciano riferimento a esi­genze sociali che non siano direttamente capitalistiche; quest’ultimo infatti può, per sua convenienza, delegare allo stato la creazione di infrastrutture che, pur soddisfacendo bisogni collettivi, hanno come intrinseca finalità lo sviluppo capitalistico. È facilmente comprensibile, altresì, come anche tutte queste attività salariate pubbliche rientrino nel mercato del lavoro salariato in generale e siano perciò sfruttate al pari delle altre.

In secondo luogo, tuttavia, pure quando si abbia la diretta assunzione del la­voro nel capitale, codesta condizione necessaria da sola non è sufficiente a definire “produttivo” il lavoro corrispondente, se non è in grado di produrre plusvalore. Giacché una tale circostanza deriva certamente da una semplice mutata sottomissione al capitale della forma di una funzione non produttiva – e con ciò il caso rientra propriamente nei costi di circolazione del capitale, come falsa spesa di produzione. Si tratta cioè di quelle attività che il capitali­sta originariamente farebbe da solo o pagherebbe col proprio reddito. Autono­mizzarle, pagandole con una parte del capitale proprio o facendone l’attività specifica di altri capitalisti, non ne modifica il carattere (Marx cita casi relati­vi alla contabilità, al commercio, alle banche, ecc.). Ossia, la produzione im­mediata non comprende le attività, pur pagate con capitale, inerenti la circola­zione, che dipendano solo dal carattere di merce [<=] del prodotto: è facile, da questo punto di vista, farne una classificazione per comparazione, immagi­nando quei lavori, pur assai utili e indispensabili al capitale, che non avrebbe­ro più motivo di esistere (ma sicuramente sostituiti da altri lavori storicamen­te specifici) se i prodotti circolassero come valori d’uso immediati anziché come merci. Che i lavoratori salariati nella sfera della circolazione del capitale siano sfrut­tati, non occorre dimostrarlo, al punto che proprio per questa ragione molti li confondono con i lavoratori produttivi. E neppure è concepibile, precisandolo ancora con Marx, quella figura sociale per cui “altri economisti fanno essere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo”: il lavoro che è improduttivo è escluso dalla valorizzazione complessiva del capitale, anche dopo aver considerato il “lavoratore collettivo” del lavoro sociale combinato, che comprende invece solo una più dettagliata divisione del lavoro produttivo e improduttivo di plusvalore. Considerando il pagamento del lavoro salariato improduttivo, è bene comprendere che nella sfera della circolazione, e quindi anche della riproduzione del capitale, il plusvalore non lo si produce, appunto per definizione, ma viene a costituire un limite negativo dato per la spesa del capitalista, il quale fa di tutto per risparmiare al massimo sul salario [<=]  (esten­dendo e intensificando il più possibile l’uso della forza-lavoro) al fine di con­servare per sé la maggiore quantità possibile di quel plusvalore già prodotto: perciò il grado di sfruttamento del lavoro improduttivo, pur non creando esso plusvalore, può di norma essere perfino più alto di quello produttivo.

Tutto ciò che precede non significa escludere qualche influenza del lavoro improduttivo sull’intero sistema produttivo, perché per poter far ciò occorre prescindere momentaneamente dai livelli della produzione e dalle proporzioni tra i settori: infatti, il lavoro improduttivo può essere contingentemente il tramite per far fronte a una crisi [<=] da sovraproduzione di valore o a una riduzione sensibile dell’esercito di ri­serva [<=], o lo stesso lavoro produttivo può essere impiegato nella produzione di merci di lusso. Ma “se una parte sproporzionata fosse così riprodotta, invece di essere ritrasformata in mezzi di produzione e in mezzi di sussistenza, lo sviluppo della ricchezza subirebbe un colpo d’arresto”. Gli effetti del lavoro produttivo nella produzione di merci di lusso, così come quelli dei costi di circolazione e del lavoro improduttivo, anche se isolati artificiosamente dal processo imme­diato di produzione, si ripresenterebbero nel processo complessivo di ripro­duzione e di circolazione per le conseguenze indirette dovute a una dilatazio­ne sproporzionata del lavoro improduttivo o anche di quello produttivo ma non riproduttivo. Ma le categorie che presiedono all’individuazione dei criteri di definizione di lavoro produttivo e improdutti­vo non muterebbero affatto.

La rivoluzione dell’automazione del controllo ripropone l’attualità della di­stinzione tra lavoro produttivo e improduttivo nella produzione e nella circo­lazione. Con le strutture organizzative e tecniche del lavoro informatizzato si sviluppa contraddittoriamente un processo di tendenziale omogeneizzazione sociale del lavoro, in una forma di rapporti materiali di produzione sempre più uguali tra loro, e dunque tendenzialmente universali. Tale fenomeno inve­ste sia il lavoro produttivo sia quello improduttivo. Le diverse mansioni di uno stesso lavoratore esibiscono un’alternanza di lavoro produttivo e impro­duttivo, senza per questo cambiare forma. Ciò contiene una precisa indicazio­ne sui caratteri da indagare per comprendere la nuova composizione di classe [<=]. Alla proletarizzazione delle classi [<=] corrisponde la sintesi corporativa dello sta­to liberale. La riproduzione delle classi sociali, in direzione di un progressivo ampliamento della proletarizzazione verso i settori di lavoro improduttivo, segna così una linea di demarcazione tra nazioni [<=] e stati nazionali più sviluppati e quelli da dominare. La complementare apparente “sparizione della classe ope­raia” – che tanto scompiglio ha gettato nei rielaboratori delle soggettività rivo­luzionarie – si spiega così essere il prodotto di una nuova divisione internazio­nale del lavoro, cui è collegata funzionalmente l’immissione della tecnologia più avanzata. Il proletariato mondiale come classe in sé è ben lontano dalla sua estinzione, presentando al contrario caratteri sempre più diffusi e omogenei. Lo sviluppo di nuove figure lavorative connesse alla seconda rivoluzione industriale si in­serisce compiutamente nella ridefinizione del proletariato in rapporto alle al­tre classi sociali. Entro tali classi si annida il germe della contraddizione dello sviluppo della scienza, del sapere collettivo (l’intelletto generale) espropriato. La rinnovata attualità del nesso tra lavoro produttivo e improduttivo è capace di gettare luce sulla percezione della dinamica sociale del processo produtti­vo.

[c.f.-gf.p.]

 

 

Lavoro produttivo

Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica, è il lavoro salaria­to che, nello scambio con la parte variabile del capitale (la parte del capitale spesa in salario), non solo riproduce questa parte del capitale (ovvero il valore della propria capacità lavorativa), ma oltre a ciò produce plusvalore [<=] per il ca­pitalista. Solo per questa via la merce [<=], o il denaro, è trasformata in capitale, è prodotta come capitale. È produttivo solo il lavoro salariato che produce ca­pitale. Il rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo [<=] , e la definizione stessa di questa partizione del lavoro capitalistico, costituisce un punto la cui preci­sazione va ora completata. Si possono riassumere così i punti salienti per la corretta individuazione del lavoro produttivo nel capita­lismo, scoperti scientificamente da Marx. È necessario chiarire alcuni punti. Anzitutto, si è detto, è produttivo capitalisticamente solo quel lavoro che pro­duce plusvalore; non è più sufficiente, cioè, ma è ancora necessaria, la condi­zione smithiana di produttività materiale. Viene così precisato che in ogni ca­so esso deve essere produttivo di nuovo valore e di nuovo valore d’uso; ciò discende dalla duplicità della merce, ed esclude perciò le “false spese di pro­duzione”, relative alla circolazione [<=]. Va sottolineato quindi che il lavoro produttivo è sempre lavoro salariato pa­gato con capitale, ma avvertendo al contempo che ciò non basta ancora, non essendo vero che ogni lavoro salariato pagato con capitale sia produttivo di plusvalore, anche se fa guadagnare profitto al capitalista che lo paga.

Marx riassume così le condizioni suddette, indicando di verificare che vi sia:

1) il rapporto reciproco tra denaro e forza-lavoro in quanto merci, l’acquisto e la vendita tra il possessore del denaro e il possessore della forza-lavoro;

2) la diretta assunzione del lavoro nel capitale;

3) la trasformazione reale del lavoro in capitale nel processo di produzione o, ciò che è lo stesso, la creazione di plusvalore per il capitale.

Dunque il lavoro, che è l’unica fonte attiva del valore d’uso, si trasforma dap­prima in lavoro astratto (ossia, lavoro che la società riconosce in quanto pro­duttore generico di valori merci, indipendentemente dalla concretezza imme­diata della sua utilità) e quindi, come lavoro salariato (alienato, ossia, in quanto venduto al capitale, separato, reso altro dall’unità con la persona), si trasforma infine in nuovo capitale per produrre plusvalore. Solo se si verifica quest’ultima circostanza, si può dare la seguente definizio­ne (anche senza pretesa di assoluta precisione): il lavoro produttivo è pagato con quel capitale che si autovalorizza complessivamente – cioè, è quel lavoro trasformato in capitale, nella sola sfera “materiale” della produzione imme­diata, necessario alla riproduzione di neovalore. Insieme alla definizione, oc­corrono alcune precisazioni.

La materialità della produzione non va intesa esclusivamente come materiali­tà “tangibile” del prodotto, riguardando piuttosto la forma ineliminabile di va­lore d’uso, di “ricchezza” sociale che essa assume. Certo, la tangibilità, la concretezza fisica, riguarda ancora e sempre la parte di gran lunga più grande della produzione mondiale. Ma una porzione significativa di essa può anche essere fruibile in forma non separabile dall’attività lavorativa stessa o in for­ma intangibile, come è da oltre un secolo per l’elettricità o adesso per i flussi informatici: il che non ha nulla a che vedere con la presunta “immaterialità” della produzione, su cui cyber-navigano i virtuosi della virtualità postmoder­na. La materialità stessa, non dipendendo dalle particolari qualità “fisiche” del prodotto, dipende piuttosto dall’universalità (riproducibilità pressoché illimi­tata) del valore d’uso prodotto in quanto merce (o capitale). Dunque, solo dal­la forma specifica del rapporto sociale del capitale col lavoro salariato dipen­de il carattere produttivo o meno di quest’ultimo.

La produzione immediata di ricchezza sociale in forma di merce capitalistica, ossia qualsiasi attività di trasformazione industriale, agricola, ecc., compren­de anche valori d’uso che, indipendentemente dalla loro qualità particolare o destinazione, possono essere in parte inclusi tra i prodotti non fondamentali, consumi di lusso, ecc. Tale quota della produzione sociale, che contiene e porta plusvalore, quindi, anche se fosse considerata inutile o nociva dai più, non limita il lavoro produttivo al solo àmbito della riproduzione o accumula­zione. Si è già accennato, tuttavia, che la produzione immediata non comprende le attività, pur pagate con capitale perché assai utili per esso, inerenti la circola­zione, le quali sparirebbero in un altro modo di produzione. Ossia, in questo sistema, capitalistico, esse dipendono solo dal carattere di merce che l’intera produzione sociale assume, e che proprio grazie a quelle attività di circolazio­ne – che procurano profitto ai capitalisti particolari che le esercitano, in nome e per conto dell’intera loro classe – raggiunge il suo scopo. Marx, a tale pro­posito, cita i casi relativi alla contabilità, al commercio, alle banche, ecc.

Del resto, la produzione di neovalore, in quanto immediata, può includere an­che modalità particolari e trasmutate di produzione di merci per la valorizza­zione del capitale complessivo. Tali merci, infatti, potrebbero essere vendute da qualche singolo peculiare “capitale” senza profitto. Senonché quest’ultimo fenomeno si riferisce solo alla fase della circolazione e dei prezzi, e non a quella della produzione di valore e plusvalore. Esso può riguardare, per fare un esempio, quelle merci prodotte da “capitale pubblico” alle quali vengono imposti prezzi politici, per poter trasferire così il plusvalore in esse contenuto ai capitalisti loro acquirenti: il lavoro produttivo con il quale sono state ottenute si trasforma così in profitto non per il “capita­le” che ha prodotto tali merci, ma solo per il capitale che le ha acquistate. Il lavoro salariato, impiegato a tali fini, è quindi comunque produttivo di plusva­lore – di quel plusvalore ripartito complessivamente entro la classe capitalisti­ca – anche se meno visibile perché non si trasforma in profitto immediato.

Restano escluse, invece, quelle produzioni che non sono direttamente sotto­messe al capitale in quanto, provvisoriamente, fanno riferimento a esigenze sociali legate a momenti storici determinati. È classico l’esempio della costru­zione di strade statali, ricordato da Marx, come di ogni altra opera pubblica del medesimo genere. Il capitale, infatti, per sua convenienza, può delegare allo stato la creazione di infrastrutture che, pur soddisfacendo bisogni colletti­vi, hanno come intrinseca finalità lo sviluppo delle condizioni generali della produzione capitalistica. Occorre qui rammentare ancora una volta, sempre con Marx, che non è neppure concepibile quella figura sociale per cui “altri economisti fanno es­sere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo”.  Se il lavoro è improduttivo, perché escluso dalla valorizzazione complessiva del capitale e dedicato solo alla circolazione, rimane tale anche dopo aver considerato il “lavoratore collettivo” del lavoro sociale combinato. Semmai è proprio entro quest’ultimo che si può comprendere una più dettagliata divisio­ne del lavoro produttivo. È con lo sviluppo del mercato mondiale e della forma finanziaria dell’impe­rialismo [<=], in cui agisce la borghesia transnazionale costituita come classe, che l’estendersi della sfera della circolazione internazionale aggiunge ulteriore e piena validità attuale, per chi l’avesse dimenticata, alle determinazioni di la­voro produttivo e improduttivo (di plusvalore) entro il proletariato mondiale. Più matura è la fase monopolistica, più esigua percentualmente e differenziata territorialmente di­viene la classe produttiva, affiancata invece da un aumento relativo e da una diversa dislocazione di lavoratori “improduttivi” (magari sotto l’anodina e spuria etichetta di terziarizzazione, quale intermediazione finanziaria, com­merciale e statale).

L’entità e la qualità delle trasformazioni introdotte dal processo informatico di produzione e circolazione sono tali da mutare le basi stesse della composi­zione internazionale del proletariato, di un lavoro sociale universale – sia pro­duttivo, sia improduttivo – non più facilmente e immediatamente rintracciabi­le nel simbolo del lavoro “operaio di massa”. Ma la progressiva atomizzazione dei luoghi e dei momenti produttivi, rispetto all’organizzazione della grande fabbrica, da Ure a Taylor, non vuol dire affatto (come pretendono i fautori della tesi del “postfordismo”) che sia venuta meno la centralità della produ­zione di massa, su larga scala, con un mutamento dell’essenza fondamentale della forma industriale del capitale, o addirittura con il deperimento del modo di produzione capitalistico stesso. È in tale contesto contraddittorio che si svi­luppa un processo di tendenziale omogeneizzazione sociale del lavoro, fenome­no che investe sia il lavoro produttivo sia quello improduttivo. Le possibili diverse mansioni di uno stesso lavoratore salariato esibiscono un’alternanza di lavoro produttivo e improduttivo, senza per questo cambiare procedura. Si è già ripetutamente sostenuto come ciò contenga una precisa indicazione sui caratteri da indagare per comprende­re la nuova composizione di classe [<=].

Così, prima di aver dato l’“addio al proletariato” e al lavoro salariato, gli ideo­logi del nuovismo avevano già fatto cadere con noncuranza anche la diverse determinazioni di lavoro produttivo e improduttivo. Noncuranti di cosa sia il lavoro salariato (in quanto lavoro dipendente dal comando del capitale come forma del rapporto sociale dominante, dunque caratteristico anche del lavoro prestato per lo stato – del capitale appunto), volutamente ignorano quale deb­ba essere la distinzione e la proporzione tra lavoro produttivo e improduttivo, tra produzione e circolazione, sotto le leggi del capitale e del suo plusvalore. Di conseguenza, implicitamente il nuovismo simula un linguaggio [<=] e dei con­cetti pertinenti solo ad un modo di produzione, inconfessabilmente fuori da quello capitalistico. Al contrario vanno ancòra ripetute, con Marx, due cose: anzi­tutto che essere lavoratore produttivo non è affatto una fortuna ma per il sin­golo può rappresentare una disgrazia, in quanto condanna alla creazione di plusvalore; in secondo luogo e conseguentemente, l’essere lavoratore impro­duttivo non costituisce né una colpa né un motivo di vergogna e neppure di abbassamento del riconoscimento sociale. È dunque nel solo “mondo ideale dei valori”, della loro produzione immediata come merci, che si può e si deve prescindere dal lavoro improduttivo. Quando si tratta della produzione capitalistica di merci, ossia produzione con plusva­lore, si circoscrive l’analisi sempre al solo lavoro produttivo, l’unico che ri­sulta immediatamente rilevante per la spiegazione scientifica dei nessi profondi del modo di produzione capitalistico. Non deve stupire, pertanto, che stimabili critici assoluti della teoria del valore e del plusvalore, anche quando, o proprio perché, si richiamino fortuitamente alla tradizione economica classica, attraverso la reinterpretazione sraffiana, ben più pesantemente influenzata dalla logica keynesiana, lascino cadere la distinzione proficua tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.

[c.f.]

 

 

Libera concorrenza

La concorrenza, poiché si presenta storicamente come dissoluzione di obbli­ghi corporativi, disposizioni governative, dazî interni e simili nell’àmbito di un paese, e come soppressione di barriere, proibizioni o protezioni sul merca­to mondiale – e insomma si presenta, storicamente, come negazione di limiti e ostacoli propri dei livelli di produzione che precedono il capitale; poiché sto­ricamente è stata definita del tutto giustamente e caldeggiata dai fisiocratici come laissez faire, laissez passer, essa non è stata mai considerata anche da questo lato puramente negativo, da questo suo lato puramente storico, e d’al­tra parte è stata ancor più scioccamente considerata come collisione degli in­dividui emancipati, determinati soltanto dai loro interessi egoistici – come at­trazione e repulsione degli individui liberi nella loro relazione reciproca, e quindi come la forma assoluta di esistenza della libera individualità nella sfe­ra della produzione e dello scambio. Niente di più falso. Se la libera concorrenza ha dissolto gli ostacoli dei prece­denti modi e rapporti di produzione, occorre d’altra parte anzitutto considera­re che quelli che per essa sono ostacoli, per i precedenti modi di produzione furono limiti immanenti, entro i quali essi si svilupparono e si mossero natu­ralmente.

Questi limiti diventano ostacoli solo dopo che le forze produttive e i rapporti di traffico si sono sviluppati in maniera sufficiente da consentire al capitale [<=] come tale di cominciare a presentarsi come principio regolatore della produ­zione. I limiti che esso ha abbattuto costituivano degli ostacoli per il suo mo­vimento, sviluppo e realizzazione. Con ciò esso non soppresse né tutti i limiti né tutti gli ostacoli; bensì solo quei limiti a esso non corrispondenti, che per esso costituivano ostacoli. Nell’àmbito dei propri limiti – per quanto da un punto di vista superiore essi appaiano come ostacoli alla produzione e come tali vengano posti dal suo stesso sviluppo storico – esso si sente libero, senza ostacoli, limitato soltanto da se stesso e dalle sue stesse condizioni di vita: proprio come l’industria cor­porativa all’epoca della sua fioritura trovò nell’organizzazione corporativa tutta la libertà di cui aveva bisogno, ossia i suoi corrispondenti rapporti di produzione. Essa stessa anzi li generò dal suo grembo e li sviluppò come sue condizioni immanenti, non dunque come ostacoli esterni e restrittivi.

Il lato storico della negazione del sistema corporativo [<=] ecc. da parte del capita­le mediante la libera concorrenza, non significa nient’altro che il capitale, di­venuto sufficientemente forte, col sistema di relazioni e di traffico corrispon­dente ha abbattuto gli ostacoli storici che impacciavano e ostacolavano il mo­vimento che gli è adeguato. Ma la concorrenza è ben lungi dall’avere solo questo significato storico o dall’essere soltanto questo momento negativo. La libera concorrenza è la relazione del capitale con se stesso in quanto altro ca­pitale, ossia la condizione reale del capitale in quanto capitale (i capitati molteplici [<=]) . Le leggi inter­ne del capitale – che nei primi livelli storici del suo sviluppo si presentano come semplici tendenze – innanzitutto vengono poste come leggi; la produ­zione basata sul capitale si pone nelle sue forme adeguate solo in quanto e nella misura in cui si sviluppa la libera concorrenza, giacché questa è il libero sviluppo del modo di produzione basato sul capitale; il libero sviluppo delle sue condizioni e di esso in quanto processo di riproduzione costante di queste condizioni. Nella libera concorrenza non sono gli individui, ma è il capitale a esser posto come libero.

Fin quando la produzione fondata sul capitale è la forma necessaria e perciò più adeguata per lo sviluppo della forza produttiva sociale, il movimento de­gli individui nell’àmbito delle pure condizioni del capitale si presenta come loro libertà; la quale però poi viene anche dogmaticamente assicurata, in quanto tale, da una costante riflessione sugli ostacoli abbattuti dalla libera concorrenza. La libera concorrenza è lo sviluppo reale del capitale. Essa pone come necessità esterna per il singolo capitale ciò che corrisponde alla natura del capitale, al modo di produzione basato sul capitale, al concetto di capitale. La coercizione reciproca che in essa esercitano i capitali, l’uno sull’altro, sul lavoro ecc. (la concorrenza reciproca tra i lavoratori non è che una forma di­versa della concorrenza tra i capitali), è il libero e al tempo stesso reale svi­luppo della ricchezza in quanto capitale. Ciò è tanto vero che i più profondi pensatori dell’economia, come p.es. Ricardo, presuppongono il dominio asso­luto della libera concorrenza per poter adeguatamente studiare e formulare le leggi del capitale – le quali si presentano nello stesso tempo come le tendenze vitali che lo dominano.

Ma la libera concorrenza è la forma adeguata del processo produttivo del ca­pitale. Quanto più essa è sviluppata, tanto più pure risultano le forme del mo­vimento del capitale. Ciò che con questo Ricardo, per esempio, ha ammesso, malgré lui, è la natura storica del capitale e il carattere limitato della libera concorrenza, la quale appunto non è altro che il libero movimento dei capitali, ossia il loro movimento nell’àmbito di condizioni che non appartengono a precedenti livelli dissolti, ma sono piuttosto condizioni proprie del capitale. Il dominio del capitale è il presupposto della libera concorrenza, proprio come il dispotismo imperiale romano fu il presupposto del libero “diritto [<=] privato” ro­mano. Finché il capitale è debole, esso si aggrappa alle grucce dei modi di produzione tramontati o che tramontano al suo apparire. Ma non appena si sente forte, esso getta via le grucce e si muove secondo le sue proprie leggi.

Non appena comincia ad avere la sensazione e consapevolezza di essere esso stesso un ostacolo allo sviluppo, sùbito cerca scampo verso forme le quali, mentre dànno l’illusione di perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano al tempo stesso la dissoluzione sua e del modo di produzione che su esso fondato. Ciò che è implicito nella natura del capitale viene solo reso realmente esplicito, come una necessità esterna: attra­verso la concorrenza, che non è altro se non che i molti capitali si impongono reciprocamente e impongono a se stessi le determinazioni immanenti del capi­tale. Nessuna categoria dell’economia borghese, neppure la prima, a es. la de­terminazione del valore, diviene perciò reale se non attraverso la libera con­correnza – ossia attraverso il processo reale del capitale, che si presenta come azione reciproca dei capitali e di tutti gli altri rapporti di produzione e di traf­fico determinati dal capitale. Di qui, d’altra parte, l’insulsaggine di considerare la libera concorrenza quale ultimo sviluppo della libertà [<=] umana, e la negazione della libera concorrenza quale negazione della libertà individuale e della produzione sociale basata sulla libertà individuale. Si tratta appunto soltanto del libero sviluppo su una base limitata – sulla base del dominio del capitale. Questo genere di libertà individuale è perciò al tempo stesso la più completa soppressione di ogni li­bertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità a condi­zioni sociali che assumono la forma di potenze oggettive, anzi di oggetti stra­potenti – la forma di cose indipendenti dagli stessi individui e dalle loro rela­zioni.

L’analisi di ciò che la libera concorrenza è realmente, costituisce l’uni­ca risposta razionale ai profeti della middle class (classi [<=] medie) che la esaltano e ai socialisti che la demonizzano. Quando si dice che nel­l’àmbito della libera concorrenza gli individui, perseguendo il loro puro interesse privato, realizzano l’inte­resse comune o piuttosto generale, si dice soltanto che essi si premono reciproca­mente entro le condizioni della produzione capitalistica, e che perciò il loro stesso urto reciproco non è altro che la riproduzione delle condizioni entro le quali si verifica questa interazione. Del resto, non appena svanisce l’illusione della concorrenza quale presunta forma assoluta della libera individualità, si ha la prova che le condizioni della concorrenza, ossia della produzione basata sul capitale, vengono già percepite e intese come ostacoli, e quindi già lo so­no e lo diventano sempre più. L’asserzione che la libera concorrenza equivale all’ultima forma di sviluppo delle forze produttive e quindi della libertà uma­na, non significa altro se non che il dominio della middle class è la fine della storia mondiale – un’idea senza dubbio allettante per i parvenus dell’altro ieri.

[k.m.]

 

 

Liberismo

Grigio su grigio, ecco l’unico colore autorizzato della libertà [<=]. Non pretendete che la rosa abbia lo stesso profumo della viola, eppure la cosa più ricca di tut­te, lo spirito, dovrebbe esistere sotto un’unica forma! Sono un umorista, ma la legge mi prescrive di scrivere in tono serio. Sono audace, ma la legge coman­da che il mio stile sia moderato. La “moderazione”: solo il vile è moderato, dice Gœthe; volete fare dello spirito un vile di tal sorta? [Non è prerogativa peculiare del neoliberismo [<=] ridurre a unico il pensiero e lo spirito].

Libertà! Poiché compratore e venditore d’una merce, a es. della forza-lavoro, sono determinati solo dalla libera volontà. Stipulano il loro contratto come li­bere persone, giuridicamente pari. Il contratto [<=] è il risultato finale nel quale le loro volontà si dànno un’espressione giuridica comune. Poiché ognuno dei due ha a che fare solo con se stesso. L’unico potere che li mette l’uno accanto all’altro e che li mette in rapporto è quello del proprio utile, del loro vantag­gio particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognu­no si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro, tutti portano a compimento, per una armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici di una provvidenza onniscaltra, solo l’opera del loro reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell’interesse generale. [Che la provvidenza onniscaltra sia lo spirito del mer­cato [<=], o che sia lo stato chiamato a portare a compimento l’interesse generale, il benessere e il bene comune, la sostanza prestabilita delle cose non cambia]. L’antico possessore del denaro va avanti come capitalista, il possessore di forza-lavoro lo segue come suo lavoratore. Da qui il liberoscambista vulgaris prende a prestito concezioni, concetti e norme per il suo giudizio sulla società del capitale e del lavoro salariato.

Il problema dell’influsso che la completa liberazione del commercio avrà sul­la situazione della classe operaia è di facilissima soluzione. Non è neppure un problema. Se nell’economia politica c’è una cosa esposta con chiarezza, è la sorte che attende la classe operaia sotto il dominio del libero scambio. Tutte le leggi esposte in proposito nelle opere classiche dell’economia politica sono rigorosamente giuste – alla sola condizione che il commercio sia liberato da tut­ti i vincoli, che la concorrenza sia assolutamente libera, non solo in un paese, ma su tutta la faccia della terra. Queste leggi, sviluppate da Smith e Ricardo – le leggi che determinano la produzione e la distribuzione della ricchezza – di­ventano più giuste, più esatte, e cessano di essere mere astrazioni [<=] nella misura in cui si attua il libero scambio. Essi hanno perfettamente ragione a seguire questo metodo: infatti non costrui­scono astrazioni arbitrarie ma si limitano ad escludere dalle loro argomenta­zioni una serie di circostanze accidentali. Così, si può dire giustamente che gli economisti – Ricardo e altri – sanno più della società come sarà che della so­cietà com’è. Sanno più del futuro che del presente. Se volete leggere il libro del futuro, aprite Smith e Ricardo. Vi troverete descritta con la massima chia­rezza possibile la situazione che attende la classe operaia sotto il dominio del perfetto libero scambio.

Qual è, economicamente parlando, il prezzo naturale, normale, del lavoro di un lavoratore? Risponde Ricardo: “Il salario ridotto al minimo: il suo limite più basso”. Il lavoro è una merce [<=] come qualsiasi altra. Questa legge, secondo cui il livello minimo del salario [<=] è il prezzo naturale della merce forza-lavoro [<=], si realizzerà di pari passo con la previsione di Ri­cardo, secondo cui il libero scambio diventerà una realtà. Così bisogna scegliere: o si deve ripudiare tutta l’economia politica quale ora esiste, o si deve ammettere che nella libertà di commercio le leggi dell’econo­mia politica saranno applicate alla classe lavoratrice in tutta la loro durezza. Mediante il libero scambio tutte le leggi economiche, con le loro più sorpren­denti contraddizioni, agiranno su più vasta scala, su un territorio più esteso, su tutta la terra. Il dottor Bowring ha conferito a questi argomenti una consacra­zione religiosa, esclamando in un pubblico comizio: “Gesù Cristo è il libero scambio; il libero scambio è Gesù Cristo!”. 

[k.m.]

(cfr. La censura in Prussia; Il Capitale, I.4; Il libero scambio e la classe ope­raia)

 

 

Libertà

(denaro)

Il possesso del denaro mi pone rispetto alla ricchezza (sociale) nell’identico rapporto in cui mi porrebbe la pietra filosofale rispetto alle scienze. Il denaro è non soltanto un oggetto della brama di arricchimento, ma ne è l’oggetto in assoluto. Essa è essenzialmente auri sacra fames. La sensualità nella sua for­ma generale e l’avarizia sono le due forme particolari dell’avidità di denaro. Una sensualità astratta presuppone un oggetto che contenga la possibilità di tutti i godimenti: il denaro la realizza nella sua determinazione di rappresen­tante materiale della ricchezza. Per trattenere il denaro in quanto tale, l’ava­rizia deve sacrificare e rinunciare a ogni rapporto con oggetti di bisogni parti­colari. La brama di arricchimento in quanto tale come particolare forma di appetito, differente cioè dalla brama di una ricchezza particolare, come per esempio vestiti, armi, gioielli, donne, vino, ecc., è possibile soltanto quando la ricchezza generale, la ricchezza in quanto tale, è individualizzata in un og­getto particolare. Il denaro quindi è non soltanto l’oggetto, ma nello stesso tempo la fonte della brama di arricchimento. La brama di avere è possibile anche senza denaro. La brama di arricchimento è invece già il prodotto di un determinato sviluppo sociale, non è qualcosa di naturale in opposizione a storico. Di qui il lamento degli antichi, sul denaro come fonte di ogni male. L’avidità di denaro o la brama di arricchimento rappresentano necessariamente il tramonto delle anti­che comunità. Ciò che ogni singolo individuo possiede nel denaro, è una generica possibilità di scambio, mediante la quale egli può stabilire a suo piacimento e in pieno diritto la sua partecipazione ai prodotti sociali. Ciascun individuo possiede il potere sociale nella sua tasca sotto forma di una cosa. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone.

I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività [<= #1] umana si sviluppa soltanto in un àm­bito ristretto e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipen­denza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali di bi­sogni universali e di universali capacità. Senza il denaro dunque non è possi­bile sviluppo industriale alcuno. I legàmi devono essere organizzati su base politica, religiosa ecc., fin quando il potere del denaro non è diventato il ne­xus rerum et hominum. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si pre­senta a essi stessi estraneo, indipendente come una cosa. Nel valore di scam­bio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose, la capacità personale, in una capacità delle cose: il denaro – e perciò, d’altra parte, anche la forma materializzata della ricchezza rispetto a tutte le sostanze particolari di cui essa consiste. La ricchezza (valore di scambio tanto come to­talità che come astrazione), a differenza di tutte le altre merci, esiste dunque come tale soltanto individualizzata, nell’oro e nell’argento, come un singolo oggetto tangibile.

Il denaro e perciò il dio tra le merci. Nei rapporti di denaro, nel sistema di scambio sviluppato (e questa parvenza seduce la democrazia [<=]) i vincoli di di­pendenza personale, le differenze di sangue, di istruzione [<=] ecc., in effetti sono saltati sono spezzati (i vincoli personali si presentano per lo meno tutti come rapporti tra persone); e gli individui sembrano entrare in un contatto recipro­co libero e indipendente (questa indipendenza che in se stessa è soltanto e an­drebbe detta più esattamente indifferenza) e scambiare in questa libertà; ma tali essi sembrano soltanto a chi astrae dalle condizioni, dalle condizioni di esistenza nelle quali questi individui entrano in contatto (ove queste condizio­ni sono a loro volta indipendenti dagli individui, e sebbene prodotte dalla so­cietà, si presentano per così dire come condizioni di natura ossia incontrolla­bili da parte degli individui). Questi rapporti esterni, non che essere una ri­mozione dei “rapporti di dipendenza”, ne sono anzi soltanto la risoluzione in una forma generale; sono anzi l’elaborazione del principio generale dei rap­porti di dipendenza personali. In termini più compìti si dice: l’universale rap­porto di utilità e di utilizzabilità. Shakespeare ha perfettamente intuìto la natu­ra del denaro, che è di rendere omogeneo tutto ciò che è eterogeneo. Dal punto di vista ideologico l’errore era tanto più facile da commettere in quanto quel dominio dei rapporti (quella dipendenza materiale, che del resto si rovescia di nuovo in determinati rapporti di dipendenza personali, solo spo­gliati di ogni illusione) si presenta come dominio di idee nella stessa coscien­za [<=] degli individui, e la fede nell’eternità di queste idee, cioè di quei rapporti di dipendenza materiali, viene naturalmente consolidata, nutrita, inculcata in ogni modo dalle classi [<=] dominanti.

Ciascuno dei soggetti è un individuo che scambia, ciascuno cioè ha con l’altro la medesima relazione sociale che questi ha con lui. Come soggetti dello scambio dunque la loro relazione e quella di uguaglianza. È impossibile scor­gere una qualsiasi differenza oppure antitesi tra di loro, e nemmeno una di­versità. I soggetti sono l’uno per l’altro nello scambio solo mediante gli equi­valenti, sono equivalenti e si confermano come tali mediante lo scambio dell’oggettività, in cui l’uno è per l’altro. Poiché sono l’uno per l’altro solo come equivalenti, possessori di equivalenti che confermano questa equivalen­za nell’atto dello scambio, essi sono, come equivalenti, nello stesso tempo in­differenti l’uno all’altro; la loro ulteriore differenza individuale non li riguar­da affatto; essi sono indifferenti a tutte le loro ulteriori particolarità individua­li. Ciascuno serve l’altro nel servire se stesso; ciascuno si serve reciproca­mente dell’altro come suo mezzo.

Nella coscienza di entrambi gli individui c’è dunque la consapevolezza: 1) che ciascuno raggiunge il suo scopo solo in quanto serve all’altro come mez­zo; 2) che ciascuno diventa mezzo per l’altro (essere per un altro) solo in quanto scopo a se stesso (essere per sé); 3) che la reciprocità, per la quale cia­scuno è nello stesso tempo mezzo e scopo, e cioè raggiunge il suo scopo solo in quanto diventa mezzo, e diventa mezzo solo in quanto si pone come scopo a se stesso, sicché ciascuno si pone come essere per un altro in quanto è esse­re per sé, e l’altro si pone come essere per lui in quanto è essere per sé – che questa reciprocità, dicevamo, è un fatto necessario, presupposto come condi­zione naturale dello scambio, ma che in quanto tale essa è indifferente a cia­scuno dei due soggetti dello scambio, e per ciascuno di essi ha interesse solo in quanto soddisfa il suo interesse a esclusione di quello dell’altro, senza rap­porto con esso. Il che vuol dire che l’interesse comune, che figura come moti­vo dell’intero atto, è, sì, riconosciuto come fatto da entrambi i lati, ma come tale non è motivo, bensì procede per cosi dire alle spalle degli interessi parti­colari riflessi in se stessi, alle spalle del singolo interesse dell’uno in antitesi a quello dell’altro.

Con ciò è posta allora la piena libertà dell’individuo: transazione volontaria, niente violenza da entrambe le parti; posizione di sé come mezzo, o, in questa funzione di servizio, come mezzo soltanto per porsi come scopo a se stesso, come individuo sovrano ed egemone: infine, l’interesse egoistico, che non ne realizza alcun altro superiore; l’altro è anch’esso riconosciuto e saputo come colui che realizza ugualmente il suo interesse egoistico, sicché entrambi san­no che l’interesse comune è riposto appunto soltanto nella bilateralità, nella multilateralità, è nel rendersi autonomi dai diversi lati, è lo scambio dell’inte­resse egoistico. L’interesse generale è appunto la generalità degli interessi egoistici. Se dunque la forma economica, lo scambio, pone da tutti i lati l’u­guaglianza dei soggetti, il contenuto, la materia, sia individuale sia oggettiva, che spinge allo scambio, pone la loro libertà. Non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettati nello scambio basato sui valori di scambio, ma lo scambio di valori di scambio è anzi la base pro­duttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà. Come idee pure esse ne sono sol­tanto le espressioni idealizzate; e in quanto si sviluppano in rapporti giuridici, politici e sociali, esse sono soltanto questa base a una diversa potenza. E del resto la storia lo conferma. L’uguaglianza e la libertà in questa estensione so­no l’esatto contrario dell’uguaglianza e la libertà antiche, le quali appunto non avevano come base il valore di scambio sviluppato, ma anzi crollano con lo sviluppo di quest’ultimo.

È esatto dunque dire che il rapporto degli individui che scambiano, dal lato dei motivi, di quelli cioè naturali che esulano dal processo economico, poggia anche su di una certa costrizione; ma questa costrizione è, per un verso, sol­tanto l’indifferenza dell’altro per il mio bisogno in quanto tale, per la mia in­dividualità naturale, e dunque la sua uguaglianza con me e la sua libertà, la quale però è altresì il presupposto della mia; per l’altro verso, finché io sono determinato, forzato dai miei bisogni, è soltanto la mia natura, che è un insie­me di bisogni e di impulsi, a farmi violenza, e non qualcosa di estraneo (o il mio interesse posto in forma generale, riflessa). Ma è anche questo, appunto, il lato attraverso cui io costringo l’altro spingendolo nel sistema dello scambio. Poiché soltanto il denaro e la realizzazione del valore di scambio, e il sistema dei valori di scambio si è realizzato in presenza di uno sviluppato sistema monetario o viceversa, il sistema monetario può essere in effetti soltanto la realizzazione di questo sistema della libertà e dell’uguaglianza. Il valore di scambio, o più precisamente il sistema del denaro, è effettivamente il sistema dell’uguaglianza e della libertà, e che quegli elementi di disturbo che com­paiono a contrastarle nello sviluppo più immediato del sistema sono disturbi immanenti al sistema stesso, e appunto la realizzazione dell’uguaglianza e della libertà, che si mostrano come disuguaglianza e illibertà. Nella totalità dell’attuale società borghese, questo ridurre a prezzi, la corri­spondente circolazione [<=], ecc., si presentano come il processo superficiale al fondo del quale invece si verificano ben altri processi nei quali questa appa­rente uguaglianza e libertà dell’individuo scompare.

[k.m.]

 

 

Libertà di stampa

Giornalismo come marketing. C’era una volta il mito del giornalismo anglo­sassone, quello dei fatti separati dalle opinioni, quello che rappresentava l’oc­chio vigile ed imparziale della pubblica opinione. A queste favole ormai ci crede solo qualche vecchio trombone “progressista”. Secondo il più realistico Mark Willes, amministratore del Los Ange­les Times, questo ideale giornalistico è obsoleto. “Vendere un giornale è come vendere una scatola di cereali”, ha detto ai suoi redattori. Willes – un econo­mista che ha lavorato per la Federal Reserve e per il colosso alimentare Ge­neral Mills – e ha inoltre deciso che il rapporto tra manager e giornalisti dovrà essere molto più stretto che in passato. Questi, infatti, dovranno lavorare fian­co a fianco con gli uomini di marketing e gli addetti alla vendita di spazi pub­blicitari. Insomma, in barba alla presunta tradizione anglosassone, le notizie e le storie da pubblicare non saranno più dettate unicamente dalla deontologia professionale del giornalista – ammesso che in passato lo siano state e che la deontologia sia un angelo dalle bianche ali.

Le prime conseguenze della nuova strategia sono state le dimissioni di Shelby Coffey, direttore del quotidiano californiano, dopodiché si è riproposto il vec­chio dibattito sulla libertà di stampa. La maggior parte dei commenti hanno evocato scenari orwelliani in cui al posto del Grande Fratello figurano le in­dustrie e i grandi concessionari di pubblicità. Questo tipo di posizioni traggono argomenti anche da un altro precedente. Nell’aprile scorso, infatti, il direttore del settimanale Esquire decise di non pubblicare un racconto commissionato allo scrittore David Leavitt. Questo narrava le avventure di un giovane che campava scrivendo e vendendo tesine per studenti universitari. Fin qui nulla di particolare (anzi in Italia oltre ai free lance della scopiazzatura esistono anche agenzie specializzate in questo tipo di attività). Senonché il ragazzo in questione era gay e spesso si faceva pagare in natura. Ora, si dà il caso che la Chrysler fosse una grande acquirente degli spazi pubblicitari della rivista. La casa produttrice di automobili, inoltre, era solita chiedere di essere avvisata in anticipo su qualunque contenuto editoria­le che riguardasse questioni sessuali, politiche e sociali “offensive”. Ecco così spiegato il caso di autocensura della rivista americana.

Neutralità dell’informazione. Al classico giornalista illuminista e magari “disinistra”, piace immaginarsi libero da condizionamenti, padrone di scrivere quello che gli pare, rendendo conto ad un etereo lettore che non correrà mai il rischio d’incontrare in carne ed ossa. Questo giornalista del “regno dei Puffi” per la sua condizione di libertà [<=] viene così considerato fonte di informazione neutrale, fattuale. Senonché come sa ogni protozoo (da Popper in poi), i “fatti” non esistono, o al­meno sono sempre impregnati di teoria e di parzialità. La semplice selezione dei fatti degni di nota, la pura scelta di ciò che va pubblicato in prima pagina a nove colonne o in cinque righe nelle brevi, è con tutta evidenza già un giu­dizio di valore [<=], un taglio epistemologico della realtà. Se questo è vero la peg­giore informazione non sarà quella che dichiara la sua partigianeria, la sua vi­sione preanalitica, il suo punto di vista, ma quella che nega e occulta la sua parzialità, spacciandosi così per mera fattualità, nuda verità.

Informazione come merce. La voce di Pavarotti, l’immagine di David Bowie e la Lazio di Sergio Cragnotti sono (o saranno) quotate in Borsa. Tutto ha un prezzo e dunque un mercato: una lattina di Pepsi Cola, un rene, una copula, un’assicurazione sulla malattia, un sorriso, le prestazioni di un lavoratore me­talmeccanico e quelle di un insegnante. Se tutto è o tende a diventare merce [<=], perché l’informazione dovrebbe seguire un destino differente? Scandalizzarsi per il duopolio Rai-Mediaset, per l’acquisto dell’ameri­cana Abc da parte della Walt Disney o per la fusione tra la Time Warner e Ted Turner, il proprietario della Cnn [e per tutte le altre centralizzazioni che seguiranno], significa pretendere di proibire ad una mer­ce quello che si permette a tutte le altre, ovvero di trasformarsi in capitale e di comportarsi di conseguenza. Lo stesso dicasi per l’aborrito, quanto da tutti praticato, infortainement (cioè: informazione più intrattenimento). Se una fetta maggioritaria della popolazio­ne dimostra più interesse e comprensione per le polluzioni notturne dei reali d’Inghilterra piuttosto che verso i massacri algerini o la propria situazione previdenziale, perché non si dovrebbe fornire loro una merce così richiesta?

Piuttosto che della purezza della fonte, bisognerebbe preoccuparsi della quali­tà della notizia e soprattutto degli “impianti di depurazione”. Questi possono essere forniti solo da un’ermeneutica dell’apparenza feticistica della merce e del capitale applicata all’analisi e al confronto delle notizie provenienti da or­gani d’informazione diversi. Ciò è reso possibile anche dal fatto che non si dà capitalismo senza molteplicità dei capitali [<=] e dei centri di decisione; di conseguen­za la merce-informazione sarà prodotta in condizioni di libera concorrenza [<=] (ovvia­mente più o meno oligopolistica) e di confrontabilità. La Gazzetta del Grande Fratello, insomma, non è roba da modo di produzio­ne capitalistico. In ogni caso è sempre meglio la comunicazione-merce che esprime una realtà feticistica piuttosto che gli ingenui desiderata presunta­mente fuorimercato. Del resto, per il sindacalista di base o per lo studente in lotta, con che cosa sarà più fruttuoso accompagnare il cappuccino? Con le in­dagini e le analisi filoconfindustriali del Sole-24 Ore o con le note Ansa più chiosa moralistica del quotidiano comunista il manifesto?

[a.b.]

 

 

Linguaggio # 1

Gli uomini hanno una storia perché devono produrre la loro vita, e lo devo­no, precisamente, in una maniera determinata; questo dovere è dato dalla loro organizzazione fisica, così come la loro coscienza. Solo a questo punto tro­viamo che l’uomo ha anche una coscienza [<=]. Ma anche questa non esiste, fin dall’inizio, come “pura” coscienza. Fin dall’inizio lo “spirito” porta in sé la maledizione di essere “infetto” dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è anti­co quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità del rapporto con altri uomini”.

[f.e.-k.m.]

 

 

Linguaggio # 2

(controllo sociale)

È a livello del linguaggio che si formano e modificano le idee e le scelte degli individui. L’opinione che si forma tramite il linguaggio (verbale e non verba­le) influisce su atteggiamenti e comportamenti sociali. Con l’aiuto del lin­guaggio si creano e si formano i sistemi ideologici, la scienza, l’arte, la mora­le, e al tempo stesso il linguaggio crea e forma la coscienza [<=] del singolo uomo. È attraverso il linguaggio che l’organismo sociale verifica se stesso e la pro­pria presenza. Attraverso il linguaggio esso mantiene in una condizione di “a­fasia” i soggetti sociali “dominati”. Linguaggio è il luogo in cui si mette in gioco il consenso [<=], il luogo di una continua deformazione della realtà: processi di enunciazione che nascondono i “nessi reali”, che deformano ogni immagi­ne finalizzandola alla conservazione. Il linguaggio è un vero e proprio rituale all’indi­rizzo del culto dell’attuale organismo sociale. Si tratta, per detto orga­nismo, di richiamare col linguaggio la coesione nazionale [<=], di far risuonare questo concetto laddove esso è più inerte, più passibile di critica. Gusto delle formule incantatorie, piacere della celebrazione, dei miti facili, dei buoni sen­timenti: questi alcuni dei caratteri del linguaggio dominante.

L’organismo so­ciale persegue l’estetizzazione, la perdita di profondità, il trionfo del superfi­ciale, sfrutta e propaga il dominio del banale, accantona e reprime le dissomi­glianze, ciò che stride. La sua pratica consensuale è orientata su una mesco­lanza di stile “alto” e “basso”, con una predilezione per un vocabolario rigido, che isola la parola aspra; persegue l’ebbrezza, induce la suggestione irrazio­nale ed emotiva, come capacità di surrogare e sostituire la forza e la violenza attraverso l’incanalamento e la sublimazione culturale. Il possesso di informazioni è potere; in un organismo sociale le notizie, e ogni altro aspetto di conoscenza trasferibile ad altri, devono seguire canali precisi (verticali): devono passare attraverso una serie ben determinata di filtri e veri­fiche. Questo non è casuale; l’autorità vuole garantirsi, attraverso questi muri, che le informazioni arrivino nei modi e nei luoghi da essa stabiliti e ad essa congeniali

[n.g.]

 

 

Lotta di classe # 1

(aforisma)

“La lotta di classe è roba d’altri tempi – Sarà meglio avvisare l’Agnelli che non continui all’oscuro di tutto” [Francesco Tullio Altan, Cipputi]. Sarà me­glio avvisare anche gli altri capitalisti che continuano imperterriti a stroncare il proletariato. Sarà meglio avvisare anche tanti, troppi, “intellettuali sconvol­ti”, Tui di ieri e di oggi, che la considerano, insieme alle classi [<=] che la fanno, una cosa obsoleta e grossière; tanto che i maîtres-à-penser francesi delicata­mente si accomodano a parlare di “frattura sociale”. E sarà meglio, soprattut­to, avvisare molti lavoratori salariati che, convinti da anni di ideologia da so­cialismo edificante, continuano a pensare che sia lotta di classe solo quella agìta dal proletariato all’attacco, e non anche quella subìta dal proletariato e scatenata dalla borghesia. Anzi, sia chiaro: per il novanta per cento del tempo del capitale (nelle fasi di accumulazione, in quelle di crisi e in quelle di ripre­sa) è proprio la borghesia a esserne protagonista e il proletariato a subirla. So­lo nei brevi periodi di saturazione del ciclo di accumulazione del capitale e nei prodromi della crisi il proletariato passa all’attacco nella lotta. Altrimenti, se è in grado di lottare, perlopiù resiste e si difende. Che vada fatto anche questo, e in certi casi soprattutto questo, è della massima importanza asserirlo e soste­nerlo: ma basta saperlo, sapere che di questo e di nient’altro si tratta.

[gf.p.]

 

 

Lotta di classe # 2

(definizione generale)

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. La società borghese moderna non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi [<=], nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghe­sia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di clas­se. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e prole­tariato. Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe dei lavoratori moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale [<=]. Questi lavoratori che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce [<=] come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato [<=].

Il proletariato passa attraverso diversi gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza. Da principio singoli lavoratori, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un dato luogo di lavoro lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produ­zione, ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci stra­niere che fan loro concorrenza, fracassano le macchine [<=], danno fuoco alle fab­briche, cercano di riconquistarsi la tramontata posizione del lavoratore medie­vale. In questo stadio i lavoratori costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse lavoratrici non è ancora il risultato della loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il raggiungimento dei propri fini politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo. Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i ne­mici dei propri nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fon­diari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Così tutto il movimento della storia è concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria raggiunta in questo modo è una vittoria della borghesia.

Ma il proletariato, con lo sviluppo dell’industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, e con essa la sua coscien­za [<=]. Gli interessi, le condizioni di esistenza all’inter­no del proletariato si vanno sempre più uguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario [<=] a un livello ugual­mente basso. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi [<=] com­merciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario dei lavorato­ri; l’incessante e sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle mac­chine rende sempre più incerto il complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo lavoratore e il singolo borghese assumono sempre più il caratte­re di collisioni di due classi. I lavoratori cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfi­no associazioni permanenti per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse.

Ogni tanto vincono i lavoratori; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio ri­sultato delle loro lotte non è il successo immediato ma il fatto che l’unione dei lavoratori si estende sempre più. Essa è favorita dall’aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in collegamento i lavoratori delle differenti località. E basta questo collegamento per centraliz­zare in una lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che han­no dappertutto uguale carattere. Ma ogni lotta di classe è lotta politica. Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad esse­re spezzata ogni momento dalla concorrenza fra i lavoratori stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Essa impone il riconosci­mento in forma di legge di singoli interessi dei lavoratori, approfittando delle scissioni all’interno della borghesia.

In genere i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo evolutivo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da prin­cipio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa. Il movimento proletario è il movimento indipendente dell’immensa maggio­ranza nell’interesse dell'immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l’intera sovrastruttura degli strati che formano la società ufficia­le. La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta na­zionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. È naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria bor­ghesia.

Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo segui­to la guerra civile più o meno latente all’interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione [<=] e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia. Ogni società si è basata finora sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere as­sicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Ma il lavoratore moderno, invece di elevarsi man mano che l’indu­stria progredisce, scende sempre più al di sotto delle condizioni della sua pro­pria classe. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe do­minante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della pro­pria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavi­tù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, in­vece di essere da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società.

La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe bor­ghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza dei lavoratori tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento dei lavoratori, risultante dalla concor­renza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo svi­luppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghe­sia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa pro­duce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili. L’emancipazione delle classi lavoratrici dev’essere conquistata dalle classi lavoratrici stesse; la lotta per l’emancipazione delle classi lavoratrici vuol es­sere non una lotta per i privilegi e i monopoli di classe, ma per uguali diritti e doveri, e l’abolizione di tutte le regole classiste. Tutti gli sforzi rivolti a quel grande fine sono finora falliti per la mancanza di solidarietà tra le molteplici divisioni del lavoro in ogni paese, e per l’assenza di un fraterno legame di unione tra le classi lavoratrici di differenti paesi. L’emancipazione del lavoro non è un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna, e la cui soluzione dipende dalla concorrenza pratica e teorica dei paesi più avanzati.

[f.e.-k.m.]

(da Manifesto, I; Indirizzo inaugurale Ail)

 

 

Lotta di classe # 3

(istituzioni internazionali)

In tempi di reiterate e attendibili dichiarazioni di “guerra infinita”, da parte dell’odierna massima potenza militare mondiale, sembra utile riportare alla luce uno scritto di I. Kant del 1795, “Per la pace perpetua” [<=], cui tre anni dopo seguiva “Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio”. In tale ottica, il filosofo ipotizzava, non senza acume e ironia, lo sviluppo di una società cosmopolitica, [oggi assimilabile a quella “globalizzata”, altrettanto non gerarchizzata e contraddittoria], in cui la guerra, “eterna nemica del progresso”, poteva essere sconfitta nella creazione di una società razionale conforme alla libertà, con l’istituzione di una “pa­ce perpetua”. All’istanza morale posta da Kant, quale compito o “dovere” che la ragione assegna all’uo­mo, e non come conclusione di un conflitto particolare, risponderà successivamente G.W.F. Hegel prevalentemente nelle Lezioni sulla filosofia del diritto [esposte in Hegel e la Germania, a cura di D. Losurdo]. Secondo l’evidenziazione del curatore, infatti, risulta inequivocabile l’oppo­sizione hegeliana alle leggi basate sulla sola forza, come pure alla giustificazione dell’ordine e della legittimità, per im­porre invece egemonia e cancellazione dell’indipendenza nazionale o della sovranità statale.

Dalla copertura dell’espansionismo napoleonico a quella dell’egemonia delle potenze reazionarie del primo ‘800 (Austria, Prussia, ecc.), oggi possiamo ben cogliere la continuità di quella stessa volontà/necessità mistificante nelle potenze dei G.8 attuali. Identico è infatti l’uso delle “guerre difensive” che si trasformano in “offensive” o di “sterminio”, con l’ag­giunta moderna di costituire missioni di pace con professionisti, anche privati e clandestini, della guerra.

Il pericolo, contro cui Hegel ha combattuto teoricamente, è certo quello di una Santa Alleanza quale “lega perpetua di difesa e di lotta contro i movimenti rivoluzionari”, ma anche quello della “regressione” insita nei movimenti pseudorivoluzionari, in realtà nostalgici sostenitori del superamento dell’esercito permanente, nella resurrezione dell’“antico miliziano tedesco”. Tutto un dibattito in cui la parola d’ordine della pace perpetua serviva di legittimazione a una sorta di monarchia universale venne avversato, ma forse teoricamente concluso, dall’analisi hegeliana vòlta a smascherare invece la funzione di copertura della politica d’in­tevento, delle tradizionali “guerre di gabinetto”. L’inevitabilità della guerra [<=] – mostrava Hegel – consegnava nel­l’irrealtà una speranza, la pace perpetua, che poeti e opinione pubblica auspicavano realizzabile proprio da una supposta “sublimità” di Napoleone.

Le parole e l’intento kantiani, allora, sono stati ripresi solo per quegli aspetti inseribili nel capovolgimento ideologico del giustificazionismo guerrafondaio, ma anche del pacifismo imbelle. Tra tutte le istituzioni internazionali che ci sovrastano, in particolare l’Onu sembra dover garantire la pace, mentre avalla da sempre – secondo la sua vera natura - l’arbitrio del più forte nella legittimazione propagandistica. Il disvelamento continuo di siffatta propaganda e la doverosa ricontestualizzazione storica della teoria filosofica è il percorso scientifico di un’analisi di classe [<=]. Questa tende, nel contempo, a costituire l’arma della sollecitazione culturale a fronte della crescente pervasività, nell’ottundi­mento razionale, del potere dispotico deliberatamente indifferente a ogni diritto.

L’apporto hegeliano infine, costituisce un fondamentale passo teorico verso una definizione del ruolo del potere, che poi Marx indicherà come soggetto alle leggi storiche del modo di produzione capitalistico, e cioè come polo della lotta di classe. Sarà proprio Marx a definire “i direttori di scena” l’organizzazione politica che doveva permettere a Luigi Bonaparte di “cedere … a una irresistibile richiesta della nazione tedesca”, che consentirà a quest’ultima di risucchiare nei propri confini l’Alsazia e la Lorena. A riprendere, inoltre, la lezione di considerare alla stessa stregua nazioni e individui: “per toglier loro la possibilità di attaccare, dovete privarli dei mezzi di difendersi”. A ironizzare definitivamente la trasformazione della “conquista … da causa di guerra futura, in una garanzia di pace perpetua … una “garanzia materiale” della pace universale … il grado più elevato della civiltà”.

Tutti gli ingredienti del potere odierno erano stati già decodificati, ma non a caso negati o abbandonati al­l’oblìo fatto pilotare proprio dalle sinistre di turno: “il controllo del parlamento, cioè sotto il controllo diretto delle classi possidenti ... fabbrica di enormi debiti nazionali e di imposte schiaccianti … il potere dello Stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe.”

L’esempio inoltre della “repubblica parlamentare, con Luigi Bonaparte presidente” consentiva la denuncia di questo “regime di terrorismo di classe aperto e di deliberato insulto alla "vile moltitudine"”. “Speculazione finanziaria … , miseria delle masse … lusso esagerato … corruzione” sfociavano infine nell’“impe­rialismo … la più prostituita e l’ultima forma del potere di Stato … trasformato in stru­mento per l’asser­vimento del lavoro al capitale”. L’esperienza della Comune e delle associazioni operaie avevano costituito “il passo avanti nella lotta di classe” quale “contro-organizzazione internazionale del lavoro contro la cospirazione cosmopolita del capitale”, posto ormai nella sua realtà storica e categoriale.

Lungi dal proporre una mera curiosità intellettuale, offriamo un minimo esempio di come capillarmente la cultura storica sia continuamente appropriata e stravolta, o taciuta, al servizio selezionato delle potenze finanziarie ormai transnazionali, per conseguire il consenso delle masse espropriate alla libertà e agli utili del capitale, contrabbandati ancora per libertà e utili di tutti. L’esproprio anche culturale, effettuato dentro il cosiddetto senso comune, infatti, non permette in genere di riconoscere l’u­so di classe, antitetico al significato originale, di parole e concetti che sembrano – ma non sono – universali.

Infine, condividiamo, con Kant, l’attacco alla separazione (scritto nel 1793), sintetizzata nel “detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”. Non solo si tratta infatti di combattere: a) la “presunzione di veder più lontano e più sicuramente con occhi di talpa fissi nell’esperienza”, ma principalmente b) l’inevitabile collusione oggettiva – anche e se, soprattutto, senza coscienza – col potere, che decide anche i filtri conoscitivi da destinare agli espropriati, per riprodurne perpetuamente la funzionalità sociale subalterna.

Il “cosmopolitismo” kantiano non deve trarre in inganno nessuno verso un pacifismo che consegna gli oppressi inermi alla forza del potere, soprattutto odierno. Né altrimenti può dare significato effettivo a eventuali “riforme” (tatticamente anche utili), che aggiusterebbero pochi particolari a legittimazione definitiva dei fini di classe delle istituzioni (Onu, Fmi, Bm, Omc, ecc.), cioè solo di una particolarità più vasta coalizzata.

Quell’aspirazione espressa da Kant, all’indomani delle guerre napoleoniche, simile a quella che le masse avvertirono all’indomani della I e poi della II guerra mondiale, non deve essere confusa con gli schermi o istituzioni internazionali dei vincitori delle guerre imperialiste. Lottare per la pace non deve consegnarci ad essere pacifisti perpetuamente astratti. La lotta al sistema, priorità strategica concreta assoluta e indisponibile, pas­sa anche entro la lotta per la pace, contro la guerra del capitale.

L’unico “cosmopolitismo” auspicabile, l’uni­versalismo reale, è quello della classe proletarizzata (la maggioranza mondiale), in grado di far venir meno il ruolo storico di governi, organizzazioni nazionali e internazionali, ideologie al servizio dei capitali e delle loro crisi. “Il terreno su cui sorge è la stessa società moderna. Essa non può venire sradicata da nessun massacro, per quanto grande. Per sradicarla, i governi dovrebbero sradicare il dispotismo del capitale sul lavoro – condizione della loro stessa esistenza di parassiti” [Karl Marx, La guerra civile in Francia].  L’enucleazione dai testi di punti o frasi specifiche è funzionale alla scelta del tema proposto. Entro le parentesi quadre, il nostro commento unicamente per l’evidenziazione di un’attualità concettuale di riferimento.                                                                                                      

[c.f.]

 

 

Lusso

(infinità e arbitrio)

Lusso è un termine antico. (“Dal lat. luxus, eccesso, sovrabbondanza, dovizia, ogni cosa che costa molto in proporzione all’utilità, ai bisogni che soddisfa o alle possibilità economiche di chi la considera; ogni cosa che non sia necessaria”. Il grande dizionario Garzanti.). Le sue lontane origini ne denunciano la presenza reale in differenti epoche precapitalistiche, oggi usato per designare fino ad ogni sorta di esclusivismo della particolarità, o arbitrio, fruito dai detentori delle massime ricchezze.

Questa generalità storica richiede un’indagine teorica sul suo significato, non schiacciato sulle uniche modalità di manifestazione nell’attuale sistema produttivo e sociale. Ogni rilevazione sociologica, infatti, dà solo conto delle classi che ne godono l’ap­pannaggio o che ne sono escluse, delle stratificazioni dei mercati che lo smistano, della geografia della sua produzione, della fase economica in rapporto alle crisi, ecc., per le statistiche dell’esistente. La riflessione filosofica, al contrario, si propone di capire cosa sia il lusso, rendendo indispensabile risalire al sistema dei bisogni, e quindi all’originaria distinzione tra l’uomo e l’animale. In que­st’ultimo, sappiamo, l’appagamento dei bisogni e i mezzi per soddisfarli si realizzano entro un ambito limitato. Negli uomini, invece, questi appaiono in un progredire continuo, caratterizzante la specie, nella conquista temporale di tutte le sue potenzialità o capacità. [G.W.F.Hegel, Le filosofie del diritto, a cura di Domenico Losurdo, Leonardo ed., Milano 1989].

Al contempo, in quanto particolari, gli uomini sono naturalità, “desiderio, arbitrio del momento, dell’opi­nione, ciò che è sempre sul punto di perdere l’equilibrio”, se privi di misura, di razionalità sociale, di “educazione” civile, di libertà. La società civile non è infatti un mezzo, “una triste necessità”, ma lo stesso rapporto di interdipendenza umano. Non “una potenza estranea” ma l’identità costitutiva del suo essere umanità. Ecco dunque che ogni forma di dissipatezza, lusso, desiderio, inclinazione, se lasciati a sé stessi, senza limiti, conduce alla miseria - in cui tutto è accidentale - provocata dall’appagamento di bisogni, cui viene sacrificata ogni altra determinazione. La particolarità, i fini individuali, per espandersi liberamente, devono sempre ricondursi all’universalità, nel confronto sociale della loro positività, nella formulazione e riconoscimento di leggi che ne permettano il conseguimento.

Una volta lasciata al solo agire dei suoi meccanismi, la società civile produce una ricchezza che aggrava la miseria: “Il lusso è un accrescimento altrettanto infinito dell’indigenza... Non abbiamo alcuna rappresentazione di come a Londra, questa città infinitamente ricca, siano spaventosamente grandi indigenza, miseria, povertà. Accrescendosi, la ricchezza si concentra in poche mani; e una volta verificatasi questa differenza per cui grossi capitali sono in poche mani, ciò permette di guadagnare vendendo a prezzi più bassi di quelli consentiti da un capitale più ridotto, sicché la differenza diviene sempre più grande”.

La particolarità è il bisogno soggettivo che si oggettiva, cioè si appaga con cose esterne (proprietà, prodotto di altri bisogni, volontà) e mediante l’attività e il lavoro. L’insieme dei bi­sogni soggettivi richiede però una regolazione universale, in cui la razionalità che la caratterizza ha come proprio fine la conciliazione di quella pluralità. Questa razionalità è nella cosa, nella socialità umana che molti­plica e specifica i bisogni e le modalità del loro appagamento, tra cui il lusso, accrescimento infinito della di­pendenza e dell’indigenza. Il contenuto del lusso, a fondamento della li­berazione formale dal bisogno, rimane sempre la particolarità dei fini in cui non c’è limite a bisogni naturali o immaginari (prodotti dalla rappresentazione). In questa particolarità risiede quindi la libera volontà umana che usa la natura come mezzo, nell’inten­to di vincere le sue resistenze e di superare lo stato di necessità.

L’esteriorità (naturalità) dei bisogni e i relativi mezzi di appagamento ven­gono interiorizzati, divengono cultura, “patrimonio generale, permanente, al quale ognuno ha il diritto e la possibilità di partecipare”. Il lusso è dun­que il bisogno spirituale a procedere oltre la natura; l’infinità dei bisogni è la tendenza a questo superamento, al­l’affermazione dell’infinità spirituale. Nonostante l’apparenza dell’arbitrio assoluto del lusso, è proprio tramite la sua produzione che vengono soddisfatte molteplici altre necessità, presenti nell’intero sociale del sistema produttivo. “Dove il lusso è meno grande, più limitate sono le forme del­luniversalità e della civiltà e le possibilità per molti della sussistenza”. I bisogni, allontanati così dallo stato di natura, diventano interni a un sistema sociale la cui ricchezza dipende dalla presa di possesso, dall’accidentalità “e tale accidentalità dev’essere soppressa ad opera dello Stato” [Hegel, L 1817-8, par.98; Fd 195].

La molteplicità dei bisogni deriva quindi dalla razionalità umana e questa predispone i mezzi di appagamento, che diventeranno essi stessi fini. Certi bisogni, non immediati, costituiscono una certa comodità della vita e comunque l’indipendenza dai rapporti naturali, cui restano invece soggetti gli animali. Sintomo di una civiltà superiore – che non è legittimazione del dominio su altre – è proprio la molteplicità crescente di bisogni il cui fondamento è generale e non solo personale. La conoscenza di ciò fuga ogni illusione di possibili regressioni a maggiore frugalità di vita, la cui scelta dipenda dalle volontà dei singoli. “Tutti i singoli, il collettivo, sono una cosa diversa che non i singoli stessi. Nell’universalità è insito un momento della necessità”. In tutti i singoli infatti si ravvisa un’identità comportamentale, una socialità, un’u­ni­versalità in cui una società conforma ai propri bisogni, attraverso i suoi componenti, il mondo esterno. “L’e­mergere del lusso è un’apparizione necessaria; essa ha in sé il momento della liberazione per cui l’uomo si comporta in modo universale”.

Uomo, in tale astrazione, è l’unità indicativa del genere; nella sua concretezza storica o molteplicità, però, esso vive il conflitto con la natura e con sé stesso, ovvero la separatezza e l’appropriazione, il superamento e il riconoscimento entro la funzionalità della sua divisione in classi, l’oppres­sione, lo sfruttamento, ecc. Il brulichio degli arbìtrî, opinioni, ecc. sono solo manifestazione di una necessità, la cui conoscenza appunto “è oggetto dell’economia politica”. Tutti questi concetti, riconsiderati nel­la critica dell’economia politica mar­xiana, vengono applicati al modo di produzione capitalistico, particolarmente in merito alla dicotomia di classe nell’ambito dei consumi: necessari e di lusso. Mentre i primi sono o possono essere comuni sia alla classe capitalistica sia a quella lavoratrice, i secondi sono solo appannaggio della classe capitalistica, che scambia oggetti di lusso con plusvalore appropriato. La variabilità di consumi di lusso (ora si privilegia un settore produttivo ora un altro) è possibile già nella riproduzione semplice, in quanto “una somma di valore, uguale all’intero plusvalore, viene realizzata in fondo di consumo” [K.Marx, Il capitale, II.2, cap. 20].

Ad ogni crisi, il consumo di lusso diminuisce momentaneamente, frenandone la produzione e con ciò la disattivazione della forza-lavoro preposta, conseguentemente costretta a ridurre anche i consumi necessari. Al contrario, in tempi di euforia produttiva cresce il consumo necessario alla sussistenza e quello dei beni di lusso, in parte ora accessibili anche alla classe lavoratrice (completa anche del suo esercito di riserva). È chiaro che ogni tipo di consumo è solo quello pagante, e che, al crescere del salario della classe lavoratrice, l’atteso incremento dei consumi è temporaneo e minimale in quanto è altresì immediato preannuncio di una nuova crisi. L’au­mento infatti di una domanda pagante innalzerà immediatamente il consumo di mezzi necessari alla sussistenza, e in grado minore quello di articoli di lusso o di articoli diversificati rispetto alle precedenti esigenze. L’aumento dei prezzi, conseguente all’aumento della domanda dei mezzi di sussistenza, impegnerà maggior ca­pitale nella produzione di mezzi ne­cessari di sussistenza e una quota minore per quelli di lusso, al ribasso a causa di una domanda diminuita. I consumi di lusso saranno solo diversamente ripartiti tra capitalisti e salariati. La produzione di beni di lusso, cioè, attrae più o meno capitale a seconda della differente funzione che riveste all’interno del complessivo processo produttivo. Le sue oscillazioni e mutate ripartizioni sono funzionali a mantenere l’equilibrio produttivo per la saturazione della domanda sociale.                         

[c.f.]