Debito estero
La cancellazione del debito estero dei paesi così detti, con lo spirito degno di un beccamorto, meno sviluppati, nei confronti di quelli a capitalismo avanzato [che potrebbe essere, questo sì, un bel modo per indicare quei paesi imperialisti in crisi per aver prodotto e accumulato in eccedenza, tanto da non riuscire più, contraddittoriamente e quasi ironicamente, a farlo in maniera adeguata alla bisogna di carpire plusvalore [<=]], come il debito stesso da cui il moto di cancellazione trae spunto, non è altro che uno strumento di ricatto (si guardino le direttive del Fmi), e non un frutto del fato baro e avverso. Non è questione, insomma, di ritenere che anche le fredde istituzioni borghesi abbiano un animo solidaristico.
Non pochi comunisti hanno manifestato unimpulsiva necessità di smascherare i troppi luoghi comuni e spiegazioni che hanno il solo fine di non far prendere coscienza [<=] della reale natura del debito estero, dietro il quale è sottesa una logica predatoria e di sfruttamento, che è poi la logica del modo di produzione capitalistico. E loccasione di tale impulso è stata offerta dallo spettacolo rivoltante messo in atto dal sig. Lorenzo Cherubini, in arte jovanotti. Solo che il meschino giovanotto non ha fatto che tradurre in hip hop le mistificazioni di Giampaolo 2, in arte papa. Liniziativa Giubileo 2000 o, per dirla universalisticamente in angloamericano Jubilee 2000, ha una portata ben più vasta ed equivoca capace di sottomettere ideologicamente miliardi di persone nel mondo intero di quanto sia stato possibile esternare a DAlema per intercessione di San Remo. Lagognata e presunta cancellazione del debito estero, infatti, si traduce prontamente in un grande bluff.
Anzitutto, le classi [<=] che non hanno nellabbondanza di risorse economiche la loro caratteristica principale, proletariato e popolo di tutto il mondo, saranno ovviamente le prime a pagare i costi di una simile sanatoria o moratoria, attraverso il sistema fiscale [<=] dei rispettivi paesi. Difatti, già Marx rilevava, a proposito dei debiti gestiti dallo stato, come il sovraccarico di imposte non sia un incidente, ma anzi sia precisamente il principio del modo di produzione capitalistico. In ogni paese, storicamente, lindustria a base nazionale si sostiene grazie al denaro che il proprio stato gli fa rifluire nelle casse. Viceversa, e labbiamo ripetuto più volte, per tassare il capitale finanziario [<=] occorrerebbe unelevatissima conflittualità di classe capace di superare enormi ostacoli, quali lesportazione dei capitali stessi, il controllo pubblico sul sistema creditizio, labolizione del segreto bancario, e via espropriando.
Il sistema dei debiti dello stato scriveva Marx diventa così il sistema del credito pubblico, ossia lalienazione dello stato ai privati. Ciò che, dopo il medioevo e per tutto il 1800, valeva prevalentemente per il debito pubblico [<=] nazionale, si è presto generalizzato, con limperialismo [<=], al mercato mondiale. Il sistema coloniale, col suo commercio marittimo e le sue guerre [<=] commerciali, gli servì da serra. Giacché, fin dallepoca di Marx stesso, fu con i debiti pubblici che sorse un sistema di credito internazionale capace di nascondere una delle fonti dellaccumulazione originaria di questo o di quel popolo. Il debito estero è diventato, così, una delle leve più energiche della nuova accumulazione originaria dei paesi imperialisti nelle aree meno sviluppate. Come con un colpo di bacchetta magica, il debito estero [parafrasando Marx] conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale [<=], senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dallinvestimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello stato non dànno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ecco, dunque, un primo aspetto del grande bluff.
Quellincolto di Berlusconi, mentre ha straparlato di marx condicio a proposito dellesibizione jovanottiana in grazia di DAlema, si è guardato bene dal far sapere al suo pubblico, di inebetiti ascoltatori e di gonzi elettori, che dalla papal-jovanottiana iniziativa giubilar-bimillenaria a guadagnarci siano stati proprio i suoi più affezionati amici ed estimatori: i privati imprenditori del liberomercato. Si dà infatti il seguente caso e lesempio dellItalia vale, amplificandolo a dovere, per tutto il mondo. Se lo stato italiano cancella il proprio credito ai paesi meno sviluppati riversandone nel frattempo i costi sulle spalle dei propri contribuenti, ossia i lavoratori salariati che pagano lirpef ciò viene a incidere solo per 5 mmrd lire, su un debito estero totale (verso leconomia italiana) di quegli stessi paesi che ammonta a ben 35 mmrd lire, nei confronti dei soli privati imprenditori italiani, ossia proprio degli amici del berlusca. I quali cristianamente, si sa si guarderebbero bene dal rimettere i debiti ai propri debitori.
Marx conosceva benissimo tale genìa di speculatori quando, riferendosi alla bancocrazia dellepoca, scriveva con estrema chiarezza che, fin dalla nascita, le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipare denaro. Quindi laccumularsi del debito, pubblico o estero che sia, non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche. E non bastava però che le banche e le società di speculatori [<=] privati dessero con una mano per vedersi restituito di più nellaltra, giacché, proprio mentre ricevevano, rimanevano creditrici perpetue di tutte le nazioni [<=] indebitate, fino allultimo centesimo che avevano loro dato. La gestione privata del debito estero pubblico, inoltre, non è più oggi circoscritta solo alle banche daffari, ma i cosiddetti investitori istituzionali (fondi pensione, assicurazioni, gestioni patrimoniali, fondi comuni, ecc.) rastrellano il reddito non consumato dai lavoratori e dalle classi [<=] medie, potendo così diluire nel tempo e su grandi masse le necessarie periodiche e incombenti distruzioni di valore. Si riduce così il ruolo dellintervento dello stato nella circolazione [<=] del capitale. E questo è un secondo aspetto del grande bluff.
Lillusione, che la cancellazione del debito porterebbe i paesi meno sviluppati in posizione di definitiva indipendenza economica dai paesi imperialisti, infine, è totale. Fin dal XIX sec., Marx scriveva che, nei paesi dipendenti, i capitalisti conquistatori hanno estirpato con la forza ogni industria. Cè solo, nondimeno, da pensare al lento girare della ruota della storia, al progressivo e paziente scavare della vecchia talpa, pensando che qualcosa di simile a quel che è successo nel XIX sec. tra Inghilterra e Stati Uniti dove parecchi capitali, che allora si presentavano negli Usa senza fede di nascita, erano sangue di bambini da poco capitalizzato in Inghilterra si comincia a verificare oggi proprio nei paesi meno sviluppati di nuova industrializzazione. Certo, la contraddizione è lacerante: a fronte dello smarrimento aggressivo del capitale speculativo internazionale, subentra ancora un potere devastante del nuovo capitale finanziario [<=] transnazionale, talché il proletariato dei paesi dominati soffre ancora le pene dellinferno. Ma si può concludere, parafrasando Marx, con lauspicio che col sorgere dellindebitamento dello stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito estero.
[gf.p.]
(cfr. per Marx, Il Capitale, I.24,6 Laccumulazione originaria: genesi del capitalista industriale)
Debito pubblico
(alienazione dello stato)
Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, simpossessò di tutta lEuropa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia lalienazione dello stato dispotico, costituzionale o repubblicano che sia imprime il suo marchio allera capitalistica. Lunica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è... il loro debito pubblico. [William Cobbett osserva che in Inghilterra tutti gli istituti pubblici vengono designati come regi, ma che in compenso cera invece il debito nazionale (national debt)]. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo sindebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. Ed è così che col sorgere dellindebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.
Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dellaccumulazione originaria: è qui che, come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dallinvestimento industriale e anche da quello usurario. In realtà si sa i creditori dello stato non dànno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche astrazion fatta dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene così creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, laggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di borsa [<=] e la bancocrazia moderna.
Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori [<=] privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi laccumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca dInghilterra (1694). La Banca dInghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo allotto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo unaltra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca dInghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo stato e pagava per conto dello stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con laltra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione [<=] fino allultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, proprio mentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsificatori di banconote. Gli scritti di quellepoca, p. es. quelli del Bolingbroke, dimostrano che effetto facesse sui contemporanei limprovviso emergere di quella genìa di bancocrati, finanzieri, rentiers, mediatori, agenti di cambio e lupi di borsa. Se oggi i tartari inondassero lEuropa, sarebbe difficile render loro comprensibile che cosa sia presso di noi, un finanziere. [Montesquieu, Esprit des Lois, vol.IV, p.33, Londra 1764].
Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dellaccumulazione originaria di questo o di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sono ancora uno di tali fondamenti arcani della ricchezza di capitali dellOlanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme di denaro. Altrettanto avviene fra lOlanda e lInghilterra. Già allinizio del secolo XVIII le manifatture olandesi sono superate di molto, e lOlanda ha cessato di essere la nazione industriale e commerciale dominante. Quindi uno dei suoi affari più importanti diventa, dal 1701 al 1766, quello del prestito di enormi capitali, che vanno in particolare alla sua forte concorrente, lInghilterra. Qualcosa di simile si ha oggi fra Inghilterra e Stati Uniti: parecchi capitali che oggi si presentano negli Stati Uniti senza fede di nascita, sono sangue di bambini che solo ieri è stato capitalizzato in Inghilterra. Poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello stato che debbono coprire i pagamenti annui dinteressi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato lintegramento necessario del sistema dei prestiti nazionali.
I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia un aumento delle imposte in séguito. Daltra parte, laumento delle imposte causato dallaccumularsi di debiti contratti luno dopo laltro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo [<=] moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico dimposte non è un incidente, ma anzi è il principio. Questo sistema è stato inaugurato la prima volta in Olanda, e il gran patriota De Witt lha quindi celebrato nelle sue massime come il miglior sistema per rendere il lavoratore sottomesso, frugale, laborioso e... sovraccarico di lavoro. Tuttavia qui linflusso distruttivo che questo sistema esercita sulla situazione del lavoratore salariato, qui ci interessa meno dellespropriazione violenta del contadino, dellartigiano, in breve di tutti gli elementi costitutivi della piccola classe [<=] media, che il sistema stesso porta con sé. Su ciò non cè discussione, neppure fra gli economisti borghesi.
La grande parte che il debito pubblico e il sistema fiscale a esso corrispondente hanno nella capitalizzazione della ricchezza e nellespropriazione delle masse, ha indotto una moltitudine di scrittori, come il Cobbett, il Doubleday e altri a vedervi a torto la causa fondamentale della miseria dei popoli moderni. Il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno. Gli stati europei si sono contesi la patente di questinvenzione e, una volta entrati al servizio dei facitori di plusvalore [<=], non solo hanno a questo scopo imposto taglie al proprio popolo, indirettamente con i dazî protettivi, direttamente con premi sullesportazione, ecc., ma nei paesi da essi dipendenti hanno estirpato con la forza ogni industria; come per es. la manifattura laniera irlandese è stata estirpata dallInghilterra. Sul continente europeo il processo è stato molto semplificato, sullesempio del Colbert. Quivi il capitale originario dellindustriale sgorga in parte direttamente dal tesoro dello stato. Perché, esclama il Mirabeau, andar a cercar così lontano la causa dello splendore manifatturiero della Sassonia prima della guerra dei Sette anni? Centottanta milioni di debito pubblico! [De la Monarchie Prussienne,, vol. VI, p. 101].
[k.m.]
Democrazia
Gli inganni perpetrati in nome della democrazia sono tali che la repubblica parlamentare borghese ostacola la vita politica autonoma delle masse e la loro partecipazione allorganizzazione democratica di tutta la vita dello stato [<=]. Ad August Bebel, l11.12. 1884, Engels scriveva che la democrazia, in tutte le rivoluzioni, è lultimo bastione della reazione. [Una precisazione terminologica non strettamente, ma implicitamente, attribuibile al marxismo è necessaria. Democrazia viene dal greco e vorrebbe dare a intendere che si tratti di potere del popolo; siffatta circostanza è lontana dalla realtà, antica e moderna (la democrazia ateniese non è democrazia, il popolo era esclusivamente composto di proprietari, con esclusione di tutti i dominati sempre tenuti lontani dal potere). Una terminologia come democrazia borghese è mistificatoria, poiché testualmente vorrebbe dire potere del popolo ... borghese; allopposto, letimologia di dittatura significa comandare, dettare leggi (da parte di un autocrate, magistrato eletto, organismo o classe). Engels, Marx, Lenin, chiamavano perciò il comando della classe borghese col termine proprio di dittatura della borghesia, la classe sociale che dètta legge].
La critica marxista procede verso lindebita appropriazione borghese del concetto di democrazia. I benpensanti del socialismo borghese che Marx chiamava i professori della democrazia sviluppata che si sono dati anima e corpo alla reazione hanno sempre avuto, nelle loro teste, lidea fissa della democrazia, un dogma (come, nei chiliasti, il giorno in cui doveva incominciare il regno millenario). La loro debolezza, come sempre, va a rifugiarsi nella credenza del miracolo, sì che costoro credono vinto il nemico ogni volta che lo esorcizzino con la fantasia.
È così che essi, giorno dopo giorno, anno dopo anno, pèrdono ogni intelligenza del presente nellesagerazione fantastica e inattiva dellavvenire che credono di stare preparando. Anche quando sono al governo, i democratici profeticamente già vedendosi minoranza rispetto al vero partito dellordine fanno il penoso tentativo di esercitare, come minoranza futura, un potere che sentono sfuggire loro di mano, proprio nel momento in cui disponevano della maggioranza parlamentare. E allorché diventano effettivamente minoranza, la pena si fa patetica e grottesca, per linsipienza esibita.
Il partito della democrazia socialista [ Ds, ah! i ricorsi storici] che dice di rappresentare una massa (via via decrescente, nei fatti) che oscilla tra la borghesia e il proletariato, i cui interessi materiali reclamano istituzioni democratiche pare che cerchi tutti i pretesti per porre in dubbio la propria vittoria. Ha lasciato che lantagonismo di classe si contentasse dei successi costituzionali e si snervasse in piccoli intrighi, in vuote declamazioni, in moti superficiali, si consumasse in questo nuovo gioco provvisorio del voto. Ma, allo stesso tempo, confessa apertamente la sua impotenza, imbarazzata a giudicare, tra due ceffoni da ricevere, quale sia il più duro. La sconfitta li ha messi fuori combattimento per anni. Cosicché, nel frattempo, la borghesia ha potuto concentrare le proprie forze e prendere le sue misure. Ai suoi attacchi selvaggiamente sfrenati, la democrazia socialista [<=] contrappone un umanesimo pieno di decenza e di buona educazione. Mentre essa si richiama al terreno del diritto, il partito dei padroni la richiama al terreno sul quale si forma il diritto, cioè alla proprietà borghese.
I capi della democrazia hanno fatto di tutto per impacciare il popolo, dapprima in una lotta apparente, dopo per allontanarlo dalla lotta reale. Essi, nelle loro interviste, come sempre, si distinguono con rumorose manifestazioni di sdegno morale. Se il partito dei padroni finge di vedere in questi ultimi personaggi tutti gli orrori del comunismo, tanto più essi possono mostrare quanto sia in realtà la loro dappocaggine e la loro nullità. Il partito della democrazia socialista sfoggiando lattitudine calma e onesta dei democratici che rimangono sul terreno legale si limita a presentazione di atti di accusa, a far la voce grossa, a discorsi roboanti, ecc., insomma ad atti estremi che non si spingono al di là delle parole. Parallelamente, tutta la stampa democratica non perde occasione per predicare al popolo contegno dignitoso, calma maestosa, atteggiamento passivo e fiducia nei suoi rappresentanti.
Si smussa così sempre più la punta rivoluzionaria delle rivendicazioni sociali del proletariato, dando loro una forma democratica. Il carattere distintivo della democrazia socialista si viene in tal maniera trasformando insieme alla classe che rappresenta e si riassume in questo: reclamare le istituzioni repubblicane democratiche come mezzo, non per sopprimere i due estremi, capitale e lavoro salariato [<=], ma per temperarne le antitesi e fonderli armonicamente. Lipocrisia ripugnante della rispettabilità borghese è penetrata nella carne e nel sangue dei lavoratori scriveva Engels a Sorge.
I parlamentari dellopposizione democratica socialista hanno anchessi preso unattitudine ragionevole e prudente, sforzandosi di dimostrare che vi è un malinteso quando li si descrive come rivoluzionari o comunisti. I democratici quegli stessi parlamentari si richiamano al nome della costituzione e invocano lordine, la calma maestosa, lattitudine legale, cioè la sottomissione cieca alla volontà della controrivoluzione. Al proclama costituzionale democratico corrisponde immancabilmente una cosiddetta dimostrazione pacifica dei piccoli borghesi al grido di viva la costituzione!, gettato in modo meccanico, glaciale, con la coscienza sporca, dai membri stessi del corteo, e respinto ironicamente, anziché ripetuto con forza di tuono, dal popolo.
Di fronte alla violazione della costituzione, che incomincia quando uno dei pubblici poteri si ribella contro laltro, la democrazia socialista abbozza solo proteste entro i limiti della ragione. Essa è decisa a imporre il rispetto della costituzione con tutti i mezzi ... eccetto che con la forza. In questa decisione è appoggiata da variopinti amici della costituzione, avanzi della consorteria del partito borghese. Essa dichiara presidente, ministri e maggioranza parlamentare fuori della costituzione. Viva la costituzione! è la sua parola dordine, ma al di là delle apparenze inconfutabili essa non significa altro che abbasso la rivoluzione!. La maggioranza che si dice democratica e libera ha così gioco facile per elevare a legge il proprio dispotismo parlamentare.
Alla lega dei comunisti nel 1850, in pieno accordo con Marx, Engels [già trentaquattro anni prima della lettera a Bebel] era estremamente duro, ritenendo che la democrazia piccolo-borghese resta sempre il partito il quale, al prossimo ribaltamento della situazione europea, occuperà il potere immediatamente, senza riserva alcuna, per non lasciar cadere la società nelle mani dei lavoratori comunisti. Gli organi istituzionali, alla cui testa è il potere dello stato, si vanno col tempo trasformando da servitori della società in padroni della medesima, per servire interessi speciali.
Il potere politico, nel senso proprio della parola, è quindi il potere [<=] organizzato di una classe per loppressione di unaltra. Epperò nel Manifesto comunista si dice che la conquista della democrazia è compito del proletariato, capace di arrecargli vantaggi infiniti. Il socialismo deve necessariamente instaurare la completa democrazia ripete Lenin e, quindi, deve attuare lassoluta uguaglianza dei diritti, di tutti, la libera determinazione politica. Quel socialismo che non dimostrasse il pieno rispetto della libertà e del potere del popolo che la sottende, non sarebbe socialismo. Non potrebbe esserci un marxismo o un socialismo dispotico, che non sappia contemplare leffettivo potere del popolo, e in tal caso non si potrebbe parlare ancora di marxismo o di socialismo (come sovente invece si è fatto). Naturalmente, anche questa democrazia è una forma (statuale) che deve scomparire quando si dileguerà lo stato. Ma ciò avverrà soltanto col passaggio completo dal socialismo al comunismo.
Senonché, secondo i professori della democrazia sviluppata, per quanto inorpellato di false immagini, più o meno rivoluzionarie, il fondo resta la trasformazione della società per mezzo della democrazia; ma si tratta di una trasformazione che non va oltre lorizzonte del piccolo borghese, con lunico scopo di evitare la lotta di classe. Il fatto è che i democratici rappresentano effettivamente la piccola borghesia perché il loro cervello non sa oltrepassare quegli stessi limiti che questa piccola borghesia non sa superare nella vita pratica. La democrazia socialista, ancora una volta in mezzo agli intrighi e costantemente tormentata da appetiti di potere, ricerca con pari costanza le possibilità costituzionali, e si sente sempre ancor meglio dietro ai borghesi che davanti al proletariato rivoluzionario. Il potere ha decretato che la violazione della lettera della costituzione è lunica attuazione corrispondente al suo spirito. Invece di lacerare questo tessuto di inganni, i democratici hanno preso sul serio la commedia parlamentare; ma sotto la pelle del leone, presa a prestito, lasciano vedere loriginaria pelle del vitello piccolo-borghese. Così la commedia è finita.
[m.e.l.]
(riscritti aforisticamente da Marx e Engels, Manifesto;
Marx, Le lotte di classe in Francia, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, La guerra civile in Francia, Critica del programma di Gotha; Engels, Prefazioni; Lenin, Che fare?; Sulla Comune di Parigi;
Sulla democrazia, I compiti del proletariato; Stato e rivoluzione)
Democrazia liberale
(diritto naturale)
I termini entro i quali saggira la genesi e lo sviluppo dello stato, dal suo punto iniziale di apparizione entro una determinata comunità, in cui cominciò la differenziazione economica, ce lo rendono ormai comprensibile. E per tale comprensibilità, che lo riduce a necessario complemento di determinate forme economiche, la presunzione di considerarlo fattore autonomo della storia rimane eliminata per sempre. Torna anche cosa relativamente facile il rendersi conto del come il diritto sia stato elevato a fattore decisivo della società e quindi della storia, direttamente o indirettamente. Col precoce dissolversi della società feudale in alcuni punti dellItalia centrale e settentrionale, e col sorgere dei comuni, che furono repubbliche di produttori corporativi [<=] e di corporazioni di mercanti, tornò in onore il diritto romano, in opposizione ai diritti barbarici e in buona parte al diritto canonico, come forma del pensiero più rispondente ai bisogni della borghesia, che cominciava a svilupparsi. Di fronte al particolarismo dei diritti, che erano consuetudini di popoli barbari, o privilegi di un corpo, o concessioni papali e imperiali, quel diritto appariva come universalità della ragione scritta, e appariva dunque, sul declinare delle istituzioni medievali, come una forza rivoluzionaria, come un diritto [<=] di natura. Da varie fonti derivò la formazione dellideologia del diritto naturale, che è servita da arma di critica e da strumento per dare forma giuridica allordinamento economico della società moderna. Di fatto, però, codesta ideologia giuridica riflette, nella lotta per il diritto e contro il diritto, il periodo rivoluzionario dellintelletto borghese, in tutto il suo genuino sviluppo affatto nuova e moderna; perché il diritto di natura che si venne sviluppando dai precursori di Grozio, fino a Rousseau, a Kant e alla costituzione del 1793, non fu se non il duplicato e il complemento ideologico delleconomia.
Lideologia del diritto di natura che da ultimo ebbe nome di filosofia del diritto fu sistematica, partì sempre da enunciati generali, e fu inoltre battagliera e polemica, e anzi fu alle prese con lortodossia, con lintolleranza, col privilegio, coi corpi; combatté, insomma, per le libertà, che ora costituiscono i fondamenti della società moderna. Da questa fede nel diritto razionale nasceva la credenza cieca nella forza del legislatore. Di qui la persuasione che la società tutta debba essere come investita da un solo diritto, eguale per tutti, sistematico, logico, conseguente. Di qui la convinzione che un diritto il quale garantisca a tutti leguaglianza giuridica che è la facoltà del contrattare garantisca anche a tutti la libertà. E giù tutto il resto! Col trionfo del vero diritto trionfa la ragione, e la società regolata dal diritto eguale per tutti è la società perfetta! Quali illusioni fossero in fondo a tali tendenze, è inutile dire. A che cosa dovesse riuscire codesta liberazione universale delluomo, lo sappiamo già. Ma ciò che qui più importa gli è che tali persuasioni partivano da un concetto del diritto per cui questo rimaneva come scisso dalle cause sociali che lo producono. Cosicché la ragione, cui codesti ideologi si appellavano, si riduceva a togliere al lavoro, allassociazione, al traffico, al commercio, alle forme politiche e alla coscienza [<=], tutti i limiti e tutti gli impedimenti che tornano dimpaccio alla libera concorrenza [<=]. E se cè ora chi si ostini a discorrere di un diritto razionale che domini la storia, di un diritto che sarebbe un fattore anziché un semplice fatto dellevoluzione storica, vuol dire che costui vive fuori del nostro tempo, e non ha inteso come la codificazione liberale ed egalitaria abbia già segnato in via di fatto la fine e il termine di tutta codesta scuola del diritto di natura.
Per diverse vie si è giunti nel XIX secolo a ridurre il diritto da cosa razionale in cosa di fatto, e per ciò in cosa corrispettiva a determinate condizioni sociali. Il diritto romano codificato è una forma assai moderna; quella personalità che esso suppone, come soggetto universale, è unelaborazione di tempi avanzati, nei quali, sul cosmopolitismo dei rapporti sociali dominava una costituzione burocratica militare. In quel mondo in cui era venuta a compimento la ragione scritta, non era più traccia di spontaneità di vita popolare, non era più democrazia [<=]. Il continente europeo aveva creato nella codificazione del diritto civile il tipo e il testo della ragion pratica borghese. Ma il diritto che veramente esiste, e ha valore, è cosa assai più semplice e modesta, di quello che non paresse agli entusiastici decantatori della ragione scritta, della ragione imperante. Allideologia bisognava sostituire la storia delle istituzioni giuridiche. La filosofia del diritto finì in Hegel; e se cè chi voglia obiettare in nome dei libri pubblicati dappoi, dirò che la carta stampata dai professori non è proprio e sempre lindice del progresso del pensiero. La filosofia del diritto si converte così nella trattazione filosofica della storia del diritto. Codesta rivoluzione, che pare di sole idee, non è se non il riflesso intellettuale delle rivoluzioni accadute nella vita pratica. Nel XIX secolo il legiferare è diventato una malattia; e la ragione imperante nellideologia giuridica è stata detronizzata dai parlamenti. In questi le antitesi degli interessi di classe [<=] hanno assunto la forma di partiti; e i partiti si schierano pro e contro a determinati diritti, onde tutto il diritto appare come un semplice fatto, o come cosa che sia utile o non utile fare. Dovunque la lotta operaia si sia precisata, i codici borghesi ne son rimasti sbugiardati.
La ragione scritta si è mostrata impotente a salvare i salari [<=] dalle oscillazioni del mercato [<=], a garantire donne e fanciulli dagli orari vessatori delle fabbriche, o a trovare uno solo dei suoi acuti ripieghi per risolvere il problema della disoccupazione [<=]. La sola limitazione parziale delle ore di lavoro ha dato materia e occasione a una lotta gigante. Piccoli e grossi borghesi, agrari e industriali, avvocati dei poveri e difensori della ricchezza accumulata, monarchici e democratici, socialisti e reazionari, si sono affannati a trarre in qua e in là lazione dei poteri pubblici, e a sfruttare le contingenze della politica e lintrigo parlamentare per trovare garanzie e difese a determinati interessi, o nellinterpretazione di un diritto esistente o nella creazione di un nuovo diritto. Buona parte di esso fu più volte rifatta, e si videro le più strane oscillazioni, dallumanitarismo che difende anche i poveri, e perfino gli animali, alla proclamazione della legge sullo stato dassedio. Al diritto fu levata la maschera: e nè rimasto profanato. Ed ecco subentrato il sentimento dellesperienza, e da questa è derivata unenunciazione tanto precisa per quanto modesta: ogni diritto fu ed è la difesa, consuetudinaria, autoritaria o giudiziaria, di un determinato interesse.
Dunque la storia non fu il processo per giungere allimpero della ragione nel diritto, ma non fu fino a ora se non la serie delle mutazioni nelle forme della soggezione e della servitù. Dunque la storia consiste tutta nella lotta degli interessi, e il diritto non è se non lespressione autoritaria di quelli che hanno trionfato. Di qui alla riduzione alleconomia non cè che un passo. E come la filosofia storica metta capo nel materialismo economico, e in che senso il comunismo critico sia linversione di Hegel, non occorre qui ripetere ancora una volta. Se la concezione materialistica è venuta da ultima a suggellare codeste tendenze in una veduta esplicita e sistematica, gli è perché la sua orientazione è stata determinata dallangolo visuale del proletariato. Questo è il prodotto necessario, e a un tempo la condizione indispensabile, di una società nella quale tutte le persone in astratto sono eguali in diritto, ma le condizioni materiali dello sviluppo e della libertà [<=] degli individui sono diseguali. I proletari non vivono se non reggimentandosi intorno al capitale, e dalloggi al domani passano nella condizione di disoccupati, di poveri e di emigranti. Essi sono lesercito del lavoro sociale, ma i loro capi sono i loro padroni. Essi sono la negazione del giusto nel regno del diritto, ossia sono lirrazionale nel preteso dominio della ragione.
[a.l.]
(da Antonio Labriola, Del materialismo storico, In memoria del Manifesto, 1895-96).
Democrazia sociale
(comunismo critico)
Il comunismo cospiratorio ci fa risalire attraverso Buonarroti fin su su alla cospirazione di Babeuf, il quale fu vero eroe di tragedia antica, che dà cozzo nel fato, per lignorata incongruenza del proprio disegno con la condizione economica del tempo. Furono tutti egalitari codesti precursori del socialismo violento, protestatario, cospiratorio; come egalitari furono per la più parte i cospiratori stessi. Per un singolare, ma inevitabile, abbaglio essi tutti assunsero ad arma di combattimento, ma interpretandola e generalizzandola a rovescio, quella medesima dottrina delleguaglianza che, sviluppatasi come diritto [<=] di natura parallelamente alla formazione della teoria economica, era stata strumento in mano della borghesia, che conquistava via via la sua attuale posizione, per convertire la società del privilegio in quella del liberalismo, del liberismo [<=] e del codice civile. Fiorirono così molti giuristi i quali cercarono nelle correzioni al codice civile i mezzi pratici per elevare la condizione del proletariato: ma perché non chiedono al papa che si faccia capo della lega dei liberi pensatori?! Ameno più degli altri è il caso di quello scrittore italiano che, occupandosi della lotta di classe [<=], chiede che, accanto al codice che garantisce i diritti del capitale, ne sorga un altro a garanzia dei diritti del lavoro!
Per tale illazione immediata sulla dottrina delleguaglianza che era in fondo una semplice illusione, e cioè che, essendo tutti gli uomini eguali in natura, essi abbiano a essere tutti eguali anche nei godimenti si credeva che lappello alla ragione racchiudesse in sé ogni elemento e forza di persuasione e di propaganda, e che la rapida, istantanea e violenta presa di possesso degli strumenti esteriori del potere politico fosse il solo mezzo per rimettere a posto i renitenti. Ma non ci si chiese donde nacquero e come si reggono codeste diseguaglianze, che paiono tanto irrazionali alla luce di un così semplice e semplicistico concetto della giustizia. Per tali ragioni, il comunismo egalitario rimaneva battuto. La sua impotenza pratica era una e medesima cosa con la sua incapacità teorica a rendersi conto delle cause delle ingiustizie, ossia delle diseguaglianze, che voleva, coraggiosamente o spensieratamente, atterrare o eliminare dun tratto.
Il socialismus vulgaris che vegetò per lEuropa (e specialmente in Francia), e che non fu vinto, esaurito ed eliminato del tutto, si alimentava, quando non daltro e di più sconnesso, principalmente delle dottrine e assai più dei paradossi di Proudhon. Daltra parte, il socialismo di stato [<=], in ogni forma da Louis Blanc a Lassalle, si concentrava tutto nella favola, nellhokus pokus, del diritto al lavoro. Questo è termine insidioso, se implica domanda che si rivolga a un governo [<=], sia pure di borghesi rivoluzionari. Questo è un assurdo economico, se si ha in mente di sopprimere la variabile disoccupazione [<=], che influisce sul variare dei salari [<=], ossia sulle condizioni della concorrenza. Questo può essere un artificio di politicanti, se è ripiego per sedare le turbolenze di una massa agitantesi di proletari non organizzati. Questa è una superfluità teoretica, per chi concepisca nettamente il corso di una rivoluzione [<=] vittoriosa del proletariato, nella quale il diritto al lavoro e il dovere di lavorare fanno uno nella necessità comune a tutti che tutti lavorino. Lillusione dellordine naturale è rovesciata! La ricchezza ha generato la miseria! La grande industria, alterando tutti i rapporti della vita, ha aumentato i vizi, le malattie, la soggezione: essa, insomma, è causa di degenerazione; il progresso ha generato il regresso! E in una società che trasforma tutti i prodotti del lavoro umano in merci [<=], mediante il capitale [<=], una società che suppone il proletariato, lo crea, e che ha in sé linquietezza, la turbolenza, linstabilità delle continue innovazioni nascono spontanee queste ingenue domande: perché non abolire il pauperismo, non eliminare la disoccupazione, non togliere di mezzo lintermediazione della moneta; non favorire lo scambio diretto dei prodotti in ragione del lavoro che contengono, non dare al lavoratore lintero prodotto del suo lavoro?, e simili. Queste domande risolvono le cose in tanti ragionamenti.
Con tutte codeste tendenze la ruppero decisamente i comunisti critici, approfondendo leconomia classica, dottrina della struttura della presente società. Come passar sopra a tale sistema con un atto di negazione logica, e come eliminarlo coi ragionamenti? Eliminare il pauperismo? Ma se è condizione necessaria del capitalismo! Dare alloperaio lintero frutto del suo lavoro? Ma dove se ne andrebbe il profitto del capitale? E dove e come il denaro speso in merci potrebbe crescere di un tanto se, tra tutte le merci che incontra, e con le quali si scambia, non ce ne fosse appunto una che produce a chi la compri più di quel che gli costi; e se questa merce non fosse appunto la forza-lavoro [<=] presa a salario? Il sistema economico non è una fila o una sequela di astratti ragionamenti, ma è anzi un connesso e un complesso di fatti, in cui si genera una complicata tessitura di rapporti. Pretendere che questo sistema di fatti, che la classe dominatrice si è venuta costituendo a gran fatica, attraverso i secoli, con la violenza, con lastuzia, con lingegno, con la scienza, ceda le armi, ripieghi o si attenui, per far posto ai reclami dei poveri, o ai ragionamenti dei loro avvocati, gli è cosa folle. Chiedere a questa società che essa muti, anzi rovesci, il suo diritto, che è la sua difesa, gli è chiederle lassurdo. Chiedere a questo stato che esso cessi dallessere lo scudo, anzi il baluardo, di questa società e di questo diritto, è volere lillogico. Alle varie forme di utopismo ideologico e religioso se nè aggiunta così una nuova: lutopia burocratica e fiscale, ossia lutopia dei cretini. I comunisti critici riconobbero il diritto della storia di fare il suo cammino. La fase borghese è superabile, sì, e sarà superata: ma, finché dura, ha le sue leggi.
Il proletariato è bene che arrivi a conoscere perspicuamente ciò che esso può, ossia che si avvii a saper volere ciò che può, insomma che si metta in carreggiata per riuscire a risolvere (per usare il gergo un po sciatto dei pubblicisti) la cosiddetta questione sociale. Malgrado il divieto anticipato del socialismo scientifico, che non è dato a tutti dintendere, pullulano e si moltiplicano a ogni istante i farmacisti della questione sociale, che hanno tutti qualcosa di particolare da suggerire o da proporre per curare o eliminare questo o quel malanno sociale, da non finirla mai! E perfino i semisocialisti, perfino i ciarlatani che ingombrano di sé la stampa e le assemblee dei nostri partiti non sempre senza imbarazzo nostro! sono un omaggio che le vanità e le ambizioni di ogni maniera rendono a modo loro al socialismo. Ma la democrazia sociale elimina tutte codeste fantasie. Occorre ricordare come il nome di democrazia sociale avesse significati molto vari tra di loro, che tutti poi si diluirono in un vago sentimento. Certo è che democrazia sociale può significare, ha significato e significa tante cose, che né furono, né sono, né saranno mai, né il comunismo né il consapevole avvio alla rivoluzione proletaria. Certo è, del pari, che il socialismo contemporaneo, anche nei paesi dove lo sviluppo suo è stato più chiaro, preciso e progredito, ha sopra di sé molta scoria dalla quale deve via via liberarsi lungo il suo cammino; e certo è, infine, che a tanti intrusi e ingrati ospiti tra noi fa da scudo e da coperchio la troppo lata denominazione di democrazia sociale.
Ma qui preme di dire ben altro, e di fissare lattenzione sopra un punto di capitale importanza. Conviene innanzitutto accentuare la prima parola del termine composto, non già a risolvere ogni questione, ma a ovviare a equivoci e alterazioni. Democratica [<=] fu la nascita, la storia e il modo di procedere, anche nellaccogliere, discutendola, la nuova dottrina, del comunismo [<=]. Nel primo incunabolo dei nostri attuali partiti, in quella prima cellula del nostro complesso, elastico e sviluppatissimo organismo, era già la forma e il metodo di convivenza, che soli convengono ai preparatori della rivoluzione proletaria. La sètta era superata di fatto; il predominio immediato e fantastico dellindividuo era già eliminato. Così è e deve essere nei partiti proletari e, dove ciò non è, lagitazione proletaria, elementare appena e confusa, genera soltanto illusioni o dà pretesto allintrigo. Ciò che così non è, sarà la conventicola, nella quale accanto allilluso siede il pazzo e la spia; o sarà la sètta; o sarà la cooperativa [<=] che degeneri in impresa, e si venda a un potente; o il partito operaio non politico, che studia tra le altre cose le contingenze del mercato [<=], per introdurre la tattica degli scioperi nelle sinuosità della concorrenza [<=]. O, da ultimo, laccozzaglia dei malcontenti, per la più parte spostati e piccoli borghesi che speculano sul socialismo come su di una tra le tante altre frasi della moda politica.
Tutti questi e altrettanti impedimenti la democrazia sociale sè trovata tra i piedi sul suo cammino, e dovette più volte, come deve tuttora, sbarazzarsene. Né sempre valse larte della persuasione: il più delle volte convenne e conviene rassegnarsi, e aspettare che gli illusi traessero o traggano dalla dura scuola del disinganno lammaestramento, che non sempre si riceve volentieri per via dei ragionamenti. Codeste intrinseche difficoltà del movimento proletario, che la scaltra borghesia può spesso fomentare, e difatti sfrutta, formano una non piccola parte della storia interna del socialismo. Il socialismo non trovò impedimenti al suo sviluppo soltanto nelle condizioni generali della concorrenza economica e nella resistenza dellapparato politico, ma anche nelle condizioni stesse della massa proletaria. Il comunismo critico è tuttuna cosa col movimento proletario, vede e sorregge questo movimento nella sua piena intelligenza della connessione che esso ha, o può e deve avere, con linsieme di tutti i rapporti della vita sociale. Esso è la coscienza [<=] della rivoluzione [<=] proletaria, e soprattutto, in certe contingenze, la coscienza delle sue difficoltà: non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse.
[a.l.]
(da Antonio Labriola, Del materialismo storico, In memoria del Manifesto, 1895-96)
Denaro
(terza merce)
La forma generale di equivalente nasce e finisce col contatto sociale momentaneo che lha chiamata in vita, e tocca fuggevolmente e alternativamente a questa o a quella merce. Ma con lo svilupparsi dello scambio delle merci [<=], essa aderisce saldamente ed esclusivamente a particolari generi di merce, ossia si cristallizza in forma di denaro, che aderisce o ai più importanti articoli di baratto dallestero, che di fatto sono forme fenomeniche naturali e originarie del valore di scambio dei prodotti indigeni, oppure alloggetto duso che costituisce lelemento principale del possesso alienabile indigeno, come a esempio, il bestiame. I popoli nomadi sviluppano per primi la forma di denaro, poiché tutti i loro beni si trovano in forma mobile, quindi immediatamente scambiabile. La forma di denaro passa a merci che per natura sono adatte alla funzione sociale di equivalente generale, e quindi il valore delle merci si amplia a materializzazione del lavoro umano in genere.
Poiché tutte le altre merci sono soltanto equivalenti particolari del denaro e il denaro è il loro equivalente generale, esse si comportano come merci particolari nei confronti del denaro come merce universale. La forma di denaro è soltanto il riflesso delle relazioni di tutte le altre merci che aderisce saldamente ad una merce. Che loro sia merce costituisce dunque una scoperta soltanto per colui che parte dalla sua figura compiuta per analizzarla a posteriori. Il processo di scambio non dà alla merce che esso trasforma in denaro, il suo valore, ma la sua forma specifica di valore.
Negli scritti inglesi è indicibile la confusione fra misura dei valori (measure of value) e scala dei prezzi (standard of value). Le funzioni, e quindi i loro nomi, vengono continuamente scambiate. Come misura dei valori e come scala dei prezzi il denaro adempie a due funzioni del tutto diverse. È misura dei valori, quale incarnazione sociale del lavoro umano; è scala dei prezzi quale peso stabilito di un metallo. Come misura di valore, serve a trasformare i valori delle merci varie e multicolori in prezzi, in quantità ideali di oro; come scala dei prezzi esso misura quelle quantità doro. Sulla misura dei valori si misurano le merci come valori, invece la scala dei prezzi misura quantità doro su una quantità doro, non il valore duna quantità doro sul peso delle altre. Per la scala dei prezzi occorre fissare un determinato peso doro come unità di misura. La scala dei prezzi adempie dunque la sua funzione tanto meglio quanto più invariabilmente ununica e medesima quantità di oro serve come unità di misura. La confusione fra le due determinazioni ha indotto a ritenere immaginario il valore delloro e dellargento. Loro può servire come misura dei valori soltanto perché anchesso è prodotto di lavoro [<=].
Si presuppone, per semplicità, che loro sia la merce-denaro. La prima funzione delloro consiste nel fornire al mondo delle merci il materiale della sua espressione di valore, ossia nel rappresentare i valori delle merci come grandezze omonime, qualitativamente identiche e quantitativamente comparabili. Così esso funziona come misura generale dei valori: e solo in virtù di questa funzione loro [<=], che è la merce equivalente specifica, diventa denaro. Le merci non diventano commensurabili per mezzo del denaro. Viceversa, poiché tutte le merci come valori sono lavoro umano oggettivato, quindi sono commensurabili in sé e per sé, possono misurare i loro valori in comune in una stessa merce speciale, ossia in denaro. Il denaro come misura di valore è la forma fenomenica necessaria della misura immanente di valore delle merci, del tempo di lavoro. Si leggano a rovescio le quotazioni dun listino dei prezzi correnti e si troverà la grandezza di valore del denaro, rappresentata in tutte le merci possibili. Invece il denaro non ha prezzo. Per partecipare a questa forma di valore unitaria delle altre merci, il denaro dovrebbe esser riferito a se stesso come proprio equivalente.
Ora, la congruenza delle qualità naturali delle merci con la funzione del denaro mostra che benché oro e argento non siano naturalmente denaro, il denaro è naturalmente oro e argento. Quindi nel denaro non si vede di che stampo è la merce in esso trasformata. Una merce, nella sua forma di moneta, ha lidentico aspetto dellaltra. Quindi il denaro può essere sterco, benché lo sterco non sia denaro. Appena entra in circolazione come denaro, il suo valore è già dato. La difficoltà non sta nel capire che il denaro è merce, ma nel capire come, perché, per qual via una merce è denaro. Non sembra che una merce diventi denaro soltanto perché le altre merci rappresentano in essa, da tutti i lati, i loro valori, ma sembra, viceversa, che le altre merci rappresentino generalmente in quella i loro valori, perché essa è denaro. Il movimento mediatore scompare nel proprio risultato senza lasciar traccia. Le merci trovano la loro propria figura di valore davanti a sé belle pronta, senza che esse ci entrino, come un corpo di merce esistente fuori di esse e accanto a loro. Queste cose che sono loro e largento, come emergono dalle viscere della terra, sono sùbito lincarnazione immediata di ogni lavoro umano.
In un primo tempo le merci entrano nel processo di scambio non dorate, non inzuccherate, così come sono. Il processo di scambio produce uno sdoppiamento della merce in merce e in denaro, opposizione esterna nella quale esse rappresentano la loro opposizione immanente di valore duso e di valore. In questa opposizione le merci come valori di uso si oppongono al denaro come valore di scambio. Daltra parte, tutte e due le parti dellopposizione sono merci, quindi unità di valore duso e valore. Ma questa unità di cose differenti presenta se stessa in ognuno dei due poli inversamente allaltro, e con ciò rappresenta simultaneamente anche il loro rapporto reciproco. La merce è realmente valore duso, il suo essere valore appare solo idealmente nel prezzo, il quale la riferisce alloro che le sta di fronte, come a sua reale figura di valore. Viceversa, il materiale oro vale soltanto come materializzazione di valore, denaro. Realmente, quindi, è valore di scambio. Il suo valore duso appare ormai soltanto idealmente.
Funzione del denaro è di servire come forma fenomenica adeguata di valore, ossia come il materiale nel quale si esprimono socialmente le grandezze di valore delle merci; materializzazione di lavoro umano astratto e quindi eguale, può essere soltanto una materia, tutti gli esemplari della quale posseggano la stessa uniforme qualità. Poiché la differenza della grandezza di valore è puramente quantitativa, la merce-denaro devessere suscettibile di differenze meramente quantitative, cioè devessere divisibile ad arbitrio, e devessere ricomponibile, riunendone le parti. E loro e largento posseggono per natura queste proprietà. Il valore duso della merce-denaro si raddoppia. Accanto al suo valore duso particolare come merce (materia prima per articoli di lusso, ecc.) essa riceve un valore duso formale, che sorge dalle sue funzioni sociali specifiche.
La forma di equivalente duna merce non implica la determinazione quantitativa della sua grandezza di valore. Se si sa che loro è denaro, e quindi è immediatamente scambiabile con tutte le altre merci, non perciò si sa quanto valgono, per esempio, dieci libbre doro. Come ogni merce, il denaro può esprimere la propria grandezza di valore solo relativamente, in altre merci. II suo proprio valore è determinato dal tempo di lavoro [<=] richiesto per la sua produzione e si esprime nelle quantità di ogni altra merce nella quale si è coagulato altrettanto tempo di lavoro. Il contegno degli uomini, puramente atomistico nel loro processo sociale di produzione, e quindi la figura materiale dei loro propri rapporti di produzione, indipendente dal loro controllo e dal loro consapevole agire individuale, si mostrano in primo luogo nel fatto che i prodotti del loro lavoro assumono generalmente la forma di merci. Quindi lenigma del feticcio denaro è soltanto lenigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia locchio. Di qui la magia del denaro.
Loro è diventato moneta ideale ossia misura di valore perché tutte le altre merci hanno misurato in oro i propri valori, e ne hanno così fatto lantitesi rappresentata della loro figura duso, la loro figura di valore. Loro diventa poi moneta reale, perché le merci, con la loro generale alienazione, ne fanno la loro figura duso realmente spogliata, ossia trasformata, e quindi la loro reale figura di valore. Nella sua figura di valore, la merce si spoglia di ogni traccia del suo valore duso naturale ed originario, e del lavoro utile particolare al quale deve la sua nascita, per abbozzolarsi nella materializzazione sociale uniforme del lavoro umano indifferenziato.
Quindi i valori delle merci sono trasformabili in quantità rappresentate doro, di differente grandezza, e quindi, malgrado la variopinta confusione dei corpi delle merci, in grandezze omonime, in grandezze auree. Ed esse si confrontano e si misurano luna con laltra quali quantità doro differenti, e così si sviluppa tecnicamente la necessità di riferirle a una quantità doro fissata, come loro unità di misura. Tale unità di misura, a sua volta, viene ulteriormente sviluppata a scala, mediante la sua suddivisione in parti aliquote. Oro, argento, rame, posseggono tali scale già prima di divenir denaro, nei loro pesi di metallo.
La variazione di valore delloro non impedisce neppure la sua funzione di misura di valore. Essa colpisce contemporaneamente tutte le merci, quindi, cteris paribus, lascia immutati i loro valori relativi reciproci, sebbene ora essi si esprimano, tutti, in prezzi aurei più alti o più bassi di prima. Come nella rappresentazione del valore di una merce in valore duso di una qualsiasi altra merce, anche nella valutazione in oro delle merci, si presuppone soltanto che in un dato periodo la produzione di una determinata quantità doro costi una quantità data di lavoro.
Nei loro prezzi, le merci sono già identificate a determinate quantità ideali di denaro. Poiché dunque la forma di circolazione [<=] immediata che qui consideriamo, contrappone sempre corporeamente merce e denaro, quella al polo della vendita, questo al polo antitetico della compera, la massa di mezzi di circolazione richiesta per il processo di circolazione del mondo delle merci è già determinata dalla somma dei prezzi delle merci. Di fatto il denaro non fa che rappresentare realmente la somma doro già rappresentata idealmente nella somma dei prezzi delle merci. Quindi leguaglianza di queste somme è ovvia. Ma, eguali rimanendo i valori delle merci, i loro prezzi variano col valore delloro (materiale del denaro) stesso, e salgono proporzionalmente se quello cade, cadono se quello sale. Il prezzo delle merci varia in primo luogo in ragione inversa del valore del denaro, e in séguito varia la massa dei mezzi di circolazione in ragione diretta del prezzo delle merci. Le stesse monete, come figura trasmutata di merce, arrivano nella mano del venditore, e poi la lasciano come forma assolutamente alienabile della merce.
[k.m.]
(da Il capitale, I.2-3)
Denaro # 2
(capitale e reddito)
Il desiderio che il capitale non sia
capitale, ossia che si eviti prudentemente, per quiescenza
ideologica, di considerarlo come tale è sempre stato il
desiderio di tutta leconomia politica che proclama a
voce alta lintangibile superiorità della società
capitalistica (fino a sbatterci il muso, come adesso). Si
regredisce fino a identificare la circolazione capitalistica con
il semplice scambio di merci o addirittura con la permuta di
prodotti per luso immediato; gli economisti risolvono
comodamente i rapporti della produzione capitalistica
nelle relazioni dello scambio semplice, o addirittura in
quelle naturali del baratto e del consumo. Lappiattimento
del concetto di denaro, assolutamente indistinto (e
volutamente identificato semanticamente con il termine
moneta in inglese semplicemente solo money,
con grande raccapriccio dellesule tedesco a Londra Karl
Marx) comporta anche la confusione del denaro come
capitale con il denaro come reddito. E questo è un
tema conduttore divenuto prerogativa di tutta la male
intesa scienza economica.
In nessuna scienza scriveva Marx
[C, I.3] domina il costume di darsi tanta
importanza con luoghi comuni elementari come nelleconomia
politica. In primo luogo, lidentificazione di
circolazione delle merci e scambio immediato dei prodotti,
mediante un semplice fare astrazione dalle loro
differenze. In secondo luogo, il tentativo di ignorare le
contraddizioni del processo capitalistico di produzione,
risolvendo i rapporti degli agenti di produzione di tale processo
nelle relazioni semplici che sorgono dalla circolazione
delle merci. Ma produzione delle merci e circolazione delle merci
sono fenomeni che appartengono insieme a differentissimi
modi di produzione, sia pure in mole e con portata differenti.
Dunque, quando si conoscono soltanto le categorie astratte della
circolazione delle merci, comuni a quei modi di produzione non si
sa ancor niente della differenza specifica di essi.
Nellanalisi dello sviluppo del processo
sociale di produzione, e dei corrispondenti rapporti economici
più sviluppati, non si scende dalla superficie più in
profondità, rimanendo alla mera apparenza. Così,
leconomia dominante da oltre un secolo afferma
semplicemente che tutti i rapporti economici del capitale sono soltanto
nomi diversi per i medesimi rapporti sempre esistiti.
Ipotizzando che il valore di scambio con plusvalore sia
sinonimo del valore di scambio senza plusvalore, e così
sopraffatto il valore di scambio, perfino nel suo aspetto
generico, soltanto come un altro nome del valore
duso, leconomia passa indistintamente dal
prodotto alla merce e al denaro, e poi allo scambio nella forma
del capitale; dal lavoro in generale al lavoro salariato e al
salario direttamente, al profitto, allinteresse e alla
rendita come se nulla mutasse. Dietro ai tentativi di
rappresentare la circolazione delle merci come fonte di
plusvalore, sta in agguato per lo più un qui pro quo, una
confusione fra valore duso e valore di scambio.
Per le tesi delleconomia non cè
alcuna differenza specifica tra la compravendita di prestazioni
di lavoro rispetto allacquisto di un frigorifero o di una
pressa, della copia di un giornale o dellintera testata e
tipografia; non cè alcuna differenza tra il primo caso,
nella spesa di denaro in veste di reddito
(salariale o altro) per il consumo finale, e il secondo come capitale
per non dire del deposito di denaro in banca, come denaro
in sé, prima che diventi capitale, reddito, accantonamento o
fondo speculativo. È su questa falsa identificazione che si basa
leconomia, per circoscrivere la sua attenzione alla sola forma
esteriore della circolazione semplice della merce e del
denaro e per escludere così, come eccezioni dalla norma,
ingiustizie, eccessi, corruzione o anomalie nella circolazione
stessa, che appunto nello scambio anche per il capitale
sulla sua base limitata rispettano lequità.
Infatti, liniquità capitalistica non sta nella
circolazione o scambio ma nelluso della forza-lavoro
nella produzione: ecco la radice della differenza specifica del denaro
come capitale rispetto al denaro come reddito o come
denaro stesso in sé. Il sotterfugio sta nel non vedere
nel carattere del modo di produzione il fondamento
del modo di circolazione a esso corrispondente, ma
viceversa commentava con grande anticipo Marx,
concludendo lanalisi del ciclo di metamorfosi del capitale
[C, II.4] e si riconduce a questa la basilare
caratteristica limitata delleconomia.
La motivazione del possibile
accrescimento di denaro (di valore e di capitale) nel processo
immediato di produzione ha portato poi gli economisti (guidati da
Keynes, nato il 5 giugno dello stesso anno in cui morì Marx,
1883, il 14 marzo; curiosamente poco più di un mese prima, 8
febbraio, era nato anche Schumpeter) a rabbassare lanalisi,
continuando a ignorare come già gli economisti volgari e
i marginalisti la differenza concettuale tra
denaro-capitale e denaro-reddito. Venne imputato a Marx un
uso altamente illogico della pregnante
osservazione vista per laspetto puramente formale
relativa alleccesso di D su D,
asserendo però che è questo eccesso per Marx la fonte del
plusvalore: fonte, per lappunto. Ma per Marx D
è sempre e necessariamente in eccesso su D (in
misura più o meno grande) a causa del concetto di capitale
stesso che esiste unicamente per un ineluttabile sistematico
accrescimento di D rispetto a D negli anni e
nei secoli, nel tempo e nello spazio: i casi contrari
nellintera epoca del capitale si contano, nella pratica,
sulle dita della mano, e infatti ciò è vero in generale anche
in caso di crisi (quando è sufficiente che si registri
sporadicamente un guadagno e una crescita inferiori a quanto
atteso). Ossia Marx capì che, nel sistema di accumulazione
capitalistica che non conosce limiti, prevaleva comunque
il carattere di sfruttamento della merce forza-lavoro
altrui. Senza la possibilità di scambio per luso
ineguale di forza-lavoro, il capitale non ha
interesse a operare.
Ma per Keynes e gli economisti è parimenti
lecito che sia D in eccesso su D, ossia che
il denaro anticipato come capitale possa essere in alcune
fasi anche svalorizzato, rispettando però nel tempo, e non in
ogni istante, la corrispondenza media tra D e D!
Perfino leconomia volgare suppone quindi, tutte le
volte che vuol considerare alla sua maniera il fenomeno allo
stato puro, che quella azione antitetica venga in generale a
cessare. Se dunque entrambi i permutanti possono guadagnare
riguardo al valore duso, non possono guadagnare
entrambi sul valore di scambio. Tale fenomeno è preso
come motivo, occultando così il fondamento produttivo del
capitale e invertendo pertanto la causa con leffetto. Il
nascondimento, la negazione dello sfruttamento
nelluso del lavoro altrui dopo uno scambio equo, per
leconomia era cosa fatta; e con lo sfruttamento la
scienza economica faceva sparire le classi, e
la duplice funzione del denaro. Fermatasi al solo lato formale
della questione, pretende di spiegare il nesso dei cicli
dei capitali col puro e semplice scambio tra denaro e merce (o
servizio). Sotto la superficie di simile descrizione non vi sono
dunque altro che atti di scambio (M-D \ D-M, posti solo in
ordine inverso D-M-D anziché M-D-M, come si vedrà
qui appresso) ignorando la sostanza che sta in agguato dietro
quel semplice mutamento di forma. I rapporti economici più
sviluppati vengono così rattrappiti nelle categorie antecedenti
semplici, dando a queste ultime solo nomi diversi e
adeguati, senza qualità peculiari. Anzi, qui vale il
detto: Dove vi è eguaglianza, non vi è lucro
[Galiani, Della moneta, 1751], ma ogni allontanamento da
ciò appare come infrazione della legge dello scambio delle
merci. Nella sua forma pura, questultimo è uno scambio di
equivalenti, quindi non è un mezzo di arricchirsi di
valore.
Del modo di produzione capitalistico si
lascia cadere a piacere ora questo ora quel lato del
rapporto specifico che viene ridotto alle determinazioni astratte
della circolazione semplice, così dimostrando che
le relazioni economiche, entro le quali gli individui si
incontrano in quelle sfere più sviluppate del processo di
produzione, sono soltanto le relazioni della circolazione
semplice, e così via [cfr. Marx, Lf. q,B''].
Ovviamente, in quanto non si consideri la circolazione del
capitale sostiene ancora Marx la realtà
idealizzata conduce a una teoria che, facendo astrazione dalle
contraddizioni che si incontrano a ogni passo nella realtà
stessa, non dà luogo a difficoltà e crisi. Non vi sarebbero
difficoltà e crisi se non vi fossero contraddizioni!
Il limite della produzione capitalistica
di merci, che fa del capitale una contraddizione vivente,
consiste appunto nella tendenza a espandere al massimo la
produzione di valori ma contemporaneamente a ostacolarla, nella
misura in cui in tali valori non è realizzabile il plusvalore,
o se si preferisce il profitto. Per realizzare il profitto, il
capitale deve necessariamente scambiare con un equivalente i
valori-merce che ne costituiscono la base. Questo scambio
costituisce quel processo che Marx, hegelianamente, connotava
come un movimento di repulsione da se stesso,
repulsione reciproca dei capitali che è già implicita nel
capitale in quanto valore di scambio realizzato. Per il capitale
in quanto specificamente distinto dalla merce semplice
non si tratta di soddisfare lo stato della domanda reale
di consumo immediato (denaro-reddito), bensì di
ristabilire ogni volta la domanda di pagamento per realizzare il
profitto (denaro-capitale). In altri termini, il capitale
è compiutamente definito come tale solo quando abbia di fronte a
sé altri capitali con cui scambiare.
[gf.p.]
Denaro # 3
(come denaro: merce semplice)
La forma immediata della circolazione
delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in denaro e
ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma
accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specificamente
differente, la forma D-M-D: trasformazione di denaro in
merce e ritrasformazione di merce in denaro, comprare per
vendere. Il denaro che nel suo movimento descrive
questultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa
capitale, ed è già capitale per sua destinazione. Entrambi
i cicli si suddividono nelle medesime fasi antitetiche: M-D,
vendita, e D-M, compera. In ognuna delle due fasi stanno
luno di contro allaltro i due medesimi elementi
materiali, merce e denaro e due personaggi nelle medesime
maschere economiche caratteristiche, un compratore e un
venditore. Ciascuno dei due cicli è lunità delle
medesime fasi antitetiche e, tutte e due le volte, questa unità
è mediata dallintervento di tre contraenti, uno dei quali
non fa che vendere, laltro non fa che comprare, mentre il
terzo alternativamente compera e vende.
Il ciclo M-D-M è percorso
completamente appena la vendita duna merce porta denaro,
che a sua volta viene sottratto dalla compera daltra merce.
Il ciclo M-D-M comincia da un estremo, che è una merce, e
conclude con un estremo, che è unaltra merce, la
quale esce dalla circolazione per finire nel consumo. Quindi il
suo scopo finale è consumo, soddisfazione di bisogni, in una
parola, valore duso. Il ciclo D-M-D comincia
invece dallestremo denaro e conclude ritornando allo stesso
estremo. Il suo motivo propulsore e suo scopo determinante è
quindi il valore di scambio. Nella circolazione semplice
delle merci i due estremi hanno la stessa forma economica.
Entrambi sono merce. E sono anche merci della stessa
grandezza di valore. Ma sono valori duso qualitativamente
differenti.
Nella circolazione semplice delle merci,
oltre alla sostituzione dun valore duso con un altro,
non avviene in essa circolazione altro che una metamorfosi, un
semplice cambiamento di forma della merce. In mano allo stesso
possessore di merci rimane lo stesso valore, cioè la
stessa quantità di lavoro sociale oggettivato, nella forma,
prima, della sua merce, poi del denaro nel quale si trasforma,
infine della merce nella quale questo denaro si ritrasforma. In
ogni caso, sul mercato delle merci si trovano di contro solo
possessore di merci e possessore di merci; il potere che queste
persone esercitano luna sullaltra è soltanto il
potere delle loro merci. La differenza materiale delle merci è
il motivo materiale dello scambio e rende i possessori di merci
alternativamente dipendenti luno dallaltro, in quanto
nessuno di essi tiene in propria mano loggetto del proprio
bisogno e ognuno di essi ha in mano loggetto del bisogno
dellaltro. Oltre a questa differenza materiale dei loro
valori duso, fra le merci cè soltanto unaltra
differenza, la differenza fra la loro forma naturale e la loro
forma trasmutata, la differenza fra merce e denaro. E così i
possessori di merci si distinguono solo come venditore,
possessore di merce, e compratore, possessore di denaro. Questo
cambiamento di forma della merce non implica nessuna mutazione
della grandezza di valore. Lo scambio dei prodotti, la
permuta dei differenti materiali nei quali il lavoro sociale si
presenta, costituisce qui il contenuto del movimento. Una
differenza di valore rimane puramente accidentale per questa
forma di circolazione, per sé presa: essa non perde
addirittura sensi e senno, come invece fa il processo D-M-D,
quando i due estremi siano equivalenti: qui anzi la loro
equivalenza è condizione del corso normale.
La ripetizione, ossia il rinnovamento della
vendita allo scopo di comprare, trova, come questo stesso
processo, la sua misura e il suo termine in uno scopo finale che
sta fuori di essa, nel consumo, nella soddisfazione di
determinati bisogni. Le forme autonome, le forme di denaro,
assunte nella circolazione semplice dal valore delle merci,
servono soltanto da mediazione allo scambio di merci, e
scompaiono nel risultato finale del movimento. Largomento
contrario è spesso ripetuto negli economisti moderni,
specialmente quando si tratta di rappresentare come produttivo di
plusvalore il commercio, la forma sviluppata dello
scambio di merci. Ma le merci non sono pagate due volte, una
volta per il loro valore duso e laltra per il loro
valore. E se il valore duso della merce è più utile al
compratore che al venditore, la forma di denaro della merce è
più utile al venditore che al compratore. Nella circolazione M-D-M
il denaro viene trasformato, alla fine, in merce che serve come
valore duso. Dunque il denaro è definitivamente speso. Nella
forma inversa, D-M-D, invece, il compratore spende denaro
per incassare denaro come venditore. Alla compera della
merce egli getta denaro nella circolazione, per tornare a
sottrarlo a mezzo della vendita della stessa merce. Non lascia
andare il denaro che con la perfida intenzione di tornarne in
possesso. Il denaro viene quindi soltanto anticipato.
Nella forma M-D-M la medesima
moneta cambia di posto due volte. Il venditore la riceve dal
compratore, e la dà via in pagamento a un altro venditore. Il
processo complessivo, che comincia con lincasso di denaro
in cambio di merce, si conclude con la consegna di denaro in
cambio di merce. Allinverso nella forma D-M-D. Qui
non è la medesima moneta a cambiare di posto due volte,
ma la medesima merce. Il compratore la riceve dalle mani
del venditore e la dà via in mano dun altro compratore.
Come nella circolazione semplice delle merci il duplice
spostamento della stessa moneta opera definitivo
passaggio da una mano allaltra, così qui il duplice
spostamento della medesima merce opera il riafflusso
del denaro al suo primo punto di partenza, e non
dipende dal fatto che la merce sia venduta più cara di quanto
sia stata comprata ma solo sulla grandezza della somma di
denaro che riaffluisce. Così il ciclo D-M-D è descritto
completamente; senza questo riafflusso loperazione è
fallita, ossia il processo è interrotto e non è ancora
compiuto, perché manca la seconda fase di esso, la vendita che
integra e conclude la compera. E questa è una distinzione
tangibile fra la circolazione del denaro come capitale e la
circolazione del denaro come puro e semplice denaro.
[k.m.]
Denaro come capitale
(formula generale del capitale)
La circolazione delle merci è il punto di
partenza del capitale. La produzione delle merci e la
circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio,
costituiscono i presupposti storici del suo nascere.
Il commercio mondiale e il mercato mondiale aprono nel sec. XVI
la storia moderna della vita del capitale. Se facciamo astrazione
dal contenuto materiale della circolazione delle merci, allo
scambio dei vari valori duso, e consideriamo soltanto le
forme economiche generate da questo processo, troviamo che
suo ultimo prodotto è il denaro. Questultimo
prodotto della circolazione delle merci è la prima forma
fenomenica del capitale. Dal punto di vista storico,
il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà fondiaria
nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale
mercantile e capitale usurario (Non cè
terra senza signore. Il denaro non ha padrone antico
proverbio francese).
Il denaro nacque per lo scambio di merci, ma
lusura fa del denaro più denaro, Poiché i figli
sono simili ai loro genitori. E lusura è denaro uscito dal
denaro, cosicché tra tutti i modi di guadagno questo è il più
contro natura (Aristotele). Nel caso della nostra indagine
incontreremo, come forma derivata, oltre il capitale
mercantile, il capitale produttivo dinteresse.
Tuttavia, non cè bisogno dello sguardo retrospettivo alla
storia dellorigine del capitale, per riconoscere che il
denaro è la prima forma nella quale il capitale si presenta: la
stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi.
Ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il
mercato mercato delle merci, mercato del lavoro,
mercato del denaro in prima istanza come denaro,
ancora e sempre: denaro che si dovrà trasformare in capitale
attraverso processi determinati. Denaro come denaro e denaro
come capitale si distinguono in un primo momento soltanto
attraverso la loro differente forma di circolazione.
Come la circolazione semplice delle merci, il
ciclo del capitale contiene due fasi antitetiche luna
allaltra. Nella prima fase, D-M, compera, il
denaro viene trasformato in merce. Nella seconda fase, M-D,
vendita, la merce viene ritrasformata in denaro. Ma
lunità delle due fasi è il movimento complessivo che
scambia denaro contro merce, e questa stessa merce, a sua
volta, contro denaro; che compera merce per venderla, ossia, se
si trascurano le differenze formali fra compera e vendita,
compera merce con il denaro e denaro con la merce. Il risultato
nel quale si risolve tutto il processo è: scambio di denaro
contro denaro, D-D. Ora, è evidente, certo, che il processo
di circolazione D-M-D sarebbe assurdo e senza sostanza se
si volesse servirsene come duna via indiretta per scambiare
lidentico valore in denaro contro lidentico valore in
denaro. Rimarrebbe più semplice e più sicuro, senza paragone,
il metodo del tesaurizzatore, che tiene stretto il suo denaro e
non lo abbandona al pericolo della circolazione.
Quel che importa è in primo luogo di
caratterizzare le distinzioni di forma fra i cicli D-M-D
e M-D-M: così si avrà anche la distinzione di
contenuto che sta in agguato dietro quelle distinzioni di
forma. Ma quel che distingue a priori ì due cicli M-D-M e
D-M-D è lordine inverso delle identiche e
antitetiche fasi dei ciclo. La circolazione semplice delle merci
comincia con la vendita e finisce con la compera; la circolazione
del denaro come capitale comincia con la compera e finisce
con la vendita. Là è la merce a costituire il punto di
partenza e il punto conclusivo del movimento; qui è il denaro.
Nella prima forma la circolazione complessiva è mediata dal
denaro, nella seconda, nel ciclo D-M-D, viceversa, dalla
merce. A prima vista esso sembra senza contenuto, perché
tautologico. Entrambi gli estremi hanno la stessa forma
economica. Entrambi sono denaro, quindi non sono valori
duso qualitativamente distinti, poiché il denaro è
per lappunto la figura trasformata delle merci, nella quale
i loro valori duso particolari sono estinti.
Una somma di denaro si può distinguere da
unaltra somma di denaro, in genere, soltanto mediante la
sua grandezza. Dunque il processo D-M-D non deve il
suo contenuto a nessuna distinzione qualitativa dei suoi
estremi, poiché essi sono entrambi denaro, ma lo deve
solamente alla loro differenza quantitativa. Nella compera
a scopo di vendita, principio e fine sono la medesima cosa:
denaro, valore di scambio, e già per ciò il movimento
è senza fine. Considerati quantitativamente sono una somma
di valore limitata e se fossero spesi come denaro,
essi cesserebbero di rappresentare la loro parte. Cesserebbero di
essere capitale. Sottratti alla circolazione, si
pietrificano in un tesoro e non saccrescono neppure
dun centesimo, anche se continuano a stare immagazzinati
fino al giorno del giudizio universale. In fin dei conti, vien
sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato
gettato al momento iniziale. La forma completa di questo processo
è quindi D-M-D, dove D=D+?D, cioè la
somma di denaro originariamente anticipata, più un incremento:
chiamo plusvalore questo incremento, ossia questa
eccedenza sul valore originario. Di fatto, quindi, D-M-D,
è la formula generale del capitale, come esso si
presenta immediatamente nella sfera della circolazione.
Quindi nella circolazione il valore
originariamente anticipato non solo si conserva, ma in essa altera
anche la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore,
ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma
in capitale. Dunque, una volta che si tratti di valorizzazione
del valore, la somma di denaro originariamente anticipata
più lincremento hanno ambedue la stessa vocazione di
avvicinarsi alla ricchezza assoluta espandendo la propria
grandezza. Alla fine del processo, non si ha da una parte il
valore originale e dallaltra il plusvalore: il risultato è
un solo valore che si trova nella stessa e
corrispondente forma, cioè pronto a cominciare il processo
di valorizzazione. Alla fine del movimento, risulta, ancora, denaro,
e come nuovo inizio del movimento. Quindi la fine di ognuno dei
singoli cicli nei quali si compie la compera per la vendita,
costituisce di per se stessa linizio di un nuovo ciclo. La
circolazione semplice delle merci la vendita per
la compera serve di mezzo per un fine ultimo che sta
fuori della sfera della circolazione, cioè per
lappropriazione di valori duso, per la soddisfazione
di bisogni. Invece, la circolazione del denaro come capitale
è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste
soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il
movimento del capitale è senza misura.
Il contenuto oggettivo di quella circolazione
la valorizzazione del valore è il fine
soggettivo del capitalista, ossia capitale personificato dotato
di volontà e di consapevolezza, solamente in quanto lunico
motivo propulsore delle sue operazioni è una crescente
appropriazione della ricchezza astratta. Quindi il valore
duso non devessere mai considerato fine immediato del
capitalista. E neppure il singolo guadagno: ma soltanto
lincessante moto del guadagnare. Questo impulso
assoluto allarricchimento, questa caccia appassionata al
valore è comune al capitalista e al tesaurizzatore, ma il
tesaurizzatore è soltanto il capitalista ammattito, mentre
invece il capitalista è il tesaurizzatore razionale.
Quellincessante accrescimento del valore, al quale tendono
gli sforzi del tesaurizzatore quando cerca di salvare il denaro
dalla circolazione, viene raggiunto dal capitalista, più
intelligente, che torna sempre di nuovo ad abbandonarlo alla
circolazione.
Nella circolazione D-M-D, luna e
laltra, merce e denaro, funzionano soltanto come differenti
modi di esistere del valore stesso: il denaro come suo modo
di esistenza generale, la merce come suo modo di esistenza
particolare, per così dire, solo in travestimento. Il valore
trapassa costantemente da una forma allaltra, senza
perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto
automatico. Se si fissano le forme fenomeniche particolari
assunte alternativamente nel ciclo della sua vita dal valore
valorizzantesi, si hanno le dichiarazioni: capitale è denaro,
capitale è merce. Ma di fatto qui il valore diventa soggetto
di un processo nel quale esso, nellassumere forma di
denaro e forma di merce, passando continuamente dalluna
allaltra, altera anche la propria grandezza e, in qualità
di plusvalore, si stacca da se stesso in quanto valore
iniziale: valorizza se stesso. Perché il movimento
durante il quale esso aggiunge plusvalore è il movimento suo
proprio, il suo valorizzarsi, quindi la sua autovalorizzazione.
Per il fatto desser valore, ha ricevuto la proprietà
occulta di partorir valore.
Come soggetto prepotente di tale
processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e
la forma di merce, ma in questo variare si conserva e si espande,
il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per
mezzo della quale venga constatata la sua identità con se
stesso. E possiede questa forma solo nel denaro. Quindi il
denaro costituisce il punto di partenza e il punto conclusivo
dogni processo di valorizzazione. Ma qui il denaro, per
sé preso, conta solo come una forma del valore,
poiché questo ha due forme. Senza lassunzione
della forma di merce il denaro non diventa capitale,
quindi il denaro non si presenta qui in antagonismo con la merce,
come nella tesaurizzazione. Il capitalista sa che tutte le merci,
per quanto possano aver aspetto miserabile o per quanto possano
aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro per
far del denaro più denaro.
Il valore entra ora, per così dire, in
relazione privata con se stesso. Si distingue, come valore
originario, da se stesso come plusvalore, allo stesso modo che
dio padre si distingue da se stesso come dio figlio, ed entrambi
sono coevi e costituiscono di fatto una sola persona, poiché
solo mediante il plusvalore diventano capitale, e appena sono
diventati capitale, appena è generato il figlio e, mediante il
figlio, il padre, la loro distinzione torna a scomparire. Il
valore diventa dunque valore in processo, denaro in processo e,
come tale, capitale. Viene dalla circolazione, ritorna in
essa, si conserva e si moltiplica in essa, ne ritorna ingrandito
e torna a ripetere sempre di nuovo lo stesso ciclo. D-D,
denaro che genera denaro; così suona la descrizione del capitale
in bocca ai suoi primi interpreti, i mercantilisti. Nel capitale
produttivo dinteresse la circolazione D-M-D
si presenta abbreviata, si presenta nel suo risultato
senza la mediazione, in stile, per cosi dire, lapidario
come D-D, denaro che equivale a più denaro, valore
più grande di se stesso. Ma un rialzo di prezzo nominale
e generale produce lo stesso effetto che se per esempio i valori
delle merci fossero stimati in argento invece che in oro. I nomi
in denaro, cioè i prezzi delle merci, gonfierebbero; ma i loro
rapporti di valore rimarrebbero inalterati.
Quindi i sostenitori coerenti della illusione
che il plusvalore scaturisca da un supplemento nominale di
prezzo, ossia dal privilegio del venditore di vendere la
merce troppo cara, suppongono una classe che compri soltanto
senza vendere, che quindi anche consumi senza produrre. Lesistenza
di tale classe è ancora inspiegabile dal punto di vista della
circolazione semplice.
Comprare per vendere, ossia, in modo
più completo, comprare per vendere più caro, D-M-D,
invero sembra forma propria solo di una specie di
capitale, del capitale mercantile. Ma anche il capitale
industriale è denaro che si trasforma in merce e, mediante
la vendita della merce, si ritrasforma in più denaro. Gli atti
che si svolgono, per esempio, tra la compera e la vendita, al
di fuori della sfera di circolazione, non cambiano nulla a
tale forma del movimento.
La trasformazione del denaro in capitale deve
essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di
equivalenti. Il cambiamento può derivare dunque soltanto da
una merce specifica, una merce il cui valore duso
stesso possieda la peculiare qualità desser fonte
di valore: la capacità di lavoro, ossia la
forza-lavoro.
[k.m.]
(testi tratti da C, I.4)
Denaro e forza-lavoro
(Hic Rhodus, hic salta!)
Dopo lo scambio, abbiamo lo stesso valore
complessivo. Il valore circolante non sè ingrandito
neppure di un atomo: quella che è cambiata è la distribuzione
del valore circolante. Si presenta da una parte come plusvalore
quel che dallaltra è minusvalore, si presenta
come un più da una parte quel che è un meno dallaltra.
Sarebbe accaduto lo stesso cambiamento se uno avesse direttamente
rubato allaltro, senza mascherare la cosa nella forma
dello scambio. È evidente che la somma dei valori circolanti non
può essere aumentata da nessun cambiamento nella loro
distribuzione. La circolazione, ossia lo scambio delle merci, non
crea nessun valore. Nel capitale mercantile gli estremi
il denaro gettato sul mercato e il denaro aumentato
sottratto al mercato sono per lo meno connessi dalla
mediazione della compera e della vendita, dal movimento della
circolazione. Nel capitale usurario la forma D-M-D
è abbreviata e ridotta agli estremi immediati D-D, denaro
che si scambia con più denaro; forma incompatibile con la natura
del denaro e quindi inspiegabile dal punto di vista dello
scambio di merci.
Daltra parte, tutto intero il movimento
si svolge allinterno della sfera della circolazione. Ma
poiché è impossibile spiegare la trasformazione di denaro in
capitale, cioè la formazione di plusvalore, con la circolazione
stessa, esso appare deducibile soltanto dalla doppia
soverchieria, ai danni dei produttori di merci che comprano e
vendono, da parte del mercante che si insinua parassitariamente
tra di essi. In questo senso il Franklin dice: la guerra
è rapina, il commercio è imbroglio. Se la valorizzazione
del capitale mercantile non va spiegata soltanto con
linganno puro e semplice dei produttori di merci, occorre
una lunga serie di articolazioni intermedie che manca ancora del
tutto qui, dove la circolazione delle merci e i suoi momenti
semplici costituiscono il nostro unico presupposto. Quindi nella
sua formazione non può non accadere alle spalle della
circolazione qualcosa che è invisibile nella
circolazione stessa.
Ma il lavoro del possessore di merci non si
rappresenta nel valore della merce e in un eccedente sul valore
proprio di questa, non si rappresenta in un valore che sia più
grande di se stesso. Il possessore di merci può col suo
lavoro creare valori ma non valori che si valorizzino. Dunque
è impossibile che il produttore di merci, al di fuori della
sfera della circolazione e senza entrare in contatto con altri
possessori di merci, valorizzi valori e trasformi
quindi denaro o merce in capitale. Dunque è impossibile che
dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto
impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione. Deve
necessariamente scaturire in essa, ed insieme non in essa.
Dunque, si ha un duplice risultato. La trasformazione del denaro
in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti
allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio
di equivalenti. Il nostro possessore di denaro, che ancora
esiste soltanto come bruco di capitalista, deve comperare le
merci al loro valore, le deve vendere al loro valore, eppure alla
fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia
immesso. Il suo evolversi in farfalla deve avvenire entro la
sfera della circolazione e non deve avvenire entro la
sfera della circolazione. Queste sono le condizioni del problema.
Hic Rhodus, hic salta!
Il cambiamento di valore del denaro
che si deve trasformare in capitale non può avvenire in
questo stesso denaro, dunque il cambiamento deve verificarsi nella
merce che viene comprata nel primo atto, D-M, ma non nel valore
di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la
merce vien pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare
dunque soltanto dal valore duso della merce come
tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal
consumo duna merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe
esser tanto fortunato da scoprire, allinterno della
sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il
cui valore duso stesso possedesse la peculiare
qualità desser fonte di valore; tale dunque che il
suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di
lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore
di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità
di lavoro, o forza-lavoro. Per forza-lavoro intendiamo
linsieme delle attitudini fisiche e intellettuali che
esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente
dun uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che
produce valori duso di qualsiasi genere.
La forza-lavoro come merce può
apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o
venduta come merce dal proprio possessore, dalla
persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il
possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve
poterne disporre, quindi essere libero proprietario della
propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si
incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano
in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari
diritti, distinti solo per essere luno compratore,
laltro venditore, persone dunque giuridicamente
eguali. La continuazione di questo rapporto esige che il
proprietario della forza-lavoro la venda sempre e soltanto per un
tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta
per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da
possessore di merce in merce. Il proprietario di forza-lavoro, quale
persona, deve riferirsi costantemente alla propria
forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria
merce; e può farlo solo in quanto la mette a disposizione del
compratore ossia gliela lascia per il consumo, sempre e soltanto,
transitoriamente, per un periodo determinato di tempo, e dunque,
mediante lalienazione di essa, non rinuncia alla sua
proprietà su di essa: la capacità di
lavoro, se non è venduta, non è niente
[Sismondi, Nouveaux principes déconomie politique,
1819]. Essenziale è che il possessore di questa non abbia la
possibilità di vendere merci nelle quali si sia
oggettivato il suo lavoro, ma anzi, sia costretto a
mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro,
che esiste soltanto nella sua corporeità vivente.
Luomo è costretto ancora a consumare,
giorno per giorno, prima di produrre e mentre produce, come il
primo giorno della sua comparsa sulla scena della terra. Se i
prodotti vengono prodotti come merci, debbono essere venduti
dopo essere stati prodotti e possono soddisfare i bisogni del
produttore soltanto dopo la vendita. Al tempo della produzione si
aggiunge il tempo necessario per la vendita. Dunque, per
trasformare il denaro in capitale il possessore di
denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore
libero; libero nel duplice senso che disponga della propria
forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di
libera persona, e che, daltra parte, non abbia da vendere
altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie
per la realizzazione della sua forza-lavoro. La natura non
produce da una parte possessori di denaro o di merci e
dallaltra puri e semplici possessori della propria forza
lavorativa.
Questo rapporto non è un rapporto risultante
dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che
sia comune a tutti i periodi della storia. Per il capitale le
condizioni storiche di esistenza non sono affatto date di
per se stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso
nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di
sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come
venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione
storica comprende tutta una storia universale. Quindi il capitale
annuncia fin da principio unepoca del processo
sociale di produzione. Dunque, quel che dà il carattere
allepoca capitalistica è il fatto che la forza-lavoro
assume anche per lo stesso lavoratore la forma duna merce
che gli appartiene, mentre il suo lavoro assume la forma di
lavoro salariato. Daltra parte la forma di merci dei
prodotti del lavoro acquista validità generale solo da questo
momento in poi.
Lalienazione della forza-lavoro e il
suo reale estrinsecarsi, cioè la sua esistenza come valore
duso, sono fatti distaccati nel tempo. Ma per le merci per
le quali lalienazione formale del valore duso
mediante la vendita è distaccata nel tempo dalla consegna reale
al compratore, il denaro di questo ultimo funziona per lo più
come mezzo di pagamento. Ogni lavoro è pagato
quando è finito; il credito commerciale è
cominciato necessariamente nel momento in cui il lavoratore,
primo artefice della produzione, ha potuto, per mezzo delle sue
economie, aspettare il salario del suo lavoro. In tutti i
paesi dove domina il modo di produzione capitalistico la
forza-lavoro viene pagata soltanto dopo che ha già
funzionato durante il periodo fisso stabilito nel contratto: a
esempio alla fine di ogni settimana.
Dunque il lavoratore anticipa dappertutto
al capitalista il valore duso della forza-lavoro; la lascia
consumare dal compratore prima che gliene sia stato pagato il
prezzo: dunque il lavoratore fa credito dappertutto al
capitalista. Che questo far credito non sia vuota fantasia
non ce lo mostra soltanto loccasionale perdita del
salario, del quale il lavoratore ha fatto credito, a es. quando
il capitalista fa bancarotta. Però, che il denaro funzioni come
mezzo di acquisto o come mezzo di pagamento, non cambia in nulla
la natura dello scambio delle merci per sé preso. Il prezzo
della forza-lavoro è stabilito per contratto, benché venga
realizzato solo in un secondo tempo, come il canone
daffitto di una casa. La forza-lavoro è venduta benché
venga pagata soltanto in un secondo tempo.
Il valore duso che il possessore
del denaro riceve, per parte sua, nello scambio, si mostra
soltanto nel consumo reale, nel processo di consumo
della forza-lavoro. Il processo di consumo dalla
forza-lavoro è allo stesso tempo processo di produzione
di merce e di plusvalore. Il consumo della
forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori
del mercato ossia della sfera della circolazione. Quindi,
assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro,
lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è
accessibile a tutti gli sguardi, per seguire luno e
laltro nel segreto laboratorio della produzione sulla
cui soglia sta scritto: Vietato lingresso ai non addetti
ai lavori. Qui si vedrà non solo come produce il
capitale, ma anche come lo si produce, il capitale.
Finalmente ci si dovrà svelare larcano della fattura
del plusvalore.
Nel separarci da questa sfera della
circolazione semplice, ossia dello scambio di merci, donde il
liberoscambista vulgaris prende a prestito concezioni,
concetti e norme per il suo giudizio sulla società del capitale
e del lavoro salariato, la fisionomia delle nostre dramatis
personae sembra già cambiarsi in qualche cosa. Lantico
possessore del denaro va avanti come capitalista, il
possessore di forza-lavoro lo segue come suo lavoratore; luno
sorridente con aria dimportanza e tutto affaccendato,
laltro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al
mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro
che la ... conciatura.
[k.m.]
(testi tratti da C, i.4)
Derivati # 1
(contratto forward)
I derivati, detti anche diritti contingenti, sono strumenti finanziari il cui valore dipende da altre, fondamentali, variabili sottostanti. Detta così la definizione può risultare accademica e fumosa, quindi tentiamo di addentrarci nel tema con esempi pratici. Il derivato, lo dice la parola, deriva da qualcosa, ma sarebbe più esatto dire che dipende da qualcosa, ossia dipende dal sottostante. Quindi, annodando le definizioni, un derivato è contratto il cui valore dipende da qualcosaltro, che dà il diritto (o lobbligo) di effettuare una transazione ad una data stabilita. Il punto è cosa sia il qualcosaltro. La risposta è qualsiasi cosa, dalle oche dallevamento al valore di un tasso dinteresse, al grano, allacciaio, al petrolio, allequivalente in una determinata valuta. Prendiamo ad esempio il maiale. Se si vuole comprare un maialino si può andare al mercato e comprarlo al prezzo di mercato, poniamo 100 , ma anche no. Ammettiamo infatti che anziché comprare un maialino al mercato si preferisca firmare un contratto con un venditore di maiali che impegna lallevatore a venderci il suino in parola a 100 ma tra un mese. Tanto per districarci tra la terminologia, tale accordo si chiama contratto forward ed è la forma più elementare di derivato. Il venditore, in questo contratto, assume la cosiddetta posizione corta; simmetricamente, nel gergo dei trader, si costuma dire che lacquirente assume la posizione lunga. Manco a dirlo, il lattonzo (o mangano, porceddu, o sanat, ecc. secondo i dialetti) nel nostro psicodramma esplicativo, recita la parte del sottostante.
Ora, ammettiamo che il prezzo del lattonzo in questione vari nel tempo, e che, al momento dellacquisto effettivo, il prezzo dei maialini sia di 103 . Questo evento non muta di per sé i termini dellaccordo precedente, che va onorato. Dunque, loperatore in posizione lunga sborsa i suoi 100 euro e si aggiudica il maialino. Niente di più facile che, però, vedendo il prezzo di mercato incrementato, lacquirente decida di rinunciare ad infornarlo con tanto di patatine e rosmarino, e preferisca rivenderlo immediatamente sul mercato, guadagnando 3 tondi tondi. Da questo concetto deriva la nozione di valore del derivato: il valore è infatti, in prima approssimazione, la differenza tra il prezzo di mercato e il prezzo fissato al momento della stipula del contratto; va da sé che al momento della stipula tale differenza sia nulla, per poi oscillare nel corso della vita dello strumento finanziario. Ammettiamo infatti che dopo 10 giorni il prezzo del lattonzo sia stato di 98 . In tal caso, il valore del contratto sarebbe stato di 2 per la posizione corta e di 2 per la posizione lunga. In altre parole, se il contratto fosse scaduto in quel momento, lacquirente avrebbe fatto meglio a reperire il succoso suino direttamente sul mercato, anziché stipulare il derivato, mentre il venditore, in posizione corta, si fregherebbe le mani sperando che lo status raggiunto non giunga a modifiche.
Torniamo ai 100 con cui è stato stipulato il forward del nostro maialino. Tale prezzo è detto, appunto prezzo forward, definito come il prezzo che rende nullo il contratto, nel senso che non ci gudagna nessuno (nella fattispecie 100 ). Caratteristica del prezzo forward è di cambiare a secondo della scadenza, in misura pari al livello delle aspettative: ad esempio, il prezzo forward dei maialini ad un mese (ossia dei maialini il cui acquisto sarà perfezionato tra un mese) è, nel nostro esempio, 100 . Ciò non toglie che, per esempio, se il mercato prevede rialzi successivi dei prezzi, il prezzo forward dei maialini a 2 mesi possa essere maggiore, o che sia minore nel caso inverso. Quindi, tornando al nostro acquirente, ammettiamo che egli decida di regolare il contratto due mesi dopo anziché uno e che il prezzo forward a 2 mesi sia di 110 . Ciò significa che gli operatori del mercato dei lattonzi si aspettano aumenti di prezzo nel futuro. Se creiamo una tabella mettendo in relazione le scadenze e i prezzi forward per i maialini, avremo la curva dei prezzi del lattonzo. Sostituendo al lattonzo un tasso di interesse (ad esempio il Libor, ossia il London interbank offer rate, ossia il tasso offerto dalle banche sui depositi di altre banche sul mercato europeo) avremmo ad esempio una curva dei tassi. Ne riparleremo più avanti. Per ora torniamo al nostro maialino. Il contratto dellesempio è stato stipulato tra privati, senza alcun costo aggiuntivo. Ammettiamo invece che il contratto sia stipulato nellambito di unistituzione, quale ad esempio la Borsa di Suinopoli. Trattare il contratto in borsa offre infatti diversi vantaggi: innanzi tutto il contratto che si viene a stipulare è redatto secondo precisi standard (vengono, ad esempio, specificate le caratteristiche del maiale: età, peso, razza di appartenenza) e, dato che le parti non si conoscono, fornisce garanzie che il contratto verrà onorato. Ovviamente questi servizi non sono gratuiti: un contratto forward stipulato presso una borsa (detto future) ha un costo, che va computato per stabilire leffettivo guadagno derivante da unoperazione. Altra differenza è che in genere non viene stabilito un giorno per chiudere la transazione, ma un periodo nel quale vanno chiusi i contratti e consegnate le merci. In realtà, raramente si arriva alla consegna effettiva del maialino: più spesso si preferisce chiudere il contratto tramite unoperazione uguale e contraria. Facciamo un esempio: il 31 gennaio il nostro operatore decide di prendere una posizione lunga su un future per un maialino da acquistare entro maggio per 100 . Il 28 febbraio si accorge che il prezzo dei maialini da acquistare il 31 maggio è diventato di 107 . A questo punto decide di andare corto su un future analogo ma di segno opposto, stipulando un contratto a vendere il maiale il 31 maggio e guadagnando 7 (al lordo dei costi della transazione). In gergo si dice che il future è chiuso, tramite il criterio della camera di compensazione. Del maialino loperatore non ha visto nemmeno lombra, ma i soldi sono effettivi. Dovrebbe a questo punto emergere chiaro il fondamentale concetto di leva finanziaria: se è possibile chiudere operazioni di trading senza che vi sia lo scambio effettivo del maialino, è chiaro che il numero di operazioni finanziarie può eccedere, e di gran lunga, il numero di lattonzi presenti sul pianeta terra. Secondo aspetto, non meno importante del precedente: per effettuare loperazione non occorre investimento iniziale. Su questo punto è bene soffermarsi: se il maiale fosse stato acquistato in un comune mercato rionale, il mercante avrebbe dovuto comunque investire i 100 iniziali, tenersi il maialino nel proprio cortile, aspettare un mese e poi tornare al mercato e rivendere il maiale sperando di guadagnarci. Operando con i derivati, invece, la transazione ha avuto luogo senza dover investire il costo del maiale-denaro, per effetto della leva finanziaria. Questo utilizzo del derivato denota quello che normalmente è definito atteggiamento speculativo. Lo speculatore non è, tuttavia, lunica figura operante nelle borsa. Esistono anche, ad esempio, gli hedgers, ossia coloro che vogliono coprirsi dai rischi. Ora, a rischio di finire in un eccesso di nozioni (per chi è digiuno) è necessario definire anche lhedging, perché la comprensione di tale meccanismo risulterà utile più avanti. Ammettiamo, ad esempio, che il maiale in questione, da comprare il 31 maggio, sia americano e che debba essere pagato 150 $ anziché 100 . Il rischio che si affronta stipulando questo future è duplice: da una parte si rischia che da qui al 31 maggio il prezzo dei maiali crolli, rendendo così poco conveniente il future stipulato (rischio di mercato) dallaltra cè il rischio che il dollaro si apprezzi sulleuro il che, supponendo costante il prezzo del lattonzo, avrebbe il medesimo effetto (rischio di cambio). Ora, per un operatore, controllare e calcolare contemporaneamente due rischi può risultare impresa alquanto ardua. Si preferisce, pertanto, limitare il numero delle variabili in gioco fissandone una ad un dato certo e concentrandosi sul governo del rischio derivante dallaltra. Questo obbiettivo può essere raggiunto, ad esempio, stipulando un future sul dollaro. Proseguiamo con lesempio: ammettiamo che il prezzo forward dei dollari sia di 1,5 . Nulla vieta che si decida di bloccare questo tasso di cambio, stipulando un future che impegni, al 31 marzo, a comprare 150 $ pagandoli 100 . Si avrà così la garanzia che il maialino sarà pagato lequivalente di 100 .
Questo, si badi bene, non significa che loperazione risulterà necessariamente conveniente. Se ad esempio, nel corso dei mesi, leuro dovesse apprezzarsi sul dollaro, loperatore probabilmente rimpiangerà di essersi coperto. Tuttavia, anche in questo caso, ha avuto leffetto di sterilizzare le variazioni del tasso di cambio sul proprio affare, facilitando la pianificazione e il governo complessivo dei rischi. Ovviamente, il presupposto essenziale è che ci sia uguaglianza tra il prezzo del maialino (150 $) e la cifra che ci si impegna ad acquistare in cambio dei 100 (che, a questo punto, possiamo azzardarci a chiamare nozionale). Nel caso che la cifra sia inferiore la copertura sarà incompleta, nel caso sia superiore (poniamo che si impegni ad acquistare 200 $) avremmo 150 $ di hedging e 50 $ speculativi, per un totale di 200 $.
[a.r.]
Derivati # 2
(swaps)
I futures, generalmente, non sono offerti sul mercato solo nella loro forma singola, ma sono più spesso assemblati tra loro. Si tratta in pratica, di un portafoglio di contratti futures che vengono scambiati tra due operatori con scadenze prestabilite per un tempo prestabilito. Per vederci più chiaro sarà alquanto utile abbandonare per un attimo il nostro maialino (ma lo ritroveremo in seguito) per inseguire un esempio più attinente alla realtà: lo swap sul tasso di interesse, detto irs. Prendiamo il caso di un operatore di mercato (A) che vada presso un banca (B) avendo bisogno di soldi, e che la banca proponga al nostro operatore solo finanziamenti a tasso variabile, mentre invece egli voglia in qualche modo sterilizzare il rischio di tasso esattamente come lacquirente del maialino di cui sopra tendeva a sterilizzare il rischio di cambio. Lo strumento che serve per raggiungere questo obbiettivo è lo swap. Leffetto pratico è di scambiare il tasso variabile con il tasso fisso. Dal punto di vista di A, egli pagherà un tasso fisso. Dal punto di vista di B, essa riceverà un tasso variabile. Come è possibile questo gioco di prestigio? Innanzitutto ammettiamo per semplicità che il prezzo sia di 1000 e che il pagamento sia in una sola rata a fine periodo (il solito 31 maggio) comprensiva di capitale ed interesse variabile (supponiamo il Libor a 6 mesi). Ora, ammettiamo che B firmi un contratto forward per pagare ad A, alla stessa scadenza, un importo pari al libor a sei mesi calcolato sulla base di una cifra fittizia (qui appropriatamente detta nozionale) che deve necessariamente essere pari allimporto del finanziamento (altrimenti loperazione non è più di hedging sui tassi ma diventa speculativa) e che A firmi un contratto forward in cui si impegni a pagare a B un tasso fisso calcolato su un nozionale di pari importo. Il flusso da B ad A sterilizzerà il servizio del debito originario, ed A si troverà a dover pagare unicamente il tasso fisso, come era negli obbiettivi. A questo punto una domanda dovrebbe sorgere: ma se il tasso Libor dovesse eccedere il tasso fisso utilizzato, B non rischierebbe di rimetterci? La risposta è no, perché B in genere chiude il forward con un contratto speculare (uguale ma contrario) presso un altro istituto (C) e quindi sterilizza a sua volta leffetto. C, a sua volta, può chiudere con qualcun altro il derivato, ma cè anche il caso in cui il portafoglio di derivati di C sia già ben bilanciato tra posizioni lunghe e corte sul tasso Libor, esistenti con altri operatori, tali da non richiedere chiusura, dal momento che le variazioni del tasso si annullerebbero luna con laltra. È giunto quindi il momento di togliere la semplificazione iniziale: se il credito sottostante è in realtà da rimborsare secondo un preciso piano dammortamento del credito in conto capitale, e non in ununica rata come si era visto in precedenza, occorre, per eseguire lo swap, attenersi pedissequamente alle istruzioni della seguente ricetta: a) concatenare una serie di forward con le stesse scadenze del piano di ammortamento del credito sottostante, b) agganciare, per quanto possibile, il nozionale, che funziona come base di calcolo, al credito in essere a scadere che rimane ad ogni rata. Si sarà così realizzato uno swap di copertura. Chiaramente, questo è un esempio delloperatività degli swaps: un altro possibile utilizzo potrebbe essere sul fronte delle attività: se unazienda vuole trasformare la rendita derivante da obbligazioni a tasso fisso in una a tasso variabile può usare questo strumento scambiando il tasso fisso dellobbligazione con un variabile.
[a.r.]
Derivati # 3
(orizzonte temporale e azzardo morale)
Gli swap visti finora, data la semplicità, sono chiamati plain vanilla. Ma non sempre è così: spesso il derivato è il risultato di una complessa alchimia che vede coinvolte anche le opzioni (vedi più avanti) oppure prevedono la gestione di più variabili. Una delle fondamentali variabili che entrano in gioco è il tasso fisso che viene applicato al cliente: negli swaps tasso fisso infatti non significa necessariamente tasso costante. Essendo lo swap interpretabile logicamente come una sequenza di forward, nulla vieta che ogni forward abbia il proprio tasso fisso e quindi che il tasso fisso di un periodo possa essere diverso da quello fisso di un altro. Ammettiamo ad esempio che lazienda A chieda un prestito alla banca B per effettuare un investimento che si suppone diventi redditizio solo da un certo punto in poi. A quel punto la struttura potrebbe mutare: il tasso, ad esempio potrebbe essere particolarmente basso allinizio del piano per poi impennarsi nel tempo, oppure il nozionale potrebbe allinizio essere inferiore al finanziamento in essere per poi diventare superiore alla fine. A questo punto ci si potrebbe chiedere: e nella somma complessiva chi ci guadagna?
Per sapere chi sta guadagnando e chi sta perdendo da un derivato siffatto, occorre introdurre unaltra variabile: il mark to market, ossia ossia laggancio al mercato. Si tratta, in una prima approssimazione, della somma attualizzata dei futuri flussi di cassa previsti per quel derivato. Entrano perciò in gioco le aspettative, ossia le già citate curve dei tassi che, essendo uno dei due tassi che entrano in gioco variabile, giocano un ruolo determinante nel determinare chi (e quanto) finirà per guadagnarci da tali operazioni. Ora, ammettiamo per un attimo che tale derivato sia stipulato nei confronti di unamministrazione pubblica, di un consiglio regionale ad esempio, e che il prestito, stipulato per ripianare un deficit di bilancio, abbia un piano di ammortamento ventennale; ipotizziamo infine che venga proposto allamministrazione di stipulare un derivato che renderà molto leggero il credito nei primi 5/10 anni (tasso fisso e sotto le soglie di mercato) per poi diventare una vera e propria mina nellultima decade. Unamministrazione locale, avendo un orizzonte temporale massimo di 5 anni, potrebbe essere tentata di stipulare un simile accordo, per scaricare il problema sulla successiva amministrazione. Questa che viene enunciata non è unipotesi di scuola: secondo i dati del Tesoro, a fine agosto del 2007 il mark to market dei derivati stipulati da Comuni, province, regioni e comunità montane era negativo a sfavore delle PA per 1.055 mrd [cfr. Il Sole 24 ore del 27 ottobre 2007].
[a.r.]
Derivati # 4
(opzioni e derivati delle opzioni)
Fino ad ora abbiamo parlato di contratti (forward e futures e swaps) che obbligano ad eseguire la transazione oppure a chiuderla con una di segno contrario. Esiste però un altra famiglia di derivati che non obbligano ad eseguire la transazione, limitandosi a dare il diritto di farla: le opzioni. Futures ed opzioni vanno visti come i classici mattoncini lego, sono relativamente semplici ma combinati tra loro posso dare luogo a derivati estremamente complessi. Cerchiamo quindi di addentrarci nellargomento. Lopzione, si diceva, è un diritto. Torniamo al nostro maialino (ormai ci siamo affezionati...). Si può acquistare il diritto a comprare il maialino ad una certa data ad un certo prezzo. In tal caso avremmo una call option. Se invece acquistiamo il diritto a vendere un maialino ad una certa data ad un certo prezzo, avremo una put option. A prima vista le opzioni sembrano essere più convenienti dei futures, ma occorre ricordare che il loro costo è superiore; il funzionamento di questi strumenti è abbastanza semplice: il nostro mercante di maiali decide di comprare un maialino il 31 maggio (questa data è detta maturity) acquistando unopzione call. Mettiamo che lopzione abbia il costo di 2 e preveda lacquisto al solito prezzo di 100 ; se alla data stabilita il maialino avrà un prezzo di mercato di 110 , esercitando lopzione e rivendendo subito il suino in parola il mercante di maiali avrà un guadagno pari a (110-100-2=) 8 . Se invece il mercato dei porci alla data stabilita dovesse accusare depressione, il prezzo della merce-maiale potrebbe essere calato: mettiamo 90 . In tal caso non avrebbe senso acquistare la merce, e loperatore preferirà stracciare lopzione rimettendoci unicamente i 2 del costo dellopzione. Un caso limite è quello del maialino il cui costo arriva a 101 . Esercitando lopzione e rivendendolo subito dopo loperazione si chiude con un saldo di (101-100-2=) -1 . In tal caso, probabilmente, il mercante di maiali preferirà esercitare effettivamente lopzione, pur rimettendoci 1 , in unottica di limitazione del danno (ci rimette un 1 anziché i 2 del costo dellopzione). Esistono due tipi di opzioni: quelle americane possono essere esercitate in qualsiasi momento della propria vita, mentre quelle europee possono essere esercitate solo quando arrivano a maturity. Un possibile modo di gestire unopzione è assicurarsi che il tasso di interesse che si paga su un credito non salga più di tanto: basta, con un meccanismo simile a quello dello swap, concatenare una serie di opzioni call su un determinato tasso, che eserciteremo solo se convenienti (ossia se il tasso scritto sulle opzioni diventa inferiore del tasso in cui è determinato il credito) abbiamo creato così lirc (interest rate cap). Un altro possibile utilizzo delle opzioni sono i cosiddetti warrant, ossia opzioni che vengono emesse da aziende quotate ed istituti finanziari sulle proprie azioni. Lazienda può emettere, magari accanto a delle obbligazioni, dei warrant call sulle proprie azioni: ossia diritto di comprare le azioni ad un determinato prezzo e ad una determinata scadenza. Lacquirente decide di scommettere sul cavallo dellazienda emettitrice, sperando che le azioni sottostanti si apprezzino sul mercato, e intanto compra i warrant pompando liquidità nelle casse dellazienda emettitrice. Se poi le opzioni vengono esercitate, listituzione o lazienda emetterà nuove azioni al prezzo stabilito del contratto.
[a.r.]
Destra - sinistra
È invalso luso, nellepoca presente di crisi [<=] della politica, di ritenere che, almeno in tale campo, non sia più dattualità, e neppure necessario e utile, distinguere tra destra e sinistra. Cè chi, per malinteso senso di modernità, lasciandosi incantare dal fascino del nemico irrazionalista e nihilista, pensa addirittura che quella distinzione sia assolutamente inservibile. Il riferimento ai dizionari che attribuiscono alla prima una tendenza conservatrice, di contro alla seconda che esprime la politica innovatrice, progressista o rivoluzionaria, sembra oggi desueto. Appare sempre più evidente, viceversa, come presso le menti incolte di politicanti e opinionisti prevalga la lettura corrente degli altri significati forniti dai dizionari medesimi: laddove alla destra con destrezza, destreggiarsi, ecc. è associato il senso di agilità di movimento, in modo da evitare ostacoli, capacità e prontezza nel pensare e nel decidere, abilità, scioltezza; mentre alla sinistra donde sinistrare è attribuito il significato di disgrazia, disastro, danno o infortunio che colpisce qualcuno, ovvero qualcosa di cattivo augurio, funesto, bieco, tristo, truce. Ciò spiega perché Occhetto e i suoi sodali nel loro vano e affrettato corso di recupero: tre-anni-in-uno per un diploma borghese appena giunti alla lettura di codeste definizioni non abbiano più esitato a destreggiarsi, per scaramanzia, assumendo segni di destra per tendenze innovatrici.
[gf.p.]
Dignità
(parvenza salariata)
In tempi per ora illimitati di licenziamenti a catena, ex occupati sentono di aver perso la dignità, con la perdita del lavoro. Nel capovolto mondo del capitale, la dignità personale è percepita come valenza interna al rapporto lavorativo per cui, alla sua rescissione, si avverte la perdita di quello che sembrava essere il supporto, o proprio tuttuno con il proprio essere sociale. I licenziati di Pomigliano hanno rivendicato, su un loro cartello Ridateci la dignità. Così pure nel film Tra le nuvole, di fronte al tagliatore di teste del caso, un licenziando invoca (inutilmente) che gli si lasci almeno la propria dignità.
Il senso concreto a questo sentimento, così diffuso, può fornirlo solo levoluzione storica che ne ha costruito il concetto, nelle sue differenze legate ai modi di produzione. Linteriorizzazione mutata di condizioni storiche oggettive, si trasforma poi, per intere generazioni, in forme di obbedienza e consenso al sistema, in modo inconsapevole per gli stessi individui, che ne costituiscono gli adattabili veicoli.
Nellantichità classica greca e latina, basata su un sistema schiavistico, la timè (tìmema), o la dignitas si riferiscono a: merito, stima, credito, autorità, prestigio, decoro, onore; ma anche a: grado, posizione, carica pubblica; oppure a valore, eccellenza, bellezza, magnificenza, imponenza, splendore. Dignus sta altresì per adeguato, adatto, conforme, corrispondente, giusto, dovuto.
Come rivela letimo, la dignità esprimeva un insieme costituente il valore della persona, come qualità fisica o morale, abilità o talento; e/o appartenenza ai ceti sociali dominanti, di cui le cariche pubbliche erano espressione e/o conferma. Non cè riscontro di dignità nella durezza del lavoro per lo più nella forma schiavistica -, che non dà nemmeno diritto alla cittadinanza nello stato. I dignitari saranno magistrati o appartenenti alle classi di cittadini di censo elevato; in epoca medievale poi, esponenti di un ordine cavalleresco (cui si accede per nobiltà di nascita o meriti particolari).
Nella specificità strutturale del lavoro
capitalistico non esiste dignità. Il lavoratore libero è
virtualmente povero, ... non ha, in quanto capacità di lavoro,
unesistenza oggettiva per realizzarla. Se per caso il
capitalista non ha bisogno del suo pluslavoro, egli non può
effettuare il suo lavoro necessario; non può produrre i suoi
mezzi di sussistenza [Lf, q.vi, f.15].
Il lavoratore vende la disponibilità limitata della sua capacità lavorativa mentre il capitalista, che lacquista, non desidera altro che il lavoratore spenda le sue dosi di energia quanto più è possibile senza interruzione [Lf, q.iii, f.8]. Si presenta come legge necessaria di tale scambio la separazione della proprietà dal lavoro. Qui esso è concepito come negativo: come non-capitale e quindi come non-materia prima, non-strumento di lavoro, non-prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, dalla sua intera oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà (e altresì come non-valore); questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività, del lavoro. È il lavoro come miseria assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della ricchezza oggettiva. Non è contraddittorio affermare quindi che per un verso è miseria assoluta come oggetto, per un altro è possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività [ivi, f.9]. Nellarco del suo consumo, lattività lavorativa si materializza, si fissa nella forma di oggetto. Unitamente alla materia e allo strumento di lavoro, lattività lavorativa realizza, nel consumo produttivo, un risultato neutro, il prodotto o valore duso.
Linvenzione di lavoratori eccedenti, ossia di uomini senza proprietà che lavorano, appartiene allera del capitale. Questa sovrappopolazione [è] di operai che vengono trasformati in internati di ergasteri ... La condizione di appropriazione del lavoro altrui implica che alla popolazione che rappresenta il lavoro necessario, il lavoro occorrente alla produzione si aggiunga una sovrappopolazione che non lavora, ... e accanto ... gli oziosi [che hanno una funzione] puramente consumatrice. La forza lavoro può eseguire il suo lavoro necessario solo se il suo pluslavoro ha un valore per il capitale. Quando questa possibilità di valorizzazione è impedita da un ostacolo qualsiasi, la forza-lavoro stessa si presenta 1) al di fuori delle condizioni di riproduzione della sua esistenza; essa esiste senza le sue condizioni di esistenza; ed è un puro ingombro; bisogni senza i mezzi per soddisfarli; 2) il lavoro necessario si presenta come superfluo, perché quello superfluo non è necessario... Porre come superflua una determinata porzione di forze di lavoro ... è perciò una conseguenza necessaria dellaumento del pluslavoro in rapporto al lavoro necessario... Se questa sovrappopolazione viene mantenuta, ciò non avviene a spese del fondo di lavoro, ma a spese del reddito di tutte le classi, ... per misericordia altrui ... perciò [loperaio] diventa uno straccione e un povero; per il fatto che egli non si mantiene più col suo lavoro necessario ... egli resta escluso dalle condizioni dellapparente rapporto di scambio e di indipendenza; secondariamente: la società si assume in parti aliquote per il signor capitalista lufficio di mantenergli in sesto il suo strumento di lavoro virtuale e relativo uso e consumo a titolo di riserva per un uso successivo. Il capitalista si solleva in parte dei costi di riproduzione della classe operaia pauperizzando a suo profitto una parte della restante popolazione... La creazione del pluscapitale implica una duplice cosa: 1) esso ha bisogno di una popolazione crescente per essere messo in movimento; se la popolazione relativa che esso adopera diventa più piccola, esso diventa tanto più grande; 2) esso ha bisogno di una parte disoccupata (almeno relativamente) di popolazione; ossia di una relativa sovrappopolazione per trovare la popolazione immediatamente disponibile per la crescita del pluscapitale [Lf, q.vi, ff.16-17 ].
I proprietari, creature delle istituzioni civili, coloro i quali hanno un patrimonio indipendente, lo devono quasi interamente al lavoro di altri, non alla loro capacità personale, che non è assolutamente migliore. Non è il possesso della terra o del denaro che distingue i ricchi dai poveri, ma il comando sul lavoro... [I lavoratori] devono anzitutto essere costretti a lavorare alle condizioni poste dal capitale [Lf, q.vii, f.12].
Le forme ideologiche che continuamente si ripetono in ogni fase dello sviluppo capitalistico con i termini destinazione, missione, ideale, ma anche dignità, in questo caso, sono... le condizioni di esistenza della classe dominante (condizionate dallo sviluppo anteriore della produzione) espresse idealmente nelle leggi, nella morale, ecc., condizioni che con maggiore o minore consapevolezza vengono rese teoricamente indipendenti dagli ideologi di quella classe... e che vengono mostrate agli individui della classe dominata come norma di vita, in parte come abbellimento e coscienza della dominazione, in parte come strumento morale di essa. È da notare che qui come sempre gli ideologi mettono necessariamente la cosa a rovescio e ritengono che la loro ideologia sia tanto la forza generatrice quanto il fine di tutti i rapporti sociali, mentre ne è soltanto espressione e sintomo [Marx-Engels, Lideologia tedesca (op.v), iii, nt.5.c].
Lasservimento o abbrutimento cui gli individui sono sottoposti fisicamente, intellettualmente e socialmente dai rapporti attuali può essere capovolto facendo credere che le relazioni umane siano interpersonali e non mediate dalla mercificazione. La condotta personale e lo sviluppo degli individui non sono indipendenti dalle forme di relazioni accumulate storicamente, e dominate dai rapporti oggettivi in una forma costrittiva. La determinazione dovuta ai rapporti generali di classe soffoca le scelte e le aspirazioni individuali al decoro, e persino al diritto alla vita, in quanto valori non economici. Nelluso infatti della lingua tedesca Wür-de, Würdigkeit, che traduce il latino dignitas, (rango), riferita a oggetti significava anche valore, nel senso di distinguere, mostrare. Wert o Würde applicate dapprima a cose utili o a prodotti del lavoro prima di diventare merci sono state usate poi come chiacchiere [Marx, Glosse marginali al Trattato di economia politica di Adolf Wagner].
Quando le crisi di capitale lo esigono, le falsate concezioni della vita lavorativa asservita crollano allemergere della perseguita crisi di lavoro. Il travestimento linguistico è funzionale al travestimento reale dellunico rapporto che ha valore per sé stesso [per il capitale], il rapporto di sfruttamento; tutti gli altri per lui hanno valore solo in quanto può sussumerli sotto questunico rapporto, e anche quando non può subordinarli direttamente al rapporto di sfruttamento, li subordina ad esso almeno nellillusione [It, cit., nt.5.iii,6c].
Lo sviluppo delle forze produttive e la caduta tendenziale del saggio di profitto contemporaneamente liberano le facoltà di lotta dei lavoratori. Essi non devono ripetere il passato, ma costruire il futuro [Marx, La guerra civile in Francia]
[c.f.]
Dignità costituzionali
(norme e ideologie)
Il piano giuridico in cui si riscontra il concetto di dignità acquista spessore attraverso uno sguardo storico sui percorsi teorici della nascente democrazia occidentale. Levoluzione storica nellambito normativo di un sentire ambiguamente definito in modo moralistico o in forme progettuali, dovrebbe dar conto del suo uso ideologico o di conflittualità entro cui lottare. La falsa coscienza è funzionale al mantenimento dei rapporti di forza esistenti, pertanto le illusioni di libertà e indipendenza sono le catene invisibili dei nuovi schiavi, cui carpire un consenso legittimato.
Partendo dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, si incontra lindividuazione dei cosiddetti diritti naturali (Gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti, art. 1), del cui rispetto dovrà essere garante lorganizzazione sociale e il cui fine, il maggior bene di tutti, diventerà la felicità comune, nella Costituzione del 1793. I diritti in questione sono: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza alloppressione. Fermo restando che i tutti sono, di fatto, solo i componenti della classe borghese, e che questi diritti costituiscono la vittoria anche giuridica a fronte dei privilegi feudali appena aboliti, particolare significativo è che in tutte le costituzioni successive all89 rimarranno, con molti articoli dedicati, solo le prime tre. Della resistenza alloppressione non solo non cè spiegazione alcuna allepoca, ma se ne perderà il ricordo definitivamente in seguito.
Dopo lacquisizione formale dei diritti civili, chi parlerà poi anche di dignità individuale e sociale, nel corso dell800, saranno i democratici (Mazzini), i cattolici liberali (Lamennais), i riformatori sociali (Owen, Fourier). Questi intellettuali, politicamente impegnati, tenderanno più a sottolineare lindignazione morale che non ad affrontare le condizioni subalterne e degradanti, successive alla rivoluzione industriale, in puntuali analisi storico-critiche. Verrà individuato il lavoro sostentamento per intere moltitudini senza dignità, senza patria, senza diritti reali, che muoiono di fame mentre altri sono immersi nel lusso come maledizione, sofferenza e morte. Lavvilimento e il degrado di questi miseri, si teme, sarà una possibile minaccia secondo lespressione di Rousseau di divorare i ricchi, che sottraggono loro la parte migliore della vita, quella morale, senza offrire nulla a quella materiale. Nella progressività dei mutamenti sociali, la dignità umana, prodottasi con il principio delluguaglianza naturale, si mantiene nella condizione di superiorità morale del proletariato, fisicamente ridotto, invece, in una condizione di vita abietta addirittura peggiore di quella dello schiavo. Il degrado si completa con la indispensabile carità delle parrocchie, per una sopravvivenza di indurimento e schiavitù nel bisogno. Nei giornali di Dublino del 1826 si parla di unepidemia nel popolo guarita con il cibo. La malattia da fame si dice non colpirà né il lord governatore né larcivescovo, ma dove il popolo non muore di fame acuta, muore di fame lenta per le privazioni, di fame speculativa che lobbliga a nutrirsi di cose malsane, di fame imminente nelleccedenza del lavoro, nellapplicarsi per il bisogno a funzioni perniciose, a fatiche eccessive donde nascono le febbri, le infermità: è sempre un andare alla morte per inedia [Fourier, Il pensiero politico, Editori Riuniti, Roma 1967].
Ad abbondare di riferimenti alla dignità
umana saranno poi le encicliche sociali dei Papi a
partire dalla Rerum Novarum (1891) di Leone xiii. Nellintento
di attacco tanto al liberalismo quanto al socialismo, lingresso
esplicito della politica religiosa nel conflitto tra capitale e
lavoro si profila come armonizzazione delle parti, corporazione ante
litteram delle funzioni statali organizzative e ideologiche
del sistema. La dignità è riferita alla persona
isolata che, attraverso il lavoro (generico, non
precisato co-me dipendente) nobilita una vita condotta
nellonestà, attraverso cui acquisisce il diritto alla giusta
mercede (fraudolentemente intesa come sostanziale scambio
equo). Non entrando affatto nel merito del rapporto di
capitale, lenciclica condanna come indegnità labuso
delluomo come cosa o scopo di guadagno, come pure loppressione
dei bisognosi ed infelici, trafficando sulla miseria del
prossimo. Seguendo lindicazione di S. Tommaso, secondo cui
niuno deve vivere in modo non conveniente, viene
suggerito ai gestori della ricchezza: quello che
sopravanza, date in elemosina, non in quanto obbligo
di giustizia ma come carità cristiana.
La vera dignità e grandezza delluomo è così tutta morale, riposta nella virtù come patrimonio comune di ricchi e poveri cui è promessa la beatitudine eterna. La dignità, qui, consiste di fatto nellessere figli e fratelli di Dio. Limpegno conciliatore ecumenico serve a disciplinare lordinamento economico capitalistico, per sé intangibile, secondo le norme di una rettitudine che cura il ravvedimento, talora necessario, da eccessi di arbitrio e sfruttamento insensibili alla dignità umana dei lavoratori, o da mancata giustizia sociale nella distribuzione del bene comune. Coerentemente alla fase imperialistica (di cui non cè consapevolezza espressa), il lucro è esecrabile come oggetto di bramosia, il predominio come cupidigia, leconomia diventa crudele. La dignità dello stato si abbassa così a strumento delle passioni e ambizioni umane, mentre può risorgere nella soggezione allautorità pubblica appoggiata alla carità cristiana. Nessun obbligo di legge per il capitale, solo il pio invito a non infierire troppo sulle masse impoverite, senza indagine sulle sue cause. Lassistenza ai poveri nella sola qualità di astratta immagine di Cristo è in realtà lavallo indiretto alle leggi del profitto, sublimate in irriconoscibili definizioni moralistiche, e un allontanamento del conflitto sociale nellaccettazione di una sopravvivenza definitivamente sconfitta e dipendente nellumiliazione.
Nelle carte costituzionali del xx secolo, le libertà politiche dei cittadini trovano riconoscimento e garanzie formali nellordinamento politico dello stato. La volontà individuale entrerà così appare a costituire quella collettiva per lesercizio del potere. Altro destino esplicito avranno i diritti sociali, in quanto la loro attuazione sarà legata alla trasformazione effettiva della struttura economica, ad una rivoluzione sociale che non avrà luogo.
Mentre nella rooseveltiana Nuova dichiarazione dei diritti (1943) si delinea un concetto di vita decorosa promessa agli americani, tuttuno con nuove mete di felicità, benessere e sicurezza come cardini della pace nel mondo, nella costituzione di Weimar (11.8.1919), art. 115, si dichiarava ancora che lordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti una esistenza degna delluomo. Laspirazione ad una trasformazione degli assetti sociali, esistenti nella Germania del 19, brucerà nellincendio del Reichstag, definitivamente soffocata con lavvento del nazismo. Il sogno americano, invece, saprà espandersi a livello planetario per la vittoria della guerra e conseguente egemonia mondiale finanziaria e politico-militare, solo oggi, questultima, gravemente incrinata dalla crisi strutturale del capitale.
La costituzione della Repubblica italiana (1948) fa riferimento alla dignità in tre articoli.
Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e leguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e leffettiva partecipazione di tutti i lavoratori allorganizzazione politica, economica e sociale del paese.
Art. 36: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia unesistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
Art. 41: Liniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con lutilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché lattività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Mentre nellart. 3 si considera la dignità ancora come fattore sociale, che discende dal carattere collettivo dellessere sociale umano, di cui lindividuo è espressione partecipante, nellart. 41 rimane la dignità generica, determinazione rimessa alla natura o sospinta nellastrazione. È però nellart. 36 che se ne evidenzia il senso ideologico borghese: la dignità umana, comunque la si intenda, è legata al lavoro, non più maledizione biblica (anche se ormai alcune interpretazioni della Bibbia la negano, dandone un significato solo informativo da parte del creatore), ma riscatto dalla caduta, attraverso loperare lavorativo eternizzato. Si vuole disconoscere, in altri termini, il carattere storico cioè soggetto a mutamento di lavoro salariato, sfruttato e dipendente, la cui condizione nega categoricamente ogni dignità. Nel rapporto lavorativo il lavoratore, scisso dalla sua capacità lavorativa, non viene neppure considerato come soggettività, in quanto è astratto dallunico valore potenziale riconosciuto la sua forza-lavoro utile, perché in grado di creare valore per il capitale. Tale condizione di degrado viene capovolta, nella considerazione unica del salario (nascostamente scambiato al ribasso con la forza-lavoro, e che fornisce lapparenza di una vita indipendente e autosostentata alias dignitosa) come remunerazione di capacità, impegno, volontà, intelligenza, creatività, ecc., indissolubilmente saldato allindividualità erogante, e sotto suo apparente controllo, perché conquistato attraverso selezioni, concorsi, contratti, ecc.. Il diritto alla equa remunerazione è strutturalmente negato dallappropriazione privata e stabilizzata di una quota rilevante di valore creato dal lavoro, di cui esso non ha controllo alcuno.
In siffatta illusione i lavoratori verranno mantenuti anche con il contributo attivo dei sindacati consapevole o meno. Il fine di restituire dignità ai lavoratori e di portare la democrazia nei luoghi di lavoro si concretizza anche nello Statuto dei lavoratori, contenuto in una legge (1970): Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. Si delinea qui la possibilità apparente come normativa di poter lottare e resistere per conquistare migliori condizioni di vita, a cancellazione ideologica dellinferiorità del lavoro rispetto al capitale. Laccoglimento costituzionale del diritto di sciopero diritto fondamentale e difensivo sarà oggetto di continui attacchi per la sua vanificazione sostanziale, o con le bombe e le stragi di stato, o con leggi tendenti a regolamentarlo. Come molti altri diritti, sarà in balìa dei rapporti di forza che si svilupperanno allindomani della fine della guerra. Gli abbellimenti morali (dignità) costituzionali o sono filiazioni di ideologie romantico-religiose, o tendono a nascondere la realtà di retribuzioni rapportate ai minimi contrattuali, a volte neppure quelli, esistenti, o la realtà della precarietà lavorativa per le sole esigenze di valorizzazione dei capitali. La dignità appare allora nellelenco delle buone intenzioni (unitamente a salute, paesaggio, eguaglianza, ecc.) senzalcuna garanzia di realizzazione effettiva per i cittadini. Le parole diventano il vuoto, mere apparenze destinate ad ogni contenuto, o a dare limmagine di una società armoniosa attraverso lastrazione di un lavoro, privato di ogni determinazione concreta, su cui la Repubblica pretenderebbe fondarsi. Come se tra i vari lavori vi fosse solo una distinzione tecnica e non invece una divisione sociale, in cui per i molti permane sfruttamento, oppressione, precarizzazione, umiliazione, esproprio della volontà cioè la condizione del lavoro salariato, senza più nessuna resistenza alloppressione.
Al riconoscimento (art. 4) del diritto al lavoro si contrappone il sempre più attuale ancorché dimenticato commento di Piero Calamandrei: Fino a che non cè la possibilità per ogni uomo di lavorare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa eguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto uneguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale.
[c.f.]
Dirigenti # 1
(definizioni)
Le forme dei rapporti di proprietà si presentano come presupposto delle forme specifiche storicamente determinate del lavoro. Comprendere le forme di organizzazione, cooperazione e appropriazione del lavoro sociale vuol dire, anche e soprattutto nella fase monopolistica finanziaria del capitale transnazionale, permettere perciò di individuarne lestensione mondiale. La proprietà [<=] sempre si esprime come appartenenza di classe. La proprietà indica lo stato di appartenenza alla classe dominante che per lappunto è sempre più, nella fase imperialistica transnazionale, proprietà. di classe come classe [<=] sul mercato mondiale e, a un tempo, la negazione della proprietà individuale dei singoli in quanto tali. Il capitale è la prima negazione della proprietà privata individuale dice Marx.
La proprietà del capitale, intesa in senso stretto, è quella che detiene in ultima analisi il potere decisionale e strategico, e non è semplicemente il titolo giuridico di possesso senza capacità operativa. Il profitto industriale vero e proprio (insieme al cosiddetto guadagno dimprenditore, infatti) pertiene al capitale operante [<=], mentre al possessore del titolo di pura proprietà affluisce solo linteresse [<=]. Senonché, allo stesso tempo, essendo la non-proprietà espressione di assoggettamento, il processo storico favorisce la delega della funzione impersonale di capitale. In questo senso, limpersonalità del capitalista in quanto la produzione di capitale è produzione di condizioni oggettive estranee assume la personalità, appunto estranea, oggettiva del capitale: limpersonalità soggettiva del capitalista definisce il capitale stesso come funzione. Tuttavia, una tale funzione non deve trarre in inganno e generare confusione (estendendo oltre misura le concezioni soggettivistiche e comportamentalistiche dei vari Schumpeter, Berle, Means e tutti quanti fino ai moderni seguaci di tecnostrutture o presunto capitale lavorativo [<=]). La funzione di capitale, appunto, è quella impersonata dal capitalista operante in quanto imprenditore, non da un qualsiasi lavoratore capace di dirigere le forze produttive o anche di organizzare parzialmente il ciclo di produzione meccanicamente o automaticamente suddiviso.
Insomma, è sempre la proprietà intesa nel suddetto senso estensivo, che trascende anche il possesso vero e proprio del titolo giuridico che ordina gerarchicamente tale funzione, articolandola poi, ma solo su codeste basi operanti, dalla direzione alla progettazione, dalla produzione vera e propria fino al mercato; perciò può delegarla a propri agenti (dirigenti, funzionari, tecnici i manager) che costituiscono così una nuova classe media non proprietaria (diversa dalla vecchia piccola borghesia), non autonoma ma subalterna. Di tale strato di classe oggi, e del suo divenire in trasformazione realmente proprietaria e non subalterna, da un lato, mentre al lato opposto si massifica un lavoro qualificato di amministrazione e direzione, sempre più indistinto e perciò svalutato non di coloro che in veste di consiglieri damministrazione, direttori generali, ecc. rappresentano i veri capitalisti operanti delle spa, del capitale diffuso delle cosiddette public companies, di quello che pretestuosamente è definito capitale pubblico o delle imprese transnazionali occorre considerare margini di contraddizione e potenziale antagonismo.
Mentre i secondi svolgono leffettiva funzione economica di capitale (al di là del mero titolo giuridico di proprietà), i primi tendono a eseguire una funzione specifica in quella peculiare stratificazione di classe, i tecnici, non più numericamente insignificante come nel secolo scorso, che si occupa del controllo questo, sì, lavorativo dellintero sistema posto in essere dal processo complessivo della produzione sociale (a partire dalle macchine [<=] e dallautomazione). Si tratta di quella classe operaia superiore, in parte scientificamente istruita, di cui già parlava Marx, che ha cominciato la propria storia al di fuori della sfera degli operai di fabbrica, inizialmente soltanto aggregata a essi, ma che sempre più viene attualmente integrata nella concatenazione dei cicli produttivi. Questa divisione del lavoro, che riappare nella fabbrica automatica, è puramente tecnica. Le potenze dellintelligenza generale della produzione sociale, ossia i moderni centri di progettazione o ricerca e sviluppo (oggi, e per molto tempo ancora nella forma del capitale fisso), allargano la loro scala in una parte perché scompaiono da molte altre parti nella concatenazione transnazionale dei cicli produttivi.
Le tendenze, più o meno oniriche dei nuovismi murxisti (ossia, abborracciatori, per dirla con Brecht) confondono regolarmente la direzione strategica dellimpresa, quale funzione specifica del capitale operante (proprio o da prestito bancario e azionario), con le varie mansioni subordinate, crescenti in numero e tipologia, di direzione e coordinamento tecnico, caratteristiche di ogni processo di produzione socialmente combinato. Lappiattimento privo di dialettica, manco a dirlo! di entrambe le figure (mettendoci dentro anche, magari, i consiglieri damministrazione) è conseguenza unilaterale della concezione, simmetrica allapologetica volgare, di un processo lavorativo di cui non si sa concepire la forma generale separata dallesistenza storica determinata e transeunte.
[gf.p.]
Dirigenti # 2
(salario damministrazione)
Lelemento specifico del carattere sociale del capitale, nel modo di produzione capitalistico la proprietà [<=] di capitale, che possiede la qualità di comandare sul lavoro altrui presenta linteresse [<=] come la parte di plusvalore [<=] che il capitale produce sotto questo aspetto. Laltra parte del plusvalore il guadagno dimprenditore appare necessariamente derivare non dal capitale in quanto capitale, ma dal processo di produzione, separato dal suo specifico carattere sociale. Ma, separato dal capitale, il processo di produzione è processo lavorativo in generale. Il capitalista industriale, in quanto distinto dal proprietario di capitale, non appare quindi come capitale operante [<=] ma come un funzionario, come semplice veicolo del processo lavorativo in generale, come lavoratore e precisamente come lavoratore salariato. Linteresse rappresenta il carattere del capitale come qualcosa che gli spetta al di fuori del processo di produzione, non in opposizione diretta al lavoro, ma al contrario senza rapporto col lavoro, e come semplice rapporto tra un capitalista e laltro. Quindi, come una determinazione esteriore e indifferente rispetto al rapporto tra il capitale e il lavoro stesso. Questa forma dellinteresse dà allaltra parte del profitto la forma qualitativa di guadagno dimprendi-tore, e poi di salario di amministrazione e di sorveglianza.
Le funzioni particolari che il capitalista in quanto tale deve compiere, e che sono di sua specifica competenza, a differenza e in contrapposizione con i lavoratori, vengono presentate come semplici funzioni lavorative. Egli crea plusvalore non perché lavora come capitalista, ma perché, indipendentemente dalla sua qualità di capitalista, egli anche lavora. Così, il lavoro consistente nello sfruttare e il lavoro sfruttato appaiono come identici in quanto lavoro: il guadagno dimprenditore diviene la funzione economica del capitale, ma spogliato del determinato carattere capitalistico di questa funzione. Sicché, la concezione del guadagno dimprenditore come salario di amministrazione o di sorveglianza, che deriva dalla contrapposizione tra guadagno dimprenditore e interesse, è rafforzata ulteriormente dal fatto che una parte del profitto può venire separata, ed in effetti lo è, come salario; o meglio, viceversa, che una parte del salario appare, sulla base del modo di produzione capitalistico, come parte integrante del profitto. Questa parte come Smith ha giustamente messo in rilievo si presenta pura, indipendente e completamente separata dal profitto (interesse e guadagno dimprenditore), nello stipendio del dirigente. Il lavoro di sovrintendenza e direzione diventa necessario dovunque il processo immediato di produzione assuma la forma di un processo socialmente combinato.
Da un lato, tutti i lavori in cui molti individui cooperano esigono coesione e unità del processo in una volontà che comanda, come avviene per il direttore di unorchestra. Ma un direttore dorchestra non ha affatto bisogno di essere proprietario degli strumenti musicali, come pure non appartiene alla sua funzione di direttore di occuparsi per qualsiasi motivo del salario degli altri musicisti. È questo un lavoro produttivo [<=] che deve essere eseguito in ogni modo di produzione combinato.
Daltro lato, questo lavoro di sovrintendenza sorge necessariamente in tutti i modi di produzione che si fondano sullantagonismo di classe, e hanno per base lantagonismo tra il lavoratore, come produttore immediato, e il proprietario dei mezzi di produzione. Tanto più forte è questo antagonismo, tanto maggiore importanza assume questo lavoro di sovrintendenza e di direzione. La funzione di esso in questa seconda veste, non come funzione particolare proveniente dal carattere di ogni lavoro sociale combinato, ma in quanto scaturisca dallantagonismo tra il proprietario dei mezzi di produzione e il proprietario della forza-lavoro [<=] pura e semplice è stata troppo spesso invocata a giustificazione di questo rapporto di asservimento; e lo sfruttamento, lappropriazione di lavoro altrui non pagato, è stato al pari troppo spesso presentato come il salario dovuto al proprietario di capitale.
Viceversa, il salario [<=] di un sovrintendente o di un dirigente è completamente distinto dal profitto e assume anche la forma di un salario per lavoro qualificato, non appena limpresa è esercitata su una scala sufficientemente grande per cui è possibile una divisione del lavoro sufficiente e può consentire di pagare un particolare salario per un tale dirigente (manager). La produzione capitalistica stessa ha fatto sì che il lavoro di direzione completamente distinto dalla proprietà del capitale vada per conto suo. È diventato inutile, dunque, che questo lavoro di direzione venga esercitato dal capitalista. Dire che questo lavoro è necessario come lavoro capitalistico significa solo che la rappresentazione volgare è incapace di concepire le forme, che si sono sviluppate in seno al modo di produzione capitalistico, separate e liberate del loro carattere antitetico capitalistico. Il capitalista industriale è un lavoratore, se confrontato con il capitalista monetario, ma un lavoratore nel senso del capitalista, ossia uno sfruttatore di lavoro altrui. Il suo salario dipende solo dal grado di sfruttamento del lavoro altrui di cui egli si appropria. Dopo ogni crisi [<=] si può vedere un buon numero di ex industriali che sovrintendono, per un salario moderato, le fabbriche di cui prima erano proprietari, come direttori (manager) dei nuovi proprietari, che sono spesso i loro creditori.
Perciò, il salario di amministrazione dei direttori è completamente e costantemente distinto dal guadagno dimprenditore. Le spa, sviluppatesi con il sistema creditizio, hanno in generale la tendenza a separare sempre più questo lavoro di amministrazione (in quanto funzione) dalla proprietà del capitale, sia esso di proprietà personale oppure preso in prestito come capitale monetario [<=], che assume carattere sociale in quanto si concentra nelle banche. Ma poiché, daltro lato, il semplice dirigente, che non possiede il capitale sotto alcun titolo, esercita tutte le funzioni effettive che spettano al capitalista operante, rimane solo il funzionario, e il capitalista scompare dal processo di produzione come personaggio superfluo.
La confusione tra guadagno dimprenditore e salario di amministrazione e sorveglianza è derivata originariamente dalla forma antagonistica che assume leccedenza del profitto rispetto allinteresse. Essa è stata in séguito sviluppata nellapologetica intenzione di rappresentare il profitto non come plusvalore ma come salario del capitalista. I socialisti [di allora] rivendicavano che il profitto venisse ridotto in pratica a ciò che già pretendeva di essere in teoria, cioè al semplice salario di sorveglianza [i comunisti di oggi pretendono di cancellare il profitto da proprietà, con la proprietà stessa, riparlando solo, ancora una volta, di funzione lavorativa: dialettica addio! ndr].
Sulla base della produzione capitalistica, invece, si sviluppa un nuovo imbroglio per quanto riguarda il salario di amministrazione, perché accanto e al di sopra del dirigente effettivo si presentano una quantità di consiglieri di amministrazione e di controllo, per i quali, in realtà, amministrazione e controllo diventano semplice pretesto per depredare gli azionisti e arricchire se stessi. Questo salario è generalmente in ragione inversa alla sorveglianza effettivamente esercitata da questi direttori puramente nominali.
[k.m.]
Diritto
La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dellesistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel sotto il termine di società civile; e che lanatomia della società civile è da cercare nelleconomia politica. I cosiddetti diritti delluomo non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè delluomo egoista, delluomo separato dalluomo e dalla comunità. La libertà [<=] è il diritto [<=] di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri, stabilito per mezzo della legge. Si tratta della libertà delluomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. Il diritto delluomo alla libertà si basa sullisolamento. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dellindividuo limitato, limitato a se stesso. La società appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. Lunico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e linteresse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica. Luomo non venne perciò liberato dalla religione, egli ricevette la libertà religiosa. Egli non venne liberato dalla proprietà. Ricevette la libertà della proprietà [<=]. Il diritto privato si sviluppa contemporaneamente alla proprietà privata.
Nella storia reale, quei teorici che consideravano il potere come fondamento del diritto formavano il contrasto più diretto con quelli che vedevano nella volontà la base del diritto. Se si prende il potere come base del diritto, come fanno Hobbes e altri, il diritto, la legge, ecc. non sono altro che sintomo, espressione di altri rapporti, sui quali riposa il potere dello stato. La vita materiale degli individui, che non dipende affatto dalla loro pura volontà, il loro modo di produzione e la forma di relazioni che si condizionano a vicenda, sono la base reale dello stato e continuano a esserlo in tutti gli stadi nei quali sono ancora necessarie la divisione del lavoro e la proprietà privata, del tutto indipendentemente dalla volontà degli individui. Questi rapporti reali non sono affatto creati dal potere dello stato; essi sono piuttosto il potere che crea quello. Gli individui che dominano in questi rapporti a parte il fatto che il loro potere deve costituirsi come stato devono dare alla loro volontà, condizionata da questi rapporti determinati, unespressione universale sotto forma di volontà dello stato, di legge: espressione il cui contenuto è sempre dato dai rapporti di questa classe [<=], come dimostrano chiarissimamente il diritto privato e il diritto criminale. Queste generalità e questi concetti appaiono come potenze misteriose, e conseguenza necessaria dellindipendenza acquistata dai rapporti reali di cui essi sono espressione. Oltre a questo valore che hanno nella coscienza [<=] comune, queste generalità acquistano ancora un valore e uno sviluppo particolare a opera dei politici e dei giuristi, i quali sono assegnati al culto di questi concetti in séguito alla divisione del lavoro. e vedono in essi, e non nei rapporti di produzione, il vero fondamento di ogni reale rapporto di proprietà.
Dunque, non è la società che si fonda sulla legge; questa è una fantasia, una presunzione giuridica. La legge deve piuttosto fondarsi sulla società, devessere lespressione e la rappresentazione dei suoi interessi e bisogni comuni, risultanti ogni volta dal modo di produzione materiale, contro larbitrio del singolo individuo. La legislazione sia politica che civile non fa che pronunciare, verbalizzare, la volontà dei rapporti economici. Lo stesso pluslavoro o lavoro non retribuito appare retribuito e il rapporto oneroso nasconde il lavoro gratuito del lavoratore retribuito. Su questa forma fenomenica, che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche del lavoratore salariato e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche delleconomia volgare e dellideologia giuridica. Questa, perciò, per il suo contenuto, esprime un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nellapplicazione di unuguale misura; ma gli individui disuguali sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengano sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengano considerati soltanto secondo un lato determinato. Perciò, per evitare tutti i suoi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società.
La fictio iuris del contratto, dunque, fonda la parvenza ideologica per la quale lavoratore e capitalista non sono individui socialmente determinati in quanto appartenenti a una diversa classe sociale, ma come soggetti giuridici liberi, i quali, nel capovolgimento ideologico, possono avere anche la coscienza [<=] esaltante che proprio il soddisfacimento del loro brutale interesse singolo è la realizzazione dellinteresse singolo superato, dellinteresse generale. Dallatto dello scambio stesso ciascuno dei soggetti torna, come fine ultimo dellintero processo, in se stesso, come soggetto predominante. Con ciò è quindi realizzata la piena libertà del soggetto. In conseguenza di tale capovolgimento, può darsi uno sviluppo ineguale dei rapporti di produzione nei confronti dei rapporti giuridici; perciò la rappresentazione giuridica di determinati rapporti di proprietà, per quanto derivi da essi, è a sua volta daltro canto non congruente e può essere non congruente con essi. Ha dunque perfettamente ragione Engels a ritenere che la visione giuridica del mondo è da considerarsi come la visione borghese; questa ideologia giuridica ha ampie conseguenze tanto sulla struttura complessiva del processo di riproduzione capitalistico quanto sulla prassi politica. La debolezza della classe lavoratrice di fronte alla classe capitalistica, dovuta alla assoluta mancanza di proprietà delle condizioni della produzione e alla concorrenza interna tra proletari, è ulteriormente potenziata dalla soggettivizzazione e dallisolamento prodotti dal diritto della borghesia. Il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge, una volontà il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di vita della vostra classe. Di conseguenza, il nostro terreno non è il terreno del diritto, è il terreno della rivoluzione [<=].
[k.m.]
Dis/occupazione
Anche le statistiche ufficiali sono sufficienti per vedere che, su scala mondiale, dalla seconda metà degli anni settanta, il livello dellattività economica, e in particolare delloccupazione delle forze di lavoro, è stabilmente al ribasso. Sono ormai passati trentanni dacché il ritmo di sviluppo mondiale [pil] è pressoché dimezzato (2,5-3% contro il 5-6% del quarto di secolo postbellico). Le conseguenze sul lavoro sono ovvie e intuibili, peraltro anche un po aggravate dai mutamenti tecnologici che ulteriormente congelano i posti di lavoro perduti: anche se va smentita la convinzione comune che siano le nuove macchine e linformatica anziché la crisi da sovraproduzione a togliere lavoro. Fatto sta che non è cosa ordinaria leggere che la disoccupazione tedesca, con tutta la media europea, è a due cifre, al di sopra del 10%; che quella giapponese (i cui inverosimili criteri di rilevazione riducono a un terzo i dati reali) è arrivata al 4%, dall1,5-2% abituale; e che anche quella statunitense, vanto del governo di quel paese, anche quando ufficialmente segnava il 6% (equivalente a un 9% europeo), da un lato era più che doppia rispetto a quella degli anni sessanta, dallaltro nascondeva già lalto grado di sottosalarizzazione, precarietà e irregolarità-regolarizzata dei nuovi posti di lavoro. Perfino i paesi di nuova industrializzazione, dalla Corea alla Thailandia hanno cominciato presto a denunciare, per il raggiunto eccesso di sovraproduzione, serie battute darresto sul piano lavorativo (aumento del loro costo internazionale del lavoro rispetto alla capacità di tenuta occupazionale).
Di fronte a un simile quadro del mercato mondiale del lavoro conviene fare chiarezza circa alcuni equivoci alimentati dal non buon senso comune, sia erudito e accademico, sia popolare e volgare. Mentre il primo si aggira nei meandri paradigmatici che rimbalzano da improbabili tassonomie dualistiche keynesiane di occupazione (più o meno piena, pervicacemente questultima ritenuta comunque possibile dalle anime belle del progressismo) e disoccupazione involontaria, alla definizione di comodo di un qualche ineffabile tasso di disoccupazione naturale antinflazionistico (nairu in lingua padronale), facile da far slittare verso lalto secondo la bisogna, fino alla perenne riproposta di teoresi marginalistica della disoccupazione volontaria, giacché sempre vi sarebbe posto per chi desideri lavorare; il secondo cattivo senso comune, popolare, prende le mosse proprio da questultima volgarizzazione economica secondo cui, come la gente ama dire, chi non lavora è perché non ci ha la fantasia o la voglia di lavorare.
Curiosamente, codesta conclusione comune alle vulgate keynesiane, marginalistiche e popolari ha perfino un fondo di verità. Solo un fondo, certo: ed è quel fondamento capitalistico il quale mostra che non è il lavoro che manca mai! ma i soldi per pagarne la forza-lavoro [<=] come merce. Il lavoro ci sarebbe si usa dire sono i milioni che mancano!. Se i lavoratori decidessero di farlo gratis, o a metà prezzo, comunque sottocosto, vedreste che la cosiddetta disoccupazione si dissolverebbe come nebbia al sole. Prova evidente ne sono i nuovi posti di lavoro Usa, tutti i lavori irregolari, neri o grigi, interinali o parziali, formativi o dingresso, ovunque siano, per non parlare degli impagabili (è proprio il caso di dire) cosiddetti lavori socialmente utili: per 800 mila lire lorde al mese si trova qualsiasi lavoro!
Al cospetto di tali risultanze pratiche e teoriche, serve ricordare la semplice analisi marxiana sullintera questione. E se non piace la dizione esercito industriale di riserva [<=], per alcuni troppo militaresca, per altri troppo vincolata alla fabbrica, è perché non si sa né il significato di esercito né soprattutto quello di industria, la quale comprende (da Smith e Ricardo in avanti) ogni attività che lingegnosità umana ha portato fino al pieno sviluppo storico sotto legemonia borghese nellepoca del capitalismo la manifattura e la fabbrica certo, ma altresì lagricoltura e il commercio, la banca e ogni altra transazione circolatoria, ché tutte insieme costituiscono il capitale industriale e la sua era. [A Enrico Berlinguer, nel 1976, fu fatto dire che ormai la legge dellesercito industriale di riserva non funzionava più!]. Restando fermi al significato, al di là dunque dei termini, lanalisi marxista si pone ben al di sopra delle altre, partendo dalla determinazione concettuale e pratica di forza-lavoro come merce.
[gf.p.]
Dispotismo
Marx rimproverò che Hegel osserva in un punto delle sue opere che tutti i grandi fatti della storia del mondo e i loro personaggi compaiono, per così, a due riprese. Egli ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa. Il dispotismo che si ripresenta puntualmente nellinvoluzione della società borghese capitalistica è storia vecchia, che con lo scorrere del tempo sarà sempre più evidente e dura, ma anche drammaticamente ridicola se si tiene conto che ormai si è giunti alla terza, quarta volta o più. Le gesta di Berlusconi hanno precedenti illustri, nella finzione letteraria e nellanalisi scientifica. Da Brecht a Benjamin, da Marx a Engels (per limitarsi agli autori qui parafrasati), ma senza dimenticare altri nomi del calibro di Vico, Lafargue, Lu Hsün, Kraus, hanno visitato ampiamente il tema, di cui qui si vuole offrire un sintetico campionario [repetita juvant].
Lordinamento giuridico borghese e il delitto, secondo le regole del romanzo poliziesco, sono tra loro antagonisti. Nel romanzo poliziesco Il partito di Mackie Messer, il rapporto fra ordinamento giuridico borghese e delitto è rappresentato in modo conforme alla realtà. Lultimo si rivela come un caso particolare dello sfruttamento [<=] che è sancito dal primo. Nei manuali di criminologia i delinquenti sono indicati come elementi asociali. Ma per alcuni la storia contemporanea ha confutato questa definizione. Facendosi delinquenti, secondo la nuova scuola, molti sono diventati modelli sociali. Chi segue tale scuola ha la natura di un capo. Le sue parole hanno un tono statale, le sue azioni un tono commerciale. I compiti di un capo non sono mai stati più difficili di oggi. Non basta usare la forza per la conservazione dei rapporti di proprietà [<=]. Non basta obbligare gli stessi espropriati al proprio sfruttamento. Questi compiti pratici esigono di essere risolti. Ma come da una ballerina non si pretende solo che sappia danzare, ma anche che sia graziosa, così il fascismo non esige solo un salvatore del capitale, ma anche che egli appaia come un gentiluomo. È questo il motivo per cui un tipo così, in questi tempi, ha un valore inestimabile. Egli è capace di ostentare ciò che il piccolo borghese intristito ritiene tipico di una personalità. Nessuno vuole dargli spiegazioni, uno deve farlo. Ed egli lo può. Poiché questa è la dialettica della cosa: dato che egli vuole assumersi la responsabilità, i piccoli borghesi lo ringraziano con la promessa di non chiedergli conto di nulla.
Lui il Comediavolosichiama non si lascia sfuggire nessuna occasione di farsi vedere. Egli dimostra che si può dire tutto, a es. quanto segue: secondo la mia opinione, noi non abbiamo le persone giuste al vertice dello stato. Appartengono tutte a qualche partito, e i partiti sono egoisti. Abbiamo bisogno di persone che stiano al di sopra dei partiti. Noi vendiamo la nostra merce ai poveri e ai ricchi. La direzione dello stato è un còmpito morale [<=]. Bisogna ottenere che gli imprenditori siano buoni imprenditori, gli impiegati buoni impiegati, insomma i ricchi buoni ricchi e i poveri buoni poveri. Sono convinto che verrà il tempo in cui lo stato sarà guidato in questo modo. Un governo così mi conterà tra i suoi sostenitori.
Il Comediavolosichiama fu dun tratto sulle labbra di tutti. Questuomo eminente già da anni aveva raccolto intorno a sé, in una città di provincia, una quantità di piccoli borghesi, assicurando loro, con una verbosità insolita, che stava per inaugurare una grande epoca. Dopo essersi esibito qualche anno nel circo e nell'avanspettacolo, si guadagnò la fiducia del presidente. Chi, però, una grande epoca laveva già vissuta, si cercò in fretta un posto e lasciò il paese in quattro e quattrotto. Sentì parlare per la prima volta del fascismo anni fa; e come di un movimento diretto contro leterno ritardo dei treni italiani e smanioso di restaurare la grandezza dellantico Impero Romano. Sentì dire che i suoi membri portavano camicie nere. [Però sembra unidea sbagliata, questa, che sul nero lo sporco non si veda. Per questo le camicie brune sono molto più pratiche; ma questo movimento sorse dopo e poté perciò sfruttare lesperienza del primo].
La cosa più importante sembra che il Coso promettesse al popolo italiano una vita pericolosa. A sentire i giornali italiani, pare che questa promessa sollevasse unondata di entusiasmo nella popolazione. Questi movimenti fascisti si autodefiniscono dappertutto movimenti popolari. Loro infatti dicono di andare verso il popolo, cioè verso i nullatenenti. Spesso usano un tono molto aspro contro i ricchi. In contraccambio, però, devono pur fare qualcosa. In generale si pretende troppo dai grandi uomini. Non è meraviglia che non possano adeguarsi a queste tremende pretese.
Si pretende che siano disinteressati. Vorrei sapere come potrebbero esserlo, e perché proprio loro. Ma loro devono continuamente assicurare che non ne ricavano nulla, se non pene preoccupazioni e notti insonni, e il Comediavolosichiama deve pubblicamente versare litri di lacrime per dimostrare lonestà delle sue intenzioni. Infatti il popolo lo segue in guerra solo se il Comediavolosichiama la scatena per puro idealismo, e non per sete di guadagno. Qualche anno fa tenne addirittura un discorso per dire che lui non possiede né feudi né conto in banca. È interessante vedere quanta pena si danno per dimostrare che il macello di milioni di esseri umani e loppressione e la mutilazione spirituale di interi popoli lo fanno gratis, senza riscuotere nessun compenso.
Il fatto è che, se il proletariato non si è battuto in massa, vuol dire che era perfettamente consapevole del suo rilassamento e della sua impotenza, e si è abbandonato con fatalistica rassegnazione nel rinnovato giro di repubblica, impero, restaurazione, fin tanto che non avrà raccolto nuove forze attraverso qualche anno di miseria sotto il dominio del maggior ordine possibile. Sembra che questa sia stata listintiva posizione che ha dominato tra il popolo dopo il ristabilimento del suffragio maggioritario. Se il proletariato vuole aspettare fino a che il suo problema gli venga posto dal governo, può attendere un pezzo. Lultima occasione, in cui la questione tra proletariato e borghesia fu posta abbastanza direttamente, fu per la legge elettorale, e allora il popolo preferì non battersi. Dopo labolizione del suffragio proporzionale, dopo la cacciata del proletariato dalla scena ufficiale, si è davvero preteso troppo attendendosi dai partiti ufficiali che ponessero la questione in modo che convenisse al proletariato. Se il partito rivoluzionario comincia a lasciar passare delle svolte decisive senza dire la sua parola, o, se vi si immischia, senza vincere, lo si può considerare con sufficiente certezza a terra per un certo periodo.
E non si può neanche negare che leffetto del ristabilimento del suffragio maggioritario sulla borghesia, piccola borghesia e in fin dei conti anche su molti proletari (ciò risulta da tutte le informazioni) getti una strana luce. È palese che molti non hanno pensato affatto a quanto sia sciocca la questione posta da Napoleone sul voto; la maggior parte però deve aver capito limbroglio e ciononostante deve essersi detta che ora le cose vanno benissimo, pur di avere un pretesto per non battersi. Tutta la farsa delle elezioni si risolve in nulla. (Cittadini timorosi votano per Lui, insieme a contadini stupidi; oltre a sbagli di calcolo). Napoleone dichiarerà la nazione in stato di alienazione mentale e si proclamerà lunico salvatore della società, e poi la merda sarà chiaramente visibile e Lui starà nel bel mezzo di essa. Ma proprio con questa storia delle elezioni la cosa potrebbe diventare per Lui molto spiacevole, se dopo ci fosse ancora in generale da attendersi una seria resistenza. Ma non cè più linformazione: nessuno può verificarlo.
Il potere di stato centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti, con il governo posto sotto il controllo del parlamento, cioè sotto il controllo diretto delle classi [<=] possidenti, non è diventato solamente una fabbrica di enormi debiti nazionali e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni esso, non diventò solamente il pomo della discordia tra le frazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti, ma anche il suo carattere politico cambiò insieme con le trasformazioni economiche della società.
A misura che il progresso dellindustria moderna sviluppava, allargava, accentuava lantagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, il potere dello stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale [<=] del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per lasservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe un regime di terrorismo di classe aperto e di deliberato insulto della vile moltitudine e attribuiva allesecutivo poteri di repressione sempre più vasti, in pari tempo spogliando la stessa fortezza parlamentare di tutti i suoi mezzi di difesa contro lesecutivo, luno dopo laltro.
Limpero, col colpo di stato come certificato di nascita, il suffragio universale come sanzione e la spada come scettro, pretendeva di salvare la classe operaia distruggendo il parlamentarismo, e, insieme con esso, laperta sottomissione del governo alle classi possidenti. Pretendeva di salvare le classi possidenti mantenendo la loro supremazia economica sulla classe operaia. Finalmente pretendeva unire tutte le classi ravvivando per tutte la chimera della gloria nazionale. La speculazione [<=] finanziaria celebrò delle orge cosmopolite; la miseria delle masse fu messa in rilievo da unostentazione sfacciata di un lusso esagerato, immorale, delittuoso. Il potere dello stato [<=], apparentemente librato al di sopra della società, era in pari tempo lo scandalo più grande di questa società e il vivaio di tutta la sua corruzione. La sua decomposizione, e la decomposizione della società che esso aveva salvato, vennero messe a nudo. Limperialismo [<=] è la più prostituita e lultima forma del potere di stato.
Lironia della storia capovolge ogni cosa. I partiti dellordine, comessi si chiamano, trovano la loro rovina nellordinamento legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente: la legalità è la nostra morte! Alla fine non rimarrà loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale. Essi possono opporre solo la sovversione propria del partito dellordine, la quale non può vivere senza violare le leggi. Violazione della costituzione, dittatura, ritorno allassolutismo, regis voluntas suprema lex! Il compromesso finisce col lasciare lamministrazione nelle mani di una terza casta: la burocrazia. Lautonomia di questa casta, che apparentemente sta al di fuori e per così dire al di sopra della società, dà allo stato il lustro dellautonomia rispetto alla società.
Gli industriali hanno sinora tenuto lontana la burocrazia con la corruzione. Ma questo mezzo li libera solo dalla metà meno pesante del gravame; prescindendo dallimpossibilità di corrompere tutti i funzionari con cui un industriale viene a contatto, la corruzione non lo libera dal pagamento dei diritti dufficio, degli onorari degli avvocati, architetti, ingegneri e di tutte le altre spese causate dalla sorveglianza statale. E quanto più si sviluppa lindustria, tanto più spuntano fuori funzionari coscienziosi, i quali infliggono agli industriali le più gravi angherie. La burocrazia disdegna sempre più di considerare lammanco di cassa come unico mezzo per migliorare lo stipendio e dà la caccia ai posti ben più lucrosi che si hanno nellamministrazione delle imprese industriali, con interessenze nelle ferrovie, con la speculazione in borsa, ecc. Per non parlare di quei signori che hanno investito il loro capitale di circolazione [<=] in titoli, facendo ricorso al credito per rimpiazzare tale capitale nei loro affari legittimi. Tutto ciò, per lorsignori, si spiega con un senso morale dellaccresciuto valore del proprio denaro.
La borghesia è dunque posta nella necessità di spezzare il potere di questa burocrazia petulante e vessatrice. Nel momento stesso in cui lamministrazione dello stato e la legislazione cadono sotto il controllo della borghesia, crolla lindipendenza della burocrazia; anzi, da questo momento i tormentatori dei borghesi si trasformano in servi sottomessi. La borghesia è costretta a compiere il più rapidamente possibile questi cambiamenti, a sottoporre a una revisione radicale lintero sistema legislativo, amministrativo e giudiziario. I borghesi, per le cause riguardanti la proprietà e per i processi criminali abbisognano di una giuria, cioè di un controllo permanente esercitato sulla giustizia. Nulla può caratterizzare lidiozia della borghesia attuale meglio del rispetto con cui essa venera la logica dei miliardari, questi aristocratici da letamaio.
[gf.p.]
(brani tratti da Walter Benjamin, Il romanzo da tre soldi di Brecht;
Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi; Friedrich Engels, Lettera a Marx, 11 dicembre 1851;
Karl Marx, Il Capitale, III.26; La guerra civile in Francia)
Dittatura del proletariato
Ciò che si deve dimostrare è: 1) che lesistenza delle classi è vincolata a fasi particolari, storiche, di sviluppo della produzione; 2) che la lotta di classe conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura costituisce solamente la transizione allabolizione di tutte le classi e a una società senza classi [così Marx scriveva il 5.3.53 a Weydemeyer]. I filistei socialdemocratici sono stati recentemente afferrati da un sacro terrore sentendo pronunciare lespressione dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere di quale dittatura si tratti? Guardate la Comune di Parigi. Quella era la dittatura del proletariato. E lopinione di Friedrich Engels era che quella dittatura del proletariato è la vera democrazia [<=].
La Comune di Parigi è il tipo più perfetto e progredito di repubblica democratica, nella forma dello stato [<=] borghese, ma ancora lontana dalla società comunista senza classi. Lì il potere, lapparato statale e amministrativo, lesercito, la polizia, ecc., non sono più posti al di sopra del popolo; la rappresentanza popolare ha tutto il potere, secondo la costituzione, avendo dietro di sé la maggioranza della nazione. La concentrazione di tutto il potere politico è nelle mani dei rappresentanti del popolo.
La dittatura del proletariato è una forma particolare dellalleanza di classe tra il proletariato, avanguardia dei lavoratori, ed i vari strati non proletari dei lavoratori (piccola borghesia, piccolo padronato, contadini, intellettuali ecc.) o la maggioranza tra questi; è unalleanza contro il capitale, unalleanza che mira al rovesciamento completo del capitale, alla soppressione completa della resistenza della borghesia o ad ogni tentativo, da parte sua, di restaurazione, unalleanza che mira allinstaurazione finale ed al consolidamento del socialismo. La dittatura del proletariato designa lo stato al quale corrisponde un periodo di transizione politica che si colloca come periodo di trasformazione rivoluzionaria, tra la società capitalistica e la società comunista.
Perciò quando Marx criticava il lassalliano programma di Gotha precisava che esso, per il momento, non si deve occupare né della dittatura rivoluzionaria del proletariato né della natura dello stato futuro nella società comunista, poiché non si può pensare a una realizzazione immediata del comunismo. La questione della dittatura del proletariato è la questione dellatteggiamento dello stato proletario verso lo stato borghese, della democrazia proletaria verso la democrazia borghese.
La dittatura del proletariato è forma della massima democrazia possibile in una società di classe. La dittatura del proletariato nella repubblica democratica implica che il pieno potere politico istituzionale, legislativo esecutivo e giudiziario insieme, sia consegnato ai rappresentanti del popolo sovrano. A nessuno stato borghese corrisponde una simile forma di potere [<=]. Perciò la repubblica democratica non è rappresentabile nello stato democratico borghese, bensì nella dittatura del proletariato. Soltanto la mancanza di classi presuppone che gli uomini possano fare a meno dellapparato statale; la stessa dittatura del proletariato, fase di transizione, è una forma di stato (testimonianza del dato storico), è quella di un continuo adeguamento alla fase economica, alle esigenze dellaccumulazione capitalistica.
Perciò Marx si riferiva al capo, concreto e astratto a un tempo, della dittatura borghese ammantata di falsa democrazia denunciandone tutte le magagne, il suo dispotismo reale e il suo apparente regime democratico, le sue gherminelle politiche e il suo brigantaggio finanziario, le sue frasi altisonanti e la sua volgare abilità da borsaiolo.
[m.e.l.]
(riscritti aforisticamente da Marx e Engels, Manifesto; Marx, Le lotte di classe in Francia,
Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, La guerra civile in Francia, Critica del programma di Gotha;
Engels, Prefazioni; Lenin, Che fare?; Sulla Comune di Parigi; Sulla democrazia,
I compiti del proletariato; Stato e rivoluzione)
Divisione internazionale del lavoro
(ripartizione del plusvalore)
Il capitalista industriale [<=] ha continuamente di fronte a sé il mercato mondiale [<=], confronta e deve continuamente confrontare i suoi propri prezzi di costo con i prezzi di mercato, non solo del suo paese ma del mondo intero. Il commercio era in origine condizione per la trasformazione di agricoltura feudale, artigianato casalingo e corporazioni in produzione capitalistica. Esso trasforma il prodotto in merce [<=], gli crea un mercato, porta nuove merci e nuove materie prime e prodotti ausiliari per la produzione e apre rami di produzione, fondati sulla produzione per il mercato e il mercato mondiale e su condizioni di produzione che derivano dal mercato mondiale.
Il commercio estero, in quanto fa diminuire di prezzo gli elementi del capitale costante (e anche i mezzi di sussistenza necessari nei quali si converte il capitale variabile), tende ad accrescere il tasso di profitto, aumentando il tasso di plusvalore e diminuendo il valore del capitale costante. Ma, in quanto non rivoluziona il modo di produzione, esso peggiora unicamente la situazione dei produttori diretti, li trasforma in semplici salariati e proletari in condizioni peggiori di quelli che sono direttamente sottomessi al capitale, appropriandosi del loro pluslavoro. Il padrone si rivolge a loro e contratta sul prezzo precisamente come al monte di pietà per lanticipo su questo o quel pezzo. Questi padroni hanno bisogno di vendere ogni settimana già al fine di poter comprare materie prime per la prossima settimana e di pagare i salari [<=].
Il buon mercato dei prodotti industriali e il sistema dei trasporti e delle comunicazioni, rivoluzionato, sono armi per la conquista dei mercati stranieri. Lindustria, rovinando il loro prodotto di tipo artigianale, trasforma con forza quei mercati in campi di produzione delle sue materie prime. Si crea una nuova divisione internazionale del lavoro in corrispondenza delle sedi principali del sistema delle macchine, ed essa trasforma una parte del globo terrestre in campo di produzione per laltra parte. Se da una parte, con il progresso della produzione capitalistica, lo sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione abbrevia il tempo di circolazione, inversamente lo stesso progresso porta con sé la necessità di lavorare per mercati sempre più lontani, in una parola, per il mercato mondiale.
La massa delle merci che si trovano in viaggio verso punti lontani cresce enormemente, e perciò, assolutamente e relativamente, cresce anche la parte di capitale sociale che costantemente si trova per più lungo tempo nello stadio di capitale-merce entro il tempo di circolazione [<=]. Con ciò cresce contemporaneamente anche la parte della ricchezza sociale che, anziché servire da mezzo diretto di produzione, viene sborsata in mezzi di trasporto e di comunicazione e nel capitale fisso e circolante richiesto per il loro esercizio. Leccedenza del valore della merce sul suo prezzo di costo il plusvalore [<=] sebbene creata nel processo immediato di produzione, si realizza soltanto nel processo di circolazione, e tanto più facilmente assume la parvenza di trarre origine dal processo di circolazione medesimo in quanto in realtà, nellàmbito della concorrenza, in un mercato reale, dipende dalle condizioni di mercato se quelleccedenza stessa si realizza oppure no, e in quale grado.
Il capitale alla fine trapassa, per così dire, a rapporti esterni di vita, a rapporti in cui si contrappongono non capitale e lavoro la cui forma originaria è mascherata per linterferenza di rapporti che apparentemente sono da essa indipendenti ma capitale e capitale: tempo di circolazione e tempo di lavoro si incrociano nel loro corso e in tal modo sembrano determinare ambedue in parti uguali il plusvalore. Questi fenomeni sono addotti dagli economisti come prove che il capitale sarebbe una sorgente autonoma del plusvalore accanto al lavoro e indipendentemente da esso. Lestorsione di pluslavoro, di lavoro non pagato, perdendo il suo carattere specifico, appare soltanto come risparmio nel pagamento di uno degli elementi che entrano nei costi. Apparendo tutte le parti del capitale ugualmente come fonti del plusvalore (profitto), il rapporto capitalistico risulta mistificato.
Il prezzo di produzione non è determinato dal prezzo di costo individuale di ogni singolo industriale produttore, ma dal prezzo di costo richiesto in media dalla merce nelle condizioni medie del capitale: è, in realtà, il prezzo di produzione di mercato, il prezzo medio di mercato distinto dalle sue oscillazioni. Ogni plusprofitto normale (che non sia originato da oscillazioni o da operazioni occasionali, e che non si trasformi in rendita in quanto derivi dalla disponibilità di una forza naturale separabile dal capitale e monopolizzabile) è determinato dalla differenza tra il prezzo di produzione individuale delle merci di questo particolare capitale e il prezzo di produzione generale che regola i prezzi medi di mercato delle merci del capitale complessivo investito in questa sfera di produzione. In questo caso, è una parte del plusvalore, quindi anche una parte del prezzo totale, che si risolve in plusprofitto (o in rendita).
Il plusprofitto che un certo capitale individuale può comunemente realizzare, in una particolare sfera di produzione, deriva da una diminuzione del prezzo di costo, quindi dei costi di produzione. Tale diminuzione è dovuta alla circostanza che il capitale è investito in masse superiori alla media: da un lato, vengono ridotte le false spese della produzione; dallaltro, le cause generali che accrescono la produttività del lavoro (cooperazione, divisione del lavoro, ecc.) possono esercitare uninfluenza a un grado più elevato e agire con maggiore intensità, con limpiego di metodi di lavoro migliori, nuove invenzioni, macchine perfezionate, sperimentazioni chimiche, ecc. in breve vengono usati mezzi di produzione superiori al livello medio.
La diminuzione del prezzo di costo e il plusprofitto che ne risulta derivano dal modo in cui il capitale operante è investito: perché esso, o si trova concentrato in misura straordinariamente grande nelle mani di un solo individuo, oppure opera in modo particolarmente produttivo (entrambe le circostanze vengono meno non appena esse diventano di dominio pubblico). La causa del plusprofitto deriva, dunque, dal capitale stesso in cui è compreso il lavoro che esso mette in movimento. La concorrenza tra i capitali tende, al contrario, a eliminare in grado sempre maggiore questa differenza; la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro socialmente necessario si afferma con la diminuzione del prezzo delle merci e la necessità di produrre merci nelle stesse favorevoli condizioni.
La produzione per il valore e il plusvalore implica la tendenza sempre attiva a ridurre il tempo di lavoro necessario per la produzione di una merce il suo valore al di sotto della media sociale data di volta in volta. Il desiderio di ridurre il prezzo di costo al suo minimo (e il capitalista individuale per una forma capitalisticamente distorta del giusto concetto che luso relativamente maggiore di lavoro passato significhi unaccresciuta produttività [<=] del lavoro sociale può immaginarsi che il lavoro vivo sia lelemento più costoso della sua produzione, quello che più di tutti deve essere ridotto al minimo) diventa la leva più forte per laumento della forza produttiva sociale del lavoro, che tuttavia appare qui soltanto come un aumento continuo della forza produttiva del capitale.
Lincremento di profitto, di cui un capitalista beneficia per il fatto che materia prima e macchinario siano diventati più a buon mercato, è il risultato di un aumento della produttività del lavoro, non già nella manifattura ma nella costruzione delle macchine e nella produzione delle materie prime. Diminuisce il costo necessario per lappropriazione di una data quantità di pluslavoro: è il risparmio che si ottiene nel processo produttivo mercè luso collettivo dei mezzi di produzione a opera del lavoratore collettivo il lavoratore socialmente combinato. Un ulteriore risparmio deriva dallaccorciamento del tempo di circolazione: lo sviluppo dei mezzi di comunicazione è al riguardo un fattore materiale fondamentale.
Per ogni economia di simil genere vale perlopiù il criterio posto: che essa è possibile soltanto per il lavoratore combinato, e spesso può realizzarsi solo in lavori organizzati su scala di vastità eccezionale, ossia esige combinazioni ancor più vaste di lavoratori nel processo produttivo. Uno sviluppo che in parte può, a sua volta, ricollegarsi a progressi nel campo della produzione intellettuale, cioè delle scienze naturali e relative applicazioni, si presenta come la condizione determinante della diminuzione del valore, e quindi del costo, dei mezzi di produzione in altri rami di attività. Si tratta di un fatto di per sé evidente, giacché la merce che proviene da un ramo dindustria come prodotto simmette successivamente in un altro come mezzo di produzione. La riduzione maggiore o minore del suo prezzo dipende dalla produttività del lavoro nel ramo dindustria da cui proviene come prodotto, ed è contemporaneamente condizione non soltanto per la riduzione dei prezzi delle merci nella cui produzione essa entra come mezzo di produzione, ma anche per la diminuzione del valore del capitale costante, del quale essa diviene ora elemento, e quindi per il rialzo del tasso di profitto.
Laspetto caratteristico di questa forma di economia del capitale costante, che trae origine dal progressivo sviluppo dellindustria, sta in ciò: che il rialzo del tasso di profitto in un ramo dindustria è il risultato dello sviluppo della produttività del lavoro in un altro ramo. Ciò che in tal guisa torna a beneficio del capitalista rappresenta a sua volta un guadagno che è il prodotto del lavoro sociale, anche se non dei lavoratori direttamente sfruttati dal capitalista medesimo. Codesto sviluppo della forza produttiva si riconduce sempre, in ultima istanza, al carattere sociale del lavoro posto in opera, alla divisione sociale del lavoro e allo sviluppo del lavoro intellettuale [<=], in primo luogo delle scienze naturali. Ciò di cui qui beneficia il capitalista sono i vantaggi realizzati dal sistema della divisione sociale del lavoro nel suo complesso. È lo sviluppo della forza produttiva del lavoro nel settore di attività estraneo a quello specifico del capitalista, nel settore cioè che a questultimo fornisce mezzi di produzione, la causa per la quale il suo tasso del profitto viene ad aumentare.
Linfluenza del fattore qualità opera con notevole efficacia sulla riproduzione e accumulazione del capitale, che dipende più dalla produttività che non dalla massa del lavoro impiegato. È perciò comprensibile il fanatismo del capitalista: che nulla si sprechi o si guasti dipende in parte dalladdestramento e dalla preparazione dei lavoratori, in parte dalla disciplina che il capitalista riesce a imporre ai lavoratori combinati, disciplina che è già ora quasi del tutto superflua per il salario a cottimo [<=]. Giova osservare che il rialzo del tasso del profitto determinato dalla diminuzione del valore, ossia del costo del capitale, è assolutamente indipendente dalla circostanza che il ramo di industria, in cui esso si verifica, produca oggetti di lusso oppure mezzi di sussistenza che entrino nel consumo dei lavoratori, ovvero mezzi di produzione in genere. Nel caso in cui il plusvalore e il tasso di plusvalore siano presupposti come dati, il rapporto del plusvalore al capitale complessivo il tasso del profitto dipende esclusivamente dal valore del capitale stesso.
Non occorre dunque ricordare che, se la produttività del lavoro realizzata in un settore della produzione si traduce in un altro in forma di riduzione dei prezzi e porta quindi a un rialzo del tasso del profitto, questo fenomeno di generale interdipendenza del lavoro sociale si presenta come qualcosa del tutto estraneo ai lavoratori. Siffatta economia metodo che tende a realizzare un determinato risultato con la minima spesa possibile appare in modo ancor più netto come una forza inerente al capitale e come un metodo proprio e distintivo del modo di produzione capitalistico. Tale rappresentazione è tanto meno sorprendente, in quanto le corrisponde lapparenza dei fatti, e in quanto effettivamente il rapporto capitalistico nasconde lintima struttura del fenomeno nella completa indifferenza, esteriorità ed estraneità in cui essa colloca il lavoratore rispetto alle condizioni di attuazione del proprio lavoro. Conformemente alla sua natura contraddittoria, piena di contrasti, il modo di produzione capitalistico va oltre, fino ad annoverare tra i mezzi per economizzare il capitale, e quindi aumentare il tasso del profitto, lo sperpero della vita e della salute dei lavoratori e il peggioramento delle sue stesse condizioni desistenza.
Lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, la cooperazione, la divisione del lavoro, limpiego delle macchine [<=] su larga scala, ecc., sono impossibili senza lespropriazione dei lavoratori e senza la corrispondente trasformazione dei loro mezzi di produzione in capitale. E nellinteresse della cosiddetta ricchezza nazionale leconomia politica cerca mezzi artificiali per creare la povertà popolare. Qui la sua corazza apologetica si sbriciola come esca marcita. Il suo gran merito è di aver rivelato la verità sui rapporti capitalistici della madre patria. Come il sistema protezionistico alle origini tendeva alla fabbricazione di capitalisti nella madre patria, così esso si pone ora come scopo la fabbricazione di salariati allestero: il complemento, cioè il lavoratore salariato, laltro uomo che è costretto a vendersi volontariamente.
Tutte queste leggi si trasformano in leggi del movimento del salario mediante una semplice traduzione del valore o del prezzo della forza-lavoro [<=] nella forma essoterica del salario. Lintensità media del lavoro cambia di paese in paese: ora è maggiore, ora è minore. Le medie nazionali costituiscono quindi una scala la cui unità di misura è lunità media del lavoro universale. A confronto del lavoro meno intenso, il lavoro nazionale più intenso produce dunque nello stesso tempo più valore, che si esprime in più denaro. Sul mercato mondiale il lavoro nazionale più produttivo vale anche come lavoro più intenso tutte le volte che la nazione più produttiva sia costretta dalla concorrenza ad abbassare il prezzo di vendita della merce al suo valore. Le differenti quantità di merci che sono prodotte in differenti paesi nellidentico periodo di lavoro, hanno dunque valori internazionali ineguali che si esprimono in prezzi differenti a seconda dei valori internazionali.
Quando il denaro, al contrario di tutte le altre merci, viene richiesto come valore per sé stante, forma generale della ricchezza e tali momenti coincidono sempre più o meno con i momenti di crisi viene trasferito sempre dal paese dove è più caro (cioè, dove tutti i prezzi delle merci sono relativamente caduti al livello più basso) al paese dove lo è meno (cioè, dove i prezzi delle merci sono relativamente più alti). Il valore relativo del denaro sarà quindi minore nella nazione che ha un modo di produzione capitalistico più sviluppato, che non in quella che lo ha poco sviluppato. Ne consegue quindi che il salario nominale lequivalente della forza-lavoro espresso in denaro sarà anchesso più alto nella prima nazione che non nella seconda. Così, si troverà spesso che il salario è più alto nella prima nazione che non nella seconda, mentre il prezzo del lavoro, in rapporto sia con il plusvalore sia con il valore del prodotto, è più alto nella seconda che non nella prima.
I dirigenti [<=] sono naturalmente della madre patria, giacché i capitalisti del luogo non sono idonei a condurre una fabbrica. Linflusso diabolico del paese dominante sul mercato mondiale rende necessaria linterferenza dello stato ossia la protezione delle leggi di natura e della ragione da parte dello stato, in altre parole il sistema protezionistico. Alle loro calcagna, viene la guerra commerciale delle nazioni egemoni, con lorbe terracqueo come teatro.
I suoi vari momenti vengono combinati sistematicamente in sistema di dominio territoriale, sistema del debito pubblico [<=], sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, ma tutti si servono del potere dello stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione e per accorciare i passaggi. La storia scriveva il governatore di Giava nel 1817 mostra un quadro insuperabile di tradimenti, corruzioni, assassinii e infamie.
[k.m.]
(le pagine di Marx sono tratte soprattutto dal Capitale e alcune dai Lineamenti; specificamente: KI. 13,7; 20; 24,6; 25 K.II. 4; 14 K.III 2; 5; 8; 14; 17; 19; 20; 22; 27; 30; 33; 38; 41; 49; 50; 51 LF.VII,59ss.)
Dominio
(padronanza o potestà incontrastata)
Lopera del Marchese di Sade mostra lintelletto senza la guida di un altro [Kant], cioè il soggetto borghese liberato dalla tutela. La congiura dei potenti contro i popoli grazie alla loro ferrea organizzazione non è meno vicina e familiare allo spirito illuminato, fin da Machiavelli e Hobbes, che la repubblica borghese. Esso è nemico dellautorità solo dove essa non ha la forza di costringere allobbedienza; dellautorità che non è un fatto. Finché si prescinde dalla questione di chi ladopera, la ragione non è più affine alla violenza che alla mediazione, e secondo la diversa situazione dellindividuo e dei gruppi, essa fa apparire come il dato la pace o la guerra, la tolleranza o la repressione. Il pensiero diventa completamente un organo, retrocede a natura.
Ma per i potenti gli uomini diventano un materiale, come lintera natura per la società. Dopo il breve intermezzo del liberalismo, in cui i borghesi si tenevano reciprocamente a bada, il dominio si rivela come terrore arcaico nella forma razionalizzata del fascismo [non più, oggi, così facilmente riconoscibile nella camicia nera o croce uncinata]. Bisogna dunque dice il principe di Francavilla ad un ricevimento del re Ferdinando di Napoli sostituire le chimere religiose con lestremo terrore; liberate il popolo dalla paura dellinferno, ed esso, appena distrutta quella paura, si permetterà subito qualunque cosa; ma sostituite quella paura chimerica con leggi dinaudito rigore, destinate, peraltro, a colpire solo il popolo [cfr. i Patriot Acts], poiché è solo il popolo a creare disordine nello stato: i malcontenti nascono solo dalla classe inferiore. Che cosa importa al ricco limmagine di un morso che non deve mai provare su sé stesso, quando con questa vuota parvenza ottiene il diritto di spremere a sua volta tutti coloro che vivono sotto il suo giogo? Non troverete nessuno, in quella classe, che non sarebbe disposto ad accettare che cali su di lui la più fitta ombra della tirannide, purché essa, in realtà, pesi solo sugli altri.
Laffinità di conoscenza e piano (Kant), che dà allesistenza borghese, razionalizzate fin nelle sue pause, un carattere, in tutti i particolari, di finalità ineluttabile, è stata esposta empiricamente da Sade un secondo prima dellavvento dello sport. Nello sport come in tutti i settori della cultura di massa regna unattività intensa e funzionale, dove solo lo spettatore perfettamente iniziato è in grado di capire la differenza delle combinazioni e il significato delle vicende, che si misura a regole arbitrariamente stabilite.
Lo schema dellattività contava più del suo contenuto. Nelletà moderna lilluminismo ha svincolato le idee di armonia e perfezione dalla loro ipostasi nellaldilà religioso, e le ha assegnate come criteri allo sforzo umano nella forma del sistema. Lordine borghese stabilito ha definitivamente funzionalizzato la ragione. Essa è diventata finalità senza scopo, che, appunto perciò, si può adoperare a tutti gli scopi. È il piano considerato in sé stesso. Lo stato totalitario adopera le nazioni. Vale a dire, rispose il principe, scrive Sade che il governo deve regolare da sé la popolazione e deve avere in mano tutti i mezzi per distruggerla, se ha ragione di temerla, o per accrescerla, se lo ritiene necessario, e non può esservi altro equilibrio della sua giustizia che quello dei suoi interessi o delle sue passioni, unite solo agli interessi e alle passioni di quelli hanno ottenuto da lui tanto potere quanto è necessario per moltiplicare il suo.
Il principe mostra la via che limperialismo, la forma più temibile della ratio, ha percorso da sempre: Togliete al popolo che volete sottomettere il suo dio, e demoralizzatelo; finché non adorerà altro dio che voi, non avrà altri costumi che i vostri, sarete sempre suoi padroni ... Lasciategli pure in compenso la più ampia facoltà di delinquere; e non punitelo mai, a meno che i suoi aculei si rivolgano contro voi stessi. Con lo sviluppo del sistema economico in cui il dominio di gruppi privati sullapparato produttivo divide e separa gli uomini, lautoconservazione data come identica della ragione, listinto oggettivato dellindividuo borghese, si rivelò come forza naturale distruttiva, inseparabile dallautodistruzione.
Luna trapassò confusamente nellaltra. La ragion pura divenne antiragione, condotta impeccabile e vuota. Ma lutopia che annunciava la conciliazione fra natura e soggetto uscì, con lavanguardia rivoluzionaria (degli anni 40), dal suo nascondiglio nella filosofia tedesca, irrazionale e ragionevole insieme, come idea dellassociazione di uomini liberi, e attirò su di sé il furore indignato della ratio. Nella società comè, e nonostante i poveri tentativi moralistici di diffondere lumanitarismo come il mezzo più razionale, lautoconservazione rimane intatta dallutopia denunciata come mito. Autoconservazione astuta è, in alto, la lotta per il potere fascista, e, fra gli individui, ladattarsi a qualunque prezzo allingiustizia. La gerarchia naturale è giustamente smascherata come un riflesso della società medioevale, e i posteriori tentativi di provare un nuovo ordine oggettivo di valori recano scritta in fronte la menzogna.
Il mezzo con cui la borghesia era pervenuta al potere scatenamento delle forze, libertà generale, autodeterminazione, insomma lilluminismo si rivolse contro la borghesia, non appena essa, divenuta sistema di dominio, fu costretta ad esercitare loppressione. Il principio antiautoritario deve, infine, rovesciarsi nel proprio opposto, nellistanza ostile alla ragione stessa: la liquidazione che esso attua di ogni norma direttamente vincolante, permette al dominio di decretare sovranamente gli obblighi che via via gli convengono, e di manipolarli a suo piacere.
Con la formalizzazione della ragione la teoria stessa, in quanto voglia essere qualcosa di più che il segno di operazioni neutrali, si trasforma in concetto incomprensibile, e il pensiero è ritenuto sensato solo se ha compiuto il sacrificio del senso. Ci sono i deboli e i forti; ci sono classi, razze e nazioni dominatrici, e ci sono quelle inferiori e soccombenti. Forza, bellezza, statura, eloquenza: furono queste le virtù determinanti, allinizio della società, nel trapasso del potere ai dominatori. Pretendere dalla forza continua Nietzsche che essa non si manifesti come forza, che non sia volontà di sopraffare, di abbattere e di dominare, sete di nemici, di resistenza e di trionfi, è altrettanto assurdo che volere che la debolezza si manifesti come forza.
[m.h - t.a.]
(da Max Horkheimer - Theodor W. Adorno, Dialettica dellilluminismo, 1947)
Egemonia finanziaria
(vicissitudini delle speculazioni)
Legemonia del capitale finanziario accelera il movimento di concentrazione, trasformando la produzione in una produzione sociale, matura per essere sottoposta al controllo dellintera società. Naturalmente i teorici borghesi ritengono che lorganizzazione degli imprenditori sia in grado di eliminare lanarchia della produzione e le crisi [<=]. Assurdo! Il capitalismo continua a soffrire di periodiche convulsioni. Lattività della scuola storica-etica si risolve in un gran numero di lavori storico-descrittivi: storia dei prezzi, del lavoro salariato, del credito, della moneta, ecc. Ma tutto questo non ha fatto fare un solo passo avanti alla teoria dei prezzi o del valore, alla teoria dei salari o della circolazione monetaria [<=]. È necessario quindi rendersi conto che si tratta di due cose del tutto diverse.
Una cosa è la statistica dei prezzi, unaltra cosa, profondamente diversa, è una teoria generale del valore e dei prezzi. Il rifiuto di una teoria generale è la negazione delleconomia politica come disciplina teorica autonoma, la sua dichiarazione di fallimento. In generale, la scienza può proporsi due obiettivi: o descrivere ciò che esisteva in una data epoca e in un dato luogo, o tentare di ricavare dai fenomeni delle leggi. È evidente che la teoria delleconomia politica rientra nel secondo tipo di scienza. La scuola storica-etica, invece, con il suo disprezzo per le leggi generali, distrugge in realtà leconomia politica in quanto scienza, sostituendole la descrizione pura.
Werner Sombart, nel suo recente libro sullorigine dello spirito capitalistico, esamina gli elementi che caratterizzano limprenditore, limitandosi però a tracciare la linea ascendente dello sviluppo capitalistico; la psicologia borghese nel suo aspetto decadente non rientra nella sua indagine. Tuttavia si trovano nella sua opera esempi interessanti. Ecco cosa è secondo lui lalta finanza: persone ricchissime, per la maggior parte di origine borghese, che avevano fatto fortuna come intendenti o creditori dello stato e si muovevano alla superficie, come il grasso nel brodo, senza però avere alcun legame con la vita economica. Sarebbe assolutamente sbagliato pensare che questa psicologia sia scomparsa; è vero piuttosto il contrario.
Levoluzione capitalistica degli ultimi decenni ci ha fatto assistere a una rapida crescita dellaccumulazione. In seguito allo sviluppo delle diverse forme di credito, il plusvalore accumulato ritorna a individui che non hanno spesso alcun rapporto con la produzione. Il numero di questi individui cresce continuamente, tanto da arrivare a formare unintera classe la classe dei rentiers [redditieri]. Questo strato della borghesia, benché non costituisca una classe sociale nel senso specifico della parola, ma piuttosto un gruppo con proprie caratteristiche allinterno della borghesia capitalistica, possiede tuttavia alcuni elementi peculiari che lo contraddistinguono. Lo sviluppo delle società per azioni e delle banche, linfluenza crescente della borsa, allargano questo strato sociale e nello stesso tempo lo rafforzano. La sua attività economica si esercita principalmente al livello della circolazione, soprattutto di titoli e valori, nelle transazioni di borsa.
È significativo il fatto che allinterno di questo strato sociale, che vive di ciò che questi valori rendono, esistano tuttavia diverse sfumature; il caso limite è rappresentato da quegli elementi che si trovano fuori non solo della produzione, ma anche dello stesso processo di circolazione [<=]. Sono anzitutto i possessori di valori a interesse fisso: titoli di stato, obbligazioni di vario genere, ecc; in secondo luogo quanti hanno investito la loro fortuna in beni fondiari, dai quali ricavano rendite sicure e durevoli. Questi individui non conoscono le incertezze del gioco in borsa; i proprietari di azioni, strettamente dipendenti dalle vicissitudini delle speculazioni [<=], possono ogni giorno o perdere tutto o sollevarsi molto in fretta, vivendo in questo modo la vita del mercato, dalla partecipazione attiva alla borsa alla lettura dei listini e dei giornali finanziari.
Questo legame con la vita socio-economica cessa di esistere per quei gruppi che ricevono i loro redditi da valori a interesse fisso, fuori del campo della circolazione. Daltra parte, più si sviluppa il sistema del credito [<=], più cresce la possibilità di ingrassarsi, di restare pigro e inattivo. È lo stesso meccanismo capitalistico che se ne incarica: mentre rende socialmente inutili le funzioni organizzatrici di una gran parte degli imprenditori (uomini daffari) elimina nello stesso tempo gli elementi superflui dalla vita economica immediata, i quali si depositano alla superficie della vita economica come il grasso nel brodo per usare lespressione di Sombart.
È necessario rilevare, a questo proposito, che i possessori di valori a interesse fisso non sono affatto diminuiti allinterno della borghesia che vive di rendita: al contrario, rappresentano un gruppo in costante espansione. La borghesia si trasforma in una massa di rentiers che hanno gli stessi rapporti con le grandi organizzazioni finanziarie e con lo stato da cui acquistano i buoni del tesoro: in entrambi i casi vengono pagati senza essersi dovuti occupare di nulla. Daltra parte la borghesia preferisce affidare le sue fortune allo stato, che presenta il vantaggio di offrire maggiori garanzie di sicurezza. Senza dubbio le azioni offrono interessi maggiori dei titoli di stato, ma comportano anche notevoli rischi. La borghesia crea ogni anno una notevole eccedenza di capitale [<=]; anche in una situazione favorevole allo sviluppo industriale, però, le emissioni di azioni riescono ad assorbire solo una piccola parte di questa eccedenza, laltra parte, di gran lunga più importante, viene investita in buoni dello stato, prestiti comunali, ipoteche e altri valori a interesse fisso [Parvus, Lo stato, lindustria e il socialismo].
Questo strato della borghesia è assolutamente parassitario; ha inoltre delle caratteristiche comportamentali che lo avvicinano alla nobiltà decaduta dellancien regime e ai massimi esponenti dellaristocrazia finanziaria della stessa epoca. La caratteristica più evidente di questo gruppo sociale, che lo differenzia dal proletariato e dagli altri settori della borghesia, è, come già abbiamo rilevato, la separazione dalla vita economica: non partecipa direttamente né allattività produttiva né al commercio. Spesso quelli che appartengono a questo strato sociale non staccano neppure le cedole.
Per caratterizzare ancora meglio il campo in cui si esercita lattività del rentier, diciamo che essa si svolge nella sfera del consumo [<=]. Tutta la vita del rentier si basa sul consumo e luso allo stato puro costituisce il suo stile di vita. Il rentier consumatore pensa solo a cavalli da corsa, tappeti di lusso, sigari profumati, vini di marca. Se parla di lavoro, si intende lavorare a cogliere fiori o a procurarsi dei biglietti per il teatro (questi esempi sono quelli di cui si serve Böhm-Bawerk per spiegare la sua teoria del valore). Essendo fuori del suo orizzonte il lavoro necessario a procurarsi i beni materiali, la produzione rimane per lui qualcosa di casuale. Non è il tipo adatto per una vera attività; la sua mentalità è del tutto passiva; la filosofia e lestetica del rentier hanno un carattere essenzialmente contemplativo, la psicologia del consumatore.
Abbiamo visto che la classe sociale in questione è un prodotto della decadenza della borghesia, decadenza dovuta al fatto che la borghesia ha perso la sua utilità sociale. La situazione di questa classe, estranea al processo produttivo, ha creato un tipo sociale originale, definito, in qualche modo, dal suo carattere asociale. Fin dalle sue origini la borghesia è essenzialmente individualista la sua stessa esistenza poggia su una cellula economica che, per difendere la propria esistenza autonoma, conduce una lotta concorrenziale senza tregua contro le altre cellule ma nel rentier questo individualismo è ancora maggiore. Costui non conduce alcuna vita sociale, vive in isolamento; i suoi legami sociali sono interrotti, neppure gli obiettivi generali di classe riescono a coagulare questi atomi sociali. Si assiste non solo alla scomparsa di ogni interesse per le imprese capitalistiche, ma anche di qualsiasi pensiero attinente al campo sociale.
Caratteristica, comune daltra parte a tutta la borghesia, è la paura del proletariato, la paura di imminenti rivolgimenti sociali. Il rentier non è capace di fare programmi: la sua filosofia si riduce alla formula: cogli lattimo, carpe diem; il suo orizzonte non supera il presente; se si spinge a pensare allavvenire, non può immaginarlo diverso dal presente; non riesce ad immaginare un giorno in cui la gente come lui non avrà più delle rendite; spaventato, chiude gli occhi davanti a una tale prospettiva, fa finta di non sapere nulla e si sforza di non vedere nel presente i germi dellavvenire; il suo pensiero è essenzialmente antistorico. La lotta di classe [<=] che incalza impone al proletariato il compito di superare il sistema socio-economico esistente.
Se ci soffermiamo ad analizzare la scuola austriaca, o, meglio ancora, i lavori del suo esponente più in vista, Böhm-Bawerk, salta agli occhi che i tratti psicologici che abbiamo attribuito al rentier, trovano in costui corrispondenza sul piano logico. Anzitutto, per la prima volta viene trattato a fondo il problema del consumo. Lindividualismo gretto ha il suo esatto equivalente nel metodo soggettivo-psicologico caro alla nuova scuola. Già nel passato lindividualismo aveva contraddistinto i teorici borghesi, che sempre avevano avuto un debole per le robinsonate. Anche i rappresentanti delle teorie del valore lavoro fondavano la loro posizione con estrema coerenza solo ora, nella teoria della scuola austriaca.
Il timore di rivolgimenti, infine, si esprime, tra i difensori della teoria marginalista, come avversione profonda per tutto ciò che ha carattere storico; secondo quegli autori, le categorie economiche di cui essi si servono sono valide per tutti i tempi e per tutte le epoche; non è quindi necessario, come raccomanda Marx, esaminare le leggi di sviluppo della moderna produzione capitalistica in quanto categoria storica specifica. Fenomeni come il profitto, linteresse, ecc. vengono considerati dati costanti della società umana.
In ciò è evidente un tentativo di giustificazione delle condizioni presenti. Il tono degli esaltatori dellordine capitalistico si abbassa quanto più sono deboli gli elementi della conoscenza teorica. Nella natura dellinteresse [ossia del profitto] non cè dunque niente che in sé possa apparire ingiusto o ingiustificato: questo è il risultato conclusivo (e secondo noi anche lobiettivo) della vasta indagine di Böhm-Bawerk.
Il rentier rappresenta quindi un tipo di borghese particolare e la teoria dellutilità marginale è lideologia di questo tipo particolare. Il rapido sviluppo del capitalismo, lo spostamento dei gruppi sociali e la moltiplicazione dei rentier servirono a preparare, negli ultimi decenni del XIX secolo, il terreno sociale e psicologico adatto perché questi esili germogli potessero svilupparsi. Il rentier, quello internazionale, trovò in Böhm-Bawerk una guida scientifica e nella sua teoria unarma adatta non tanto contro le forze elementari dello sviluppo capitalistico, quanto contro un movimento operaio che si faceva sempre più minaccioso.
[n.b.]
Egualitarismo
La richiesta delluguaglianza dei salari è basata su un errore, su un desiderio vano, che non verrà mai appagato. Essa scaturisce da quel radicalismo falso e superficiale, che accetta delle premesse ma tenta di evitare le conclusioni. Sulla base del sistema del salario [<=] il valore della forza-lavoro [<=] viene fissato come quello di qualunque altra merce [<=]. E poiché diverse specie di forza-lavoro hanno un diverso valore, richiedono cioè diverse quantità di lavoro per la loro produzione, esse debbono aver un prezzo diverso sul mercato del lavoro. Richiedere, sulla base del sistema salariale, una paga uguale o anche soltanto equa, è lo stesso che richiedere la libertà [<=] sulla base del sistema schiavistico. Ciò che voi, dunque, considerate come equo o come giusto, non centra per niente. Con queste parole Marx spiegò alla Internazionale dei lavoratori le differenze di salario. Lequità e la giustizia sono categorie morali che con il rapporto di capitale non centrano per niente. Tale circostanza era ben presente agli agenti del capitale che, già negli anni sessanta del secolo scorso, attraverso la commissione parlamentare dinchiesta sul lavoro minorile ne consideravano le implicazioni. Essi, lamentandosene, segnalavano liniquità che conseguiva alla disuguaglianza del trattamento legale restrittivo del lavoro minorile e femminile, riservato alle grandi fabbriche rispetto alle piccole imprese, rese esenti dai medesimi obblighi.
La storia si ripete tal quale oggi, dopo che il trucco del piccolo è bello ha dissodato il terreno per il grande è meglio, con la centralizzazione [<=] finanziaria mascherata da decentramento produttivo e dislocazione degli investimenti, sotto il falso nome di deindustrializzazione. Fin dal secolo scorso quella commissione dinchiesta mostrava di aver perfettamente compreso, attraverso quali canali di gestione operativa del capitale industriale, la classe borghese potesse ricavare profitti proprio dalle differenze di valore delle diverse forze-lavoro [comparativamente al loro diverso valore duso]. Dunque, se le forze-lavoro di minori, donne e immigrati, o di popolazioni straniere che il capitale va a sfruttare direttamente a casa loro, hanno un minore valore, lequità e la giustizia borghesi stabiliscono in questo modo la loro regola morale. È così letica del valore, cui il lavoro stesso è sottoposto nella società civile, che stabilisce le norme delluguaglianza. Ancora Marx, nellanalisi della forma di valore, svela che larcano dellespressione di valore, leguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori perché e in quanto sono lavoro umano in genere può essere decifrato soltanto quando il concetto delleguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile soltanto in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto di lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci sia il rapporto sociale dominante.
Per spiegare il concetto di uguaglianza nella società civile borghese, Marx dunque parte da quella base scientifica che è lanalisi della forma di valore. Perché è proprio di fronte a codesta forma che Aristotele, al quale Marx riconosce il grande merito della scoperta, non può procedere. Il rapporto di valore, al quale è inerente lespressione di valore, implica che cose, differenti quanto ai sensi, non sarebbero riferibili luna allaltra come grandezze commensurabili se nellessenza non partecipassero di tale eguaglianza. Egli dice: lo scambio non può esserci senza leguaglianza, e leguaglianza non può esserci senza la commensurabilità. Ma è in verità impossibile che cose tanto diverse siano commensurabili, cioè qualitativamente eguali. Tale equiparazione può essere solo qualcosa di estraneo alla vera natura delle cose, e quindi solo unultima risorsa per il bisogno pratico. Aristotele stesso ci dice dunque per quale ostacolo la sua analisi si arena: per la mancanza del concetto di valore. Che cosè quelleguale, cioè la sostanza comune? Quel che è realmente eguale è il lavoro umano. Ma Aristotele non poteva ricavare dalla forma di valore stessa il fatto che nella forma dei valori di merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano eguale e quindi come egualmente valevoli, perché la società greca poggiava sul lavoro servile e quindi aveva come base naturale la diseguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro. Il genio di Aristotele conclude Marx risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto deguaglianza nella espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società entro la quale visse gli impedisce di scoprire in che cosa insomma consista in verità questo rapporto di eguaglianza.
Ora, ai nostri moderni padroni e sindacalisti, ma pure egualitaristi radicali falsi e superficiali nessun limite storico impedirebbe di scoprire questa verità scientifica: posto che, col valore, leguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori, e lo stesso concetto delleguaglianza umana, sono già pervenuti a possedere la solidità di un pregiudizio popolare. Nondimeno molti, troppi, tra essi rimangono impigliati nel comune chiacchiericcio moralistico, pro o contro istanze egualitarie, di uguaglianza o disuguaglianza. Cosicché per non partire dalla considerazione esatta dei diversi valori delle diverse forze-lavoro le soluzioni al problema delluguaglianza, che le forze in campo propongono, soffrono sovente di quellampio grado di arbitrarietà e stravaganza che ogni moralismo impone. La forza borghese ha sempre fatto leva su quelle diversità di valori per dividere i lavoratori, di fronte alla rivendicazione dei loro interessi materiali. E nello stesso tempo non ha tardato a proclamare: Libertà! Poiché compratore e venditore della forza-lavoro sono determinati solo dalla loro libera volontà. Eguaglianza! Poiché essi entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di merci, e scambiano equivalente con equivalente. Cosicché la disuguaglianza salariale dei lavoratori divenga il presupposto delluguaglianza etica dei cittadini, questultima indicata come meta da raggiungere attraverso la competizione e la subordinazione alle supreme leggi del capitale.
La lotta tra poveri così innescata è la più chiara espressione di forza della borghesia. Per ciò stesso, al polo opposto, chi erge la parola dordine dellegualitarismo radicale ignora la cattiva infinità che vi conduce: dimenticando le peculiarità del modo di produzione capitalistico, come chi richiedesse, si è ricordato, la libertà nel sistema schiavistico o anche, qui e ora, una libertà diversa da quella borghese del denaro. Nei momenti alti di lotta della classe operaia [<=] immancabilmente è risuonata la richiesta di salari uguali, prospettata come la risposta più dura e politicamente significativa. È facile indicare i motivi di simile fraintendimento. Di fronte alla continua e crescente tendenza di differenziazione e sventagliamento salariale, perseguìta dal capitale, è del tutto corretto che i lavoratori ne pretendano la riduzione e il restringimento. E, per lappunto, gli aumenti salariali uguali per tutti che caratterizzarono, a es., le grandi lotte del 1969 si configurano proprio come freno e controtendenza alla stratificazione del potere di disuguaglianza del capitale. Ma proprio quellobiettivo relativo agli aumenti non ha niente a che vedere, e non va confuso, con la pretesa che il salario intero possa essere uguale per tutti. Oggi i padroni col sostegno della sponda neocorporativa [<=] confsindacale reiterano le loro trame di divisione e disuguaglianza, occultandone la forma di cottimo dietro le voci della professionalità, della produttività e della partecipazione. Dunque, quellobiettivo può ritrovare le ragioni della sua forza, purché esca dallequivoco del suo falso radicalismo. Per far ciò basta poco: riferirsi al valore delle forze-lavoro, la cui differenza è enormemente minore di quella del ventaglio salariale esistente.
[gf.p.]
Eroismo
(rendere invisibile limmiserimento)
Nella mitologia greca gli eroi erano semidei, figli di una divinità e di un mortale. Dopo la morte avevano diritto ad entrare nellOlimpo, assimilati in tutto agli altri dei. Gli eroi emergevano dai conflitti o guerre, in cui si dispiegavano le loro straordinarie capacità o qualità, a distinzione e distanza dagli altri comuni mortali. Il valore eroico stabilizzava così, nellastrazione divinizzata, una separatezza di classe, a giustificazione di un dominio sulle masse, per differenza inferiori e private del riconoscimento della loro importanza sociale.
Anche in mancanza dellOlimpo, si fa ricorso ancora alleroe per legittimare gli interessi dominanti. Quanto più questi non sono in grado di assicurare lesistenza dei popoli, tanto più avanzano guerre che ne preordinano invece il massacro. Finché si avrà bisogno di guerre, dunque, perdurerà la mitizzazione e creazione di eroi. Finché sarà il potere a costruirne a proprio uso e consumo, le masse continueranno ad ignorare quanto la loro docilità e disponibilità sia utilizzabile contro sé stesse. Ad esse, invece, non servono. È tra queste che si reclutano vittime o martiri. A queste si impongono grandi nomi che ne schiaccino la coscienza del proprio valore quotidiano.
La predazione di ogni tempo passa alla conta dei propri morti, ma non quelli, da percepire come indifferenti, del campo avverso. Conta solo i propri per reclamare più truppe se leroismo nelle proprie file è stato grande e più finanziamenti per continuare limpresa negli affari. Non si risparmiano mai incensi e lacrime ai propri eroi. Questo rituale è ciò che esige il consenso per disporne di altri, nel vivaio sempre nutrito della povertà in attesa di pane che le milizie offrono. Nellultima, attuale guerra allIraq, resterà ignota lentità delle perdite umane di quella nazionalità senza distinzione tra civili inermi e armati. Come nella precedente, quella del 91, dove le ruspe vincitrici seppellirono nel deserto morti e vivi. Corpi senza identità, inutile materia da cancellare con lorrore della sofferenza inflitta da armi chimiche e radioattive, a tuttoggi ai più sconosciute, nei loro effetti devastanti anche a lungo termine.
Ad avere un numero sono solo le vittime tra i vincitori (o presunti tali), tra coloro che comunque decidono le guerre, e che un qualche conto ne devono dare ai popoli che li sostengono perché continuino a sostenerli. È qui che si coniano eroi. In Italia si riparla degli eroi o dei ragazzi di Nassiriya. Signorano invece i più di 1800 scomparsi (di ogni lingua o razza) della guerra, prelevati a discrezione imperscrutabile della Cia e di altri servizi segreti a disposizione dei vincitori predestinati, targati Usa & Co.
Questo il senso dellultimo non in assoluto presente. Nemmeno 70 anni fa Bertolt Brecht tradusse siffatta realtà, gestita dal potere del capitale, in opera darte. Lastrazione artistica serve a distanziare lemotività degli affetti per favorire il processo di formazione del pensiero cosciente. Solo attraverso linfinita potenza di questultimo, è possibile smascherare la necessità di dominio e rapina anche di vite umane che costituisce una vera calamità storica per lesistenza delle masse quali che siano. Si tratta solo di un primo passo, laccesso al pensiero razionale, ma è il più complesso, verso lemancipazione su cui occorre poi innestare lazione collettiva.
Il radiodramma Linterrogatorio di Lucullo, da cui fu tratta lopera La condanna di Lucullo, e il dramma Madre Courage e i suoi figli, ambientata nella guerra dei trentanni (1618-1648) prima guerra capitalistica in Europa - toccano il tema dellutilità della guerra e quindi delleroismo. Scritti nel 1938-39, luniversalità dei concetti ivi espressi ha cancellato ogni temporalità contingente. Qui sono riportati solo alcuni scorci, scelti come i più incisivi del tema in questione. Linvito è ri-leggere questi drammi per intero, per coglierne appieno il significato, oltre la bellezza e lironia.
Lucullo, eroe e conquistatore romano, viene giudicato alla sua morte da un tribunale plebeo. Lal di là vuole rappresentare qui non unipotetica giustizia almeno post mortem, ma il salto necessario dellaccesso alla razionalità, la morte della credulità allinganno non più nutrita dagli interessi materiali.
I giudici, infatti: Siedon su alti scanni: non han mani / per prendere, né bocche per mangiare; / da tempo estinti, gli occhi / son ciechi ad ogni abbaglio. Il criterio di giudizio sarà se Lucullo ha fatto del bene allumanità. A tale proposito vengono interrogati quelli che lombra designerà come suoi testimoni: i grandi cui si appella non si trovano tra i beati dei Campi Elisi, risponderanno solo gli schiavi, i raffigurati del suo trionfo sul fregio funebre, il suo cuoco. Insano! I nomi dei grandi / non spaventano più nessuno, qui. / Non son più minacciosi; e i loro detti / valgon come bugie; le gesta loro non trovano chi le celebri. / ... coro degli schiavi. Dalla vita alla morte trasciniamo / il carico senza protestare. / Da secoli non è nostro il nostro tempo, / ignota la nostra meta a noi stessi. / E alla nuova voce obbediamo / come allantica. Perché protestare? / Nulla ci lasciam dietro, non aspettiamo nulla. /... Uomini un tempo, ed ora non più uomini.
Lucullo ha distribuito regali ai suoi legionari. Ma non ai morti, gli si risponde. Irato chiede: come può giudicare di guerra certa gente senza capirne nulla? Ma la pescivendola che lo inquisisce risponde: Io ne capisco. In guerra ho perduto mio figlio. Alcune ombre corrono, dove? Ad informarmi. Dicono che arruolan legionari / nelle osterie sul Tevere, per la nuova guerra. / Conquisteranno le terre a ponente. / Si chiamano Gallie. / Mai sentite nominare. / Son paesi che sanno solo i grandi.
Di buono Lucullo ha riportato dallAsia conquistata un ciliegio. Un ciliegio! Poteva / conquistarlo con un uomo soltanto. / Ottantamila invece / ne ha mandati tra i morti. La sentenza è dunque: Al nulla, al nulla! Con tante / violenze e conquiste, un solo / dominio sallarga: quello / delle ombre. /... Sì, lo si getti al nulla! Quale nuova / provincia può compensarci / del tesoro degli anni non vissuti? /... Al nulla, lo si getti al nulla ! Quanto / ancora lui e gli altri come lui / sul genere umano inumani dovranno / incombere, alzando le mani accidiose / e imporre il macello reciproco ai popoli? / Quanto ancora / noi li sopporteremo / e gli altri come noi sopporteranno?.
In Madre Courage si evidenzia il destino delle persone qualsiasi che consente ai potenti di muovere guerre per i propri interessi, puntualmente realizzati proprio con il sacrificio di migliaia o milioni di vite. Le circostanze storiche schiacciano i personaggi impotenti o indifferenti alla loro comprensione. Le virtù si tramutano in rovina per chi le possiede, lacume e il coraggio dei poveri contribuisce a farne delle vittime.
Vieni, andiamo a pescare, come diceva il pescatore al verme. (Al figlio) Mettiti a correre, grida forte che vogliono portar via tuo fratello. (Sfodera un coltello) Provatevi a portarlo via: vinfilzo, cialtroni! Ve la do io, voler fare la guerra con lui! Noi vendiamo biancheria e prosciutto e siamo gente tranquilla ... Tutte virtù che non ce nè bisogno in un paese ben ordinato, con un buon re e un bravo comandante. In un buon paese non ci vogliono virtù, tutti possono essere gente qualsiasi, dintelligenza media, e, sissignore, anche dei vigliacchi ...
Le vittorie e le disfatte dei pesci grossi e dei pesci piccoli non vanno sempre daccordo, anzi. Ci sono perfino dei casi, che per i pesci piccoli la sconfitta, in fondo, è un guadagno. Perdono l'onore, ma niente di più... Si può dire in generale che a noialtri, gente comune, vincere e perdere ci costa caro lo stesso ... Grazie al cielo si lasciano ungere. Non sono lupi, son uomini; e tirano ai soldi. Davanti agli uomini, la corruzione è come la misericordia davanti a Dio. La corruzione è la nostra unica speranza. Finché cè quella, i giudici sono più miti, e in tribunale perfino un innocente può cavarsela... È ancora giovane, ha poca pratica della guerra. È perfetamente logico che voglia un premio. Perché fare degli atti di coraggio, sennò?...
I più bei progetti sono stati guastati dalla meschinità di quelli che li devono eseguire, perché anche gli imperatori non possono far nulla da soli, e dipendono dallaiuto dei loro soldati e del popolo del loro paese. Dico bene?... Perché è morto il maresciallo? Non dica bambinate. Se ne trovano a dozzine come lui. Di eroi ce n'è sempre.
Un figlio della Courage arriva ammanettato cercando la madre, non trovandola si svolge un dialogo con altri. Ma dove lo portate? Non al suo bene Che guaio ha combinato? Una rapina in un cascinale. La contadina è morta. Come hai potuto fare una cosa simile! Non ho fatto nientaltro che quello che ho sempre fatto. Ma adesso cè la pace. Piantala. Posso sedermi qui finché torna? Non cè tempo. Durante la guerra, quando si comportava così lo festeggiavano, lo facevan sedere alla destra del comandante. Allora eran considerati atti di valore! Non si potrebbe parlare col giudice militare? Non serve. Portar via le bestie a un contadino, che atto di valore è? È stata una stupidaggine! Se fossi stato stupido, sarei morto di fame, tu, cacasentenze. E invece, siccome sei stato furbo, ora ci rimetti la testa. Altri esempi, cantati, mostrano che la saggezza portò Salomone alla disperazione, il valore di Cesare ad essere ammazzato, la probità di Socrate a bere la cicuta, laltruismo di S. Martino a morire di freddo.
E così la va per noialtri! Siamo gente perbene, ci aiutiamo fra noi, non rubiamo, non ammazziamo, non incendiamo! E così si può dire che ci va sempre peggio, e che siamo lesempio della nostra canzone; e le minestre sono sempre più rare, e se fossimo differenti, se fossimo ladri e assassini, forse avremmo la pancia piena! Perché le virtù non sono rimeritate, ma solo i delitti. Così va il mondo e non dovrebbe andare!... il timor di Dio ci ha così rovinati / che fortunato chi non lha mai avuto! Dopo che madre Courage ha perso tutti i suoi figli in guerra, lopera termina con un canto. Con la buona sorte, i suoi rischi, / la guerra, è tanto tempo che cè. / Anche durasse centanni, la guerra, / la gente come noi non ci guadagna. / Stracci il vestire, schifo il mangiare, / della paga i comandi ne rubano metà.../ Ma un miracolo può ancora capitare: / non è finita ancora, la campagna! / Vien primavera. Sveglia cristiani! / Sgela la neve. Dormono i morti. / Ma quel che ancora morto non è / sugli stinchi si leverà.
[c.f.]
Errore #1
(malattia del finito)
Alcuni cenni nientaffatto esaustivi del concetto di errore, termine che nelluso comune viene usato in molti sensi, apparentemente chiari ed evidenti. Risalendo al greco, si trovano compresi nel verbo amartáno (da un sanscrito mrsyati, trascurare) vari significati di erro, in quanto non colgo, perdo, sono privato, ecc., e quale opposto di giusto: pecco, mi rendo colpevole, sbaglio, minganno, ecc.
In genere si considera per errore uno scambio tra un vero e un falso separabili, dovuto al possibile limite dei sensi, a unillusione, un malinteso, una menzogna, un pregiudizio, uninavvertenza, uninesattezza, una stravaganza, ecc. Se però queste definizioni sono comunemente usate in una comunicazione intersoggettiva che pure trova la sua utilità pratica, qui ci si vuole soffermare sulle matrici concettuali, e poi anche sulluso che questo potere storico ha fatto di quellastratto e vuoto errare humanum est. Si intende cioè oltrepassare la coscienza ordinaria del senso comune, che non sempre è buon senso, per ricercare, nellabbandono del concetto di unità del reale, quellerrore, quel non cogliere soggettivo unoggettività non già palese, ma in apparenza e in superficie continuamente sfuggente.
Se infatti si considera il reale costituito da opposti assolutamente diversi, inseparati e inseparabili, e il cui movimento, o divenire, consiste nellimmediato sparire delluno di essi nellaltro [G.F.W.Hegel, Logica, I.I,I], lerrore consiste nella considerazione unilaterale di uno di questi opposti, isolatamente preso di contro allaltro. Nel divenire, infatti, da una temporalità storica continuamente sotto i nostri occhi, si alterna il nascere e il morire, da cui facciamo astrazione per trovarne il senso nellambito del pensiero. È nel pensiero infatti che il nascere e il perire sono ununità determinata di momenti dileguantisi, che si tolgono, ognuno in sé stesso, includendo in sé stesso il proprio contrario. Ciò che è tolto però non si annulla, è un mediato, è qualcosa entrato nellunità col suo opposto. Prese isolatamente, sia la nascita che la morte, cioè, sono solo astrazioni vuote, prive di verità, analogamente il positivo e il negativo, la causa e leffetto, per quanto si prendano anche come esistenti isolatamente, non hanno però alcun senso uno senza laltro; il loro apparire uno nellaltro, lapparire, in ciascuno, del suo proprio altro, è in loro stessi [Log., I.II]. Le cose finite hanno la loro verità nella loro fine. Il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma lessere delle cose finite, come tale, sta nellavere per loro esser dentro di sé il germe del perire: lora della loro nascita è lora della lor morte [ib.]. Questo germe è linadeguatezza del parziale, o dellindividuo alluniversalità del genere cui appartiene, è la sua malattia originale. La negazione di questa inadeguatezza è appunto ladempimento del suo destino [Enciclopedia, III].
Rispetto quindi allunità contraddittoria della realtà, lerrore sta nel credere che i differenti o siano indistintamente confusi o siano separatamente individuabili come due entità indipendenti e fissate. La falsa parvenza dindipendenza degli estremi (soggettivo/oggettivo, finito/infinito, capitale/lavoro, ecc.) è lerrore dellintelletto astratto che erroneamente stima, inoltre, la sua come una riflessione estrinseca al processo conoscitivo, che supera le stesse produzioni intellettuali, riconducendole allunità dei momenti dialettici [Enc,§.214]. Ma quel modo dintendere fa parte di una generalizzazione e supremazia della conoscenza im-mediata, come conoscenza certa, che Hegel definisce linfima delle conoscenze. Ciò che importa invece è conoscere che questo sapere immediato dellessere delle cose esterne è illusione ed errore; che nel sensibile come tale non è verità alcuna; che lessere di queste cose estrinseche è piuttosto alcunché di accidentale, di passeggero, unapparenza; che esse sono essenzialmente cose le quali hanno unesistenza separabile dal loro concetto ed essenza [Enc.,§.76]. La verità cui qui ci si riferisce è la corrispondenza delloggettività al concetto, vero è solo ciò che è sostanziale e non ciò che può essere accidentale o esterno. Ogni finito ha questo di proprio, che sopprime sé medesimo. La dialettica forma, dunque, lanima motrice del progresso scientifico; ed è il principio solo per cui la connessione immanente e la necessità entrano nel contenuto della scienza: in essa soprattutto è la vera, e non estrinseca, elevazione sul finito [Enc., §.81].
Trasferita la riflessione solo filosofica nellanalisi economica, Marx mostra, ad esempio, come il valore delloro e dellargento sia stato erroneamente ritenuto immaginario, dato che la moneta appariva come la forma fenomenica di rapporti umani nascosti dietro la forma di denaro. Che loro sia merce costituisce dunque una scoperta soltanto per colui che parte dalla sua figura compiuta per analizzarla a posteriori [Il capitale, I.2]. Partire dalla fine per scoprire linizio è il ripercorrere a ritroso nel pensiero scientifico la dialettica del reale, da cui solo è possibile evincere che: il valore del denaro-merce prodottosi nel processo produttivo acquista la sua forma specifica di valore solo nello scambio. Erroneamente confusi. Qui come altrove lerrore è inscritto nella invisibilità empirica di un processo parziale; solo la scienza possiede, a compimento avvenuto (a destino realizzato), la visione totale che fornisce verità ai singoli momenti del processo stesso.
Inoltre, il saggio di accumulazione diminuisce unitamente al saggio di profitto. Alla diminuzione di questultimo si profila la crisi: eccesso di capitale e contemporaneamente eccesso di popolazione. Il carattere storico, transitorio di questo modo di produzione di contro a chi (Ricardo) lo considera un assoluto, eternizzabile si evidenzia dalla produzione di un limite intrinseco, conflittuale con il suo stesso ulteriore sviluppo.
La minaccia che esso rappresenta per sé stesso non ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza come tale... Non si deve dunque mai rappresentare questultima (la produzione capitalistica) per ciò che non è, vale a dire come produzione avente per scopo immediato il godimento o la produzione di mezzi di godimento, per il capitalista. Con ciò si astrae completamente dal suo specifico carattere, che si presenta in tutta la sua intima essenza [C, III.15]. Che il sistema produca dunque ricchezza, benessere, o è propaganda, cioè induzione deliberata allerrore, o equivoco. Lo scopo e la determinazione di questo modo di produzione è la produzione di plusvalore che si chiude con la produzione immediata. Marx continua in uno schema analitico di ritorno allinizio, secondo cui il plusvalore devessere realizzato nella vendita delle merci prodotte, con un effetto di ampliamento necessario del mercato. Questo allora appare come dominato da una legge naturale indipendente dai produttori, sfuggendo ad ogni controllo. Il processo innescato è quindi allargamento del campo esterno della produzione, aumento del contrasto con la base ristretta del consumo e impiego di minore quantità di lavoro. La diminuzione del tasso di profitto coincide però con laumento della massa del profitto, cioè appropriazione maggiore di quantità di prodotto annuo sotto forma di capitale, e minore sotto forma di profitto. Di qui la fantastica affermazione del prete Chalmers, che la quantità di profitto che i capitalisti intascano sia tanto più considerevole quanto minore è la massa del prodotto annuo che essi spendono come capitale; e la Chiesa di Stato viene loro in aiuto in questo senso, preoccupandosi del consumo piuttosto che della capitalizzazione di una gran parte del plusprodotto. Il prete già nominato confonde causa ed effetto [ivi].
Infine, la particolarità del sistema di capitale costituisce il limite a ciò che vorrebbe incarnare: luniversale realizzato per il benessere della vita. Nel conflitto tra estensione della produzione e valorizzazione (nessi immanenti) emerge ulteriormente la contraddittorietà reale e necessaria del continuo autosuperarsi in quanto finitezza espressa dalla crisi. La tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive contiene al suo interno lo scopo della conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione (vale a dire laccrescimento accelerato di questo valore).
Nel superare costantemente i limiti immanenti, la produzione capitalistica riesce a superarli unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta. Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario: i mezzi di produzione non sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo di vita per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e lautovalorizzaione [Aufhebung] del valore-capitale, che si fonda sulla espropriazione e limpoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo... Il mezzo lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono[C, III.15].
[c.f.]
Errore #2
(tragico)
Nella concezione arcaica, la tragedia (circa 534 a.C.) è la forma teatrale in cui gli uomini rivivono la verità rivelatisi: la vita è un inespiabile dolore [D. del Corno, Letteratura greca, Milano 1988]. È in questa forma che si avvia larticolazione di una concezione conflittuale fra le azioni umane volontarie, e apparentemente libere di tendere a un fine, e forze sovrastanti che ne impediscono il raggiungimento. La coscienza di questo conflitto, dello scarto cioè tra possibilità e necessità, tra valore vero e valore considerato, fa emergere il concetto di limite umano, di una soggettività costretta da imperativi trascendenti a non poter estendere il proprio controllo totale sul mondo interno ed esterno. Questo limite, per essere accettato, deve accompagnarsi ad una colpa; anche senza volerlo lessere umano sbaglia perché è la sua unilateralità, la sua condizione stessa, a portarlo a considerazioni parziali dellesistente. La volontà, anche semidivina o titanica oppure eroica, di affermare questa unilateralità, non può che essere manchevole, colpevole. Questo errore amartía lo chiama Aristotele è però una colpa oggettiva, non dovuta alla scelta soggettiva e volontaria umana, e pertanto inconciliabile [Gthe, 1824], inespiabile. Tragica è quindi la consapevolezza di essere portatori di questa colpa, che ineluttabilmente trascina verso quello che i greci rappresentarono come il Fato, o come la Necessità (divinizzata), o come lOlimpo o Zeus. Questi sono oppure, a seconda, sono dominati da quella legge superiore arbitraria e pur giusta, che segna il Destino umano.
Questultimo è inoppugnabile, la sua legge non risiede nelle mani delluomo che non può in alcun modo sfuggire alla propria precarietà. La colpa, allora, non solo risiede nella tracotanza di rendersi simili agli dei per dominare almeno gli effetti di quella legge, ma si propaga anche dal singolo alle generazioni successive. Lirrazionale si inscrive così nelle sorti umane, in questa ereditarietà colpevole, la cui redenzione e unica libertà è costituita dallaccettazione del dolore, del male di vivere, quale via che conduce alla conoscenza. Lautoaffermazione dellindividuo, anche inconsapevole, si trasforma quindi nel proprio annientamento, e lerrore, che viene contemporaneamente così bloccato nella sofferenza o morte delleroe, diventa anche lhumus su cui si staglia la grandezza (titanica) di chi ha avuto la forza di scontarlo, in alcuni casi divenendo addirittura un eletto.
Nella ripresa del tema tragico ad opera della filosofia classica tedesca (xviii-xix secolo), la ribellione e la successiva condanna apparentemente insensata, costituiscono un omaggio alla libertà delluomo [Schelling in Renato Caputo, Il tragico nel primo Hegel, Lecce 2006]. A differenza di Schelling, Hegel nega lestraneità sia della colpa sia del destino al soggetto, che, proprio perché agisce, si trova nella condizione di compiere atti non del tutto consapevoli, insiti nella necessità dellazione libera. Il destino umano non è qualcosa di esteriore e trascendente, ma è forgiato dallindividuo stesso nel compimento delle azioni volute. Queste quindi, proprio perché parzialmente consapevoli, effettuano una violazione nella realtà, che chiede riparazione allagente col sacrificio della singolarità il togliersi del determinato. Sembra necessario a questo punto addentrarsi sia nel concetto di male allorigine della colpa, sia in quello di finitezza, la cui verità è fuori di essa, e pertanto il suo doversi togliere.
Il male non è altro che linadeguatezza dellessere rispetto al dover essere. Questo dover essere ha molti significati; e, giacché gli scopi accidentali hanno insieme la forma del dover essere, ne ha infiniti. Rispetto ad essi, il male è solo la giustizia, che si esercita sulla nullità e vanità di quella loro immaginazione. Essi stessi sono già il male. La finità della vita e dello spirito cade nel loro giudizio, nel quale essi hanno laltro, che è separato da loro, insieme in loro come il lor negativo; e così sono quella contraddizione, che si chiama il male [Enc. §.472]. Nellambito del sentimento pratico, la volontà, in altri termini, esprime una duplicità contrastante tra lessere autodeterminazione oggettivamente valida e qualcosa di determinato immediatamente o dallesterno. Questultima affezione, esterna, diventa ciò che è piacevole se si accorda con il primo dover essere posto dalla natura stessa del soggetto; spiacevole invece se si tratta di disaccordo. Dato che comunque quellautodeterminazione rimane soggettiva, relativa al sentimento, e questo non ha nessun contenuto che non gli provenga dallesterno, il giudizio che viene a formarsi non potrà che essere superficiale e accidentale. Il principio del male e del dolore (J. Böhme) risiede nella soggettività, lIo, la libertà; legoità è pena e tormento, la cui fonte è nella natura e nello spirito. Allinterno della coscienza il pensiero è il centro nel quale le opposizioni ritornano come nella propria verità. Il giudizio collega le determinazioni universali di pensiero con loggetto (colto ancora come dato), riferendolo come una connessione oggettiva, una totalità. Le circostanze che condizionano un fenomeno figurano qui ancora come esistenze indipendenti e quindi la relazione tra i fenomeni tra loro risulta estrinseca. In mancanza di una concettualizzazione vera e propria appare solo una necessità priva di concetto. Ma quella Necessità, divinità arcaica, che con la Moira incombeva esterna sulle umane volontà era forse preludio di un sapere concettuale, che già poneva elementi di razionalità ancora incompleti o confusi? La libertà, modernamente intesa, per essere vera cioè eticità deve contenere un fine universale, non soggettivo, egoistico. E tale contenuto è nel pensiero e mediante il pensiero. La volontà quindi tende ad oggettivarsi nei fatti e nelle azioni, liberandosi della propria soggettività per giungere al proprio concetto la libertà stessa prefisso come scopo. La volontà libera è allora razionalità in genere ed è destinata a diventare effettualità, realtà sociale giuridica, etica, scientifica, ecc. nella conquista concettuale e pratica universalmente partecipata ed estensibile.
Ecco allora che il destino non appartiene solo al singolo (altrimenti tipizzazione artistica) ma riguarda lintera civiltà, che incontrerà nella decadenza il proprio compimento dovuto proprio alla sua massima espansione. Si delinea a questo punto, al dileguare del concetto di colpa tragica, il processo dialettico di una storia che svolge dal suo interno le infinite contraddizioni di una finitezza necessaria, necessitante e però superabile in ununiversalità in divenire.
Non è più lirrazionale a dominare lumanità con le sue colpe fissate, inscritte in eroi titanici anchessi inchiodati alla rispettiva mancanza soggettiva, bensì un reale razionale concepibile, quale prodotto delle contraddizioni sociali determinate, la cui necessità si media nei soggetti agenti. Hegel sviluppa le premesse di un destino umano conquistabile nella lotta, non più con un trascendente imperscrutabile, ma con i contenuti e i fini universali interni al fare stesso umano. Nella realtà moderna le nazioni, gli stati o il mercato mondiale costituiscono un intero cui i singoli sono sottomessi e dominati. Le azioni di questi ultimi costituiscono solo un infinitamente piccolo frammento di unazione nazionale [Hegel, Scritti storico-politici]. Le entità agenti sono ormai collettive. In esse però il fine particolare è ancora presente, il legame della collettività rimane estrinseco e la libertà, pur concepita, è ostacolata nella universalità della sua attuazione. La proprietà privata è per antonomasia il fine per sé, ostacolo alla convivenza civile poiché non solo essa non è regolata dallo stato, ma pretende di determinarne le forme. La stessa legislazione dello stato non solo non è considerata su di un piano superiore agli interessi particolaristici che dominano la società civile borghese, ma è sottoposta alla sua difesa ed al suo accrescimento [ib].
La sproporzionata ricchezza dei pochi dirà Hegel costituisce non solo un pericolo per le costituzioni, anche le più libere, ma per la libertà stessa, dato che i popoli stessi sono ridotti a moltitudini, cioè privati delle loro possibilità di incidere sul corso del mondo. In vece di essere soggetti del movimento storico, protagonisti nella vita dellintero, i cittadini così ridotti a individui trovano come unico rifugio il diritto. Ovviamente non il diritto dietro cui si cela la ragion di stato, o la presunta neutralità del formalismo giuridico, ma quello frutto di conquiste mediate dai conflitti sociali. Ma anche in questo, coscienza delluniversalità e insieme del suo opposto, della particolarità... gli uomini non agiscono come uomini interi, in forza di unidea che tutti li animi. La loro forza e potenza è sì, invisibilmente, questidea, ma quel che giunge alla coscienza è in primo luogo il loro esteriore rapporto verso chi con essi coopera in veste di persona che comanda o obbedisce nei diversi livelli e tipi del compito. Poiché tutto è ordinato, e a dominare è la potenza di questordinamento, i più compaiono soltanto come rotelle di una macchina. Il vivente, il mutamento nellorganizzazione di questordinamento, è piccolo, graduale e insensibile [ib].
Gli individui non costituiscono più, come per il passato, la centralità della soggettività agente, ma anzi questa è riposta nel suo risultato come affermerà Marx nel lavoro come produzione di valori duso dominato dal capitale in quanto appropriazione privata del valore. Nella misura in cui il lavoro è concepito come unica sorgente del valore di scambio e come la sorgente attiva del valore duso, il capitale è concepito da Ricardo (e ancor più da Torrens, Malthus, Bailey ecc., dopo di lui) come il regolatore della produzione, la sorgente della ricchezza e lo scopo della produzione; il lavoro, al contrario, come lavoro salariato, il cui portatore e strumento reale è necessariamente il povero... nientaltro che costo di produzione e strumento di produzione , condannato al minimo salariale, anzi, a scendere al di sotto di tale minimo non appena il numero di quelli come lui diventa "ridondante" per il capitale. Enunciando questa contraddizione, leconomia politica esprimeva soltanto lessenza della produzione capitalistica o, se si vuole, del lavoro salariato; del lavoro estraniato a sé stesso, al quale la ricchezza da esso creata si contrappone come ricchezza estranea, la propria forza produttiva come forza produttiva del suo prodotto, il suo arricchimento come impoverimento di sé stesso, la sua forza sociale come forza della società su di esso. Ma questa forma determinata, specifica, storica del lavoro sociale, quale si manifesta nella produzione capitalistica, è enunciata da questi economisti come forma generale, eterna, verità di natura, e questi rapporti di produzione sono enunciati come i rapporti assolutamente (non storicamente) necessari, naturali e razionali del lavoro sociale [Marx, Teorie sul plusvalore, iii.xxi].
Allinterno di questo dominio gli uomini, in quanto forza-lavoro appropriata e frammentata, perdono la consapevolezza del proprio ruolo nel processo lavorativo, oggettivazione costante dellazione storica, del mutamento. Nellalienazione capitalistica, nel dominio cioè di questa particolarità, viene a prodursi lanelito allautosuperamento del finito, alla negazione quale superamento dialettico, che Marx indica nella condizione, per le classi lavoratrici, del non aver più nulla da perdere, se non le proprie catene. Hegel, da filosofo, vede gli uomini ricacciati in un mondo interiore di morte perpetua, da cui, per poter vivere, esprimono il bisogno che la contraddizione venga tolta; e questo togliere avviene effettivamente, quando la vita esistente ha perduto la propria potenza e ogni sua dignità, quando essa è diventata un puro negativo [ib]
[c.f.]
Esercito industriale di riserva
Siccome la domanda di lavoro non è determinata dal volume del capitale complessivo, ma dal volume della sua parte costituiva variabile, essa diminuirà in proporzione progressiva con laumentare del capitale complessivo. Questa diminuzione relativa della parte costitutiva variabile appare dallaltra parte, viceversa, come un aumento assoluto della popolazione lavoratrice costantemente più rapido di quello del capitale variabile, ossia dei mezzi che le danno occupazione. È laccumulazione capitalistica che costantemente produce, precisamente in proporzione della propria energia e del proprio volume, una popolazione lavoratrice relativamente addizionale, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi superflua. Insieme alla scala di produzione e al flusso più largo di tutte le fonti sorgive della ricchezza, si estende anche la scala in cui una maggiore attrazione dei lavoratori da parte del capitale è legata a una maggiore repulsione di questi ultimi e aumenta la rapidità dei cambiamenti nella sua forma tecnica. Quindi la popolazione lavoratrice produce in misura crescente, mediante laccumulazione del capitale da essa stessa prodotta, i pezzi per rendere se stessa relativamente eccedente. È questa una legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico.
Ma se una sovrapopolazione lavoratrice è il prodotto necessario dellaccumulazione, questa sovrapopolazione diventa, viceversa, la leva dellaccumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale come se questultimo lavesse allevato a proprie spese. Le alterne vicende del ciclo industriale, che si basa sul maggiore o minore assorbimento e sulla nuova formazione dellesercito industriale di riserva, reclutano a loro volta la sovrapopolazione e diventano uno degli agenti più energici della sua riproduzione. Laumento dei lavoratori viene creato mediante un processo semplice che ne libera costantemente una parte, in virtù di metodi che diminuiscono il numero degli occupati in rapporto alla produzione aumentata. La forma di tutto il movimento dellindustria moderna nasce dunque dalla costante trasformazione di una parte della popolazione lavoratrice in braccia disoccupate o occupate a metà. Laumento del capitale variabile diventa allora indice di più lavoro, ma non di un maggior numero di lavoratori occupati. Ciò mette in grado i capitalisti di rendere liquida, con il medesimo esborso di capitale variabile, una maggiore quantità di lavoro, soppiantando progressivamente forza-lavoro qualificata con forza-lavoro non qualificata.
La produzione di una sovrapopolazione relativa, ossia la messa in libertà di lavoratori, procede ancora più rapida che non la rivoluzione tecnica del processo di produzione. Nella misura in cui cresce la forza produttiva del lavoro il capitale aumenta la sua offerta di lavoro con rapidità maggiore che non la sua domanda di lavoratori. Il lavoro straordinario della parte occupata della classe operaia ingrossa le file della riserva di lavoratori, che aumenta la sua concorrenza sulla prima, accelerando così la riproduzione dellesercito industriale di riserva su una scala corrispondente al progresso dellaccumulazione sociale. Il movimento della legge della domanda e dellofferta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale. La sovrapopolazione relativa esiste in tutte le sfumature possibili. Ne fa parte ogni lavoratore durante il periodo in cui è occupato a metà o non è occupato affatto. Essa appare ora acuta al momento delle crisi, ora cronica in epoca di affari fiacchi, e ha ininterrottamente tre forme: fluttuante, latente e stagnante.
Nei centri dellindustria moderna i lavoratori sono ora respinti, ora di nuovo attratti in misura maggiore. La sovrapopolazione esiste qui in forma fluttuante. La contraddizione stridente è che in uno stesso periodo di tempo si lamenti la mancanza di braccia e molte migliaia si trovino sul lastrico. Il consumo della forza-lavoro da parte del capitale è talmente rapido che si ha perciò un rapido ricambio tra le generazioni di lavoratori (la stessa legge non ha vigore per le altre classi della popolazione). Nella misura in cui la produzione capitalistica si è impadronita dellagricoltura, la domanda di popolazione lavoratrice agricola diminuisce in via assoluta. Una parte della popolazione rurale [sempre più su scala mondiale, coinvolgendo in misura crescente sia la forza-lavoro femminile in precedenza reclusa nel lavoro domestico, sia le grandi masse costrette alle migrazioni] passa costantemente tra il proletariato urbano e di ogni altra attività non agricola, in agguato per acciuffare le circostanze favorevoli a questa trasformazione. Un tale costante flusso presuppone lesistenza nelle campagne [del mondo intero] di una sovrapopolazione costantemente latente, il cui volume si fa visibile solo nel momento in cui laccumulazione allargata del capitale schiude i canali di deflusso in maniera eccezionalmente larga. Questi lavoratori che vengono dallagricoltura sono depressi al minimo di salario e si trovano sempre con un piede dentro la palude del pauperismo. [I recenti o remoti miracoli del sud-est asiatico, e altri simili, ripercorrono la stessa strada già tracciata dallIrlanda o dallItalia meridionale, finché dura la riserva latente].
Assai interessante [anche nella specificità della crisi attuale] è la terza categoria della sovrapopolazione relativa, quella stagnante, che costituisce una parte dellesercito attivo, ma con una occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro [<=] disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio normale della classe lavoratrice. Le sue caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario. [Gli esperti del Fmi lo sanno bene e i vari Treu o Mastella locali eseguono]. La sua forma principale sta nella rubrica del lavoro a domicilio [affiancato vieppiù da tutte le altre forme di prestazioni lavorative precarie, parziali occasionali e falsamente autonome, il cui salario è pagato a rendimento (o cottimo [<=], partecipazione [<=], premi, ecc.) anziché a tempo. Essa prende le proprie reclute ininterrottamente tra i lavoratori in soprannumero della grande industria e della grande agricoltura, e specialmente anche tra quelle dei rami industriali in rovina, dove lesercizio artigianale soccombe alla manifattura e questa alle macchine. Il suo volume si estende con laccumulazione e costituisce un elemento della classe [<=] lavoratrice che si riproduce e si perpetua, e che in proporzione partecipa allaumento complessivo della classe lavoratrice in misura maggiore che non gli altri suoi elementi. Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è lesercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza despansione del capitale. Quanto maggiori sono lo strato dei Lazzari della classe lavoratrice e lesercito industriale di riserva, tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. Questa è la legge assoluta, generale, dellaccumulazione capitalistica.
[k.m.]
Esercito industriale di riserva # 2
(lavoro stagnante, precario, irregolare)
La categoria della sovrappopolazione relativa, quella stagnante, che costituisce una parte dellesercito operaio attivo, ha con unoccupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio normale della classe operaia, e proprio questo ne fa la larga base di particolari rami di sfruttamento del capitale. Le sue caratteristiche sono: massimo di tempo di lavoro e minimo di salario. Abbiamo già fatto la conoscenza della sua forma principale nella rubrica del lavoro a domicilio. Essa prende le proprie reclute ininterrottamente fra i lavoratori in soprannumero della grande industria e della grande agricoltura, e specialmente anche tra quelli dei rami industriali in rovina nei quali lesercizio artigianale soccombe alla manifattura e questultima soccombe alle macchine. Il suo volume si estende allo stesso modo che con il volume e con lenergia dellaccumulazione progredisce la messa in soprannumero. Ma essa costituisce allo stesso tempo un elemento della classe operaia che si riproduce e che si perpetua e che in proporzione partecipa allaumento complessivo della classe operaia in misura maggiore che non gli altri suoi elementi.
Effettivamente non soltanto la massa delle nascite e dei decessi, ma anche la grandezza assoluta delle famiglie è in proporzione inversa del livello del salario, quindi della massa dei mezzi di sussistenza, di cui dispongono le differenti categorie di lavoratori. Questa legge della società capitalistica suonerebbe assurda tra i selvaggi o anche tra colonizzatori inciviliti. Essa ricorda la riproduzione in massa di alcune specie di animali individualmente deboli e spietatamente cacciati. La povertà sembra favorire la procreazione [Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, libro i, cap. viii], Questa è perfino, secondo il galante e spiritoso abate Galiani [Della moneta], una disposizione particolarmente saggia di Dio: Dio fa che gli uomini che esercitano mestieri di prima utilità nascano abbondantemente. La miseria, spinta al punto estremo della carestia e della pestilenza, invece di impedire laumento della popolazione, tende a favorirlo. Se tutti gli uomini ai trovassero in condizioni di agio, il mondo sarebbe ben presto spopolato [S. Laing, National distress, 1844].
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo per trovare che la sua massa si ingrossa a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari.
Seconda: orfani e figli di poveri. Sono i candidati dellesercito industriale di riserva e, in epoche di grande slancio, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nellesercito dei lavoratori attivi.
Terza: gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che superano letà normale di un lavoratore, infine le vittime dellindustria, il cui numero cresce con il crescere del macchinario pericoloso, dello sfruttamento delle miniere, delle fabbriche chimiche ecc., mutilati, malati, vedove ecc. Il pauperismo costituisce il ricovero degli invalidi dellesercito dei lavoratori attivi e il peso morto dellesercito industriale di riserva. La sua produzione è compresa nella produzione della sovrappopolazione relativa, la sua necessità nella necessità di questa; insieme con questa il pauperismo costituisce una condizione desistenza della produzione capitalistica e dello sviluppo della ricchezza. Esso rientra nei faux frais della produzione capitalistica, che il capitale sa però respingere in gran parte da sé addossandoli alla classe lavoratrice e alla piccola classe media.
Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e lenergia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è lesercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza despansione del capitale. La grandezza proporzionale dellesercito industriale di riserva cresce dunque insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto allesercito attivo dei lavoratori, tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione la cui miseria è in proporzione inversa del tormento del suo lavoro. Quanto maggiori infine lo strato dei Lazzari della classe operaia e lesercito industriale di riserva tanto maggiore il pauperismo ufficiale.
Questa è la legge assoluta, generale dellaccumulazione capitalistica. Come tutte le altre leggi essa è modificata nel corso della propria attuazione da molteplici circostanze. Si capisce quindi la follia di quella sapienza economica che predica ai lavoratori di adeguare il loro numero ai bisogni di valorizzazione del capitale. Il meccanismo della produzione e dellaccumulazione capitalistica adegua questo numero costantemente a questi bisogni di valorizzazione. Prima parola di questo adeguamento è la creazione di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva, ultima parola la miseria di strati sempre crescenti dellesercito dei lavoratori attivi e il peso morto del pauperismo.
La legge per la quale una massa sempre crescente di mezzi di produzione, grazie al progresso compiuto nella produttività del lavoro sociale, può essere messa in moto mediante un dispendio di forza umana progressivamente decrescente, questa legge si esprime su base capitalistica per cui non è il lavoratore che impiega i mezzi di lavoro, bensì sono i mezzi di lavoro che impiegano il lavoratore in questo modo: quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto più grande è la pressione dei lavoratori sui mezzi della loro occupazione, e quindi tanto più precaria la loro condizione desistenza: vendita della propria forza per laumento della ricchezza altrui, ossia per lautovalorizzazione del capitale. Laumento dei mezzi di produzione e della produttività del lavoro più rapido di quello della popolazione produttiva si esprime quindi capitalisticamente, viceversa, nellaffermazione che la popolazione lavoratrice cresce sempre più rapidamente del bisogno di valorizzazione del capitale.
Abbiamo visto nellanalisi della produzione del plusvalore relativo, che entro il sistema capitalistico tutti i metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese del lavoratore singolo; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano il lavoratore facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui a questultimo la scienza viene incorporata come potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli lavora, durante il processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella maniera più meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro, gli gettano moglie e figli sotto la ruota di Juggernaut del capitale. Ma tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono al tempo stesso metodi dellaccumulazione e ogni estensione dellaccumulazione diventa, viceversa, mezzo per lo sviluppo di quei metodi.
Ne consegue quindi, che nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione del lavoratore, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che equilibra costantemente sovrappopolazione relativa, ossia lesercito industriale di riserva da una parte e volume e energia dellaccumulazione dallaltra, incatena il lavoratore al capitale in maniera più salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina unaccumulazione di miseria proporzionata allaccumulazione di capitale. Laccumulazione di ricchezza alluno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale. Questo carattere antagonistico dellaccumulazione capitalistica è espresso in forme diverse dagli economisti politici, benché in parte ne facciano un sol fascio con fenomeni analoghi, è vero, ma sostanzialmente diversi, dei modi di produzione precapitalistici.
Il monaco veneziano Ortes, uno dei grandi scrittori di economia nel secolo xviii, concepisce lantagonismo della produzione capitalistica come legge universale di natura della ricchezza sociale. Il bene e il male economico in una nazione sono sempre allistessa misura, o la copia dei beni in alcuni sempre eguale alla mancanza di essi in altri ... giacché laffluenza de beni in alcuni, accompagnata dallassoluta privazione di essi in più altri, è un fenomeno di tutti i tempi e di tutti i luoghi... La ricchezza di una nazione corrisponde alla sua popolazione, e la sua miseria corrisponde alla sua ricchezza. La laboriosità di alcuni impone lozio in altri. I poveri e gli oziosi sono un frutto necessario dei ricchi e degli attivi, ecc. Di giorno in giorno diventa dunque più chiaro che i rapporti di produzione, entro i quali si muove la borghesia, non hanno un carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice; che negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza, si produce altresì la miseria; che entro gli stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produttive, si sviluppa anche una forza produttrice di repressione; che questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei membri che integrano questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato ognora crescente [cfr. Marx. La miseria della filosofia].
Il prete protestante della Chiesa episcopale Townsend [A dissertation on the poor laws, 1817] glorificò in maniera affatto grossolana, circa dieci anni dopo lOrtes, la povertà come condizione necessaria della ricchezza. La costrizione legale al lavoro è legata a troppa fatica, violenza e a troppo rumore, mentre la fame non soltanto è una pressione pacifica, silenziosa, incessante, ma, come motivo più naturale dellindustria e del lavoro, desta gli sforzi più potenti. Dunque tutto dipende dal render permanente la fame fra la classe operaia e a questo pensa, secondo il Townsend, il principio della popolazione che agisce particolarmente tra i poveri. Sembra una legge di natura che i poveri siano in una certa misura sconsiderati (ossia così sconsiderati da nascere senza cucchiai doro in bocca), cosicché ve ne siano sempre alcuni per adempiere alle funzioni più servili, più sudice e più volgari della comunità. La felicità umana viene in tal modo complessivamente molto accresciuta, le persone più "delicate" sono liberate dal lavoro molesto e possono accudire indisturbate alla loro superiore missione... La legge sui poveri ha la tendenza di distruggere larmonia e la bellezza, la simmetria e lordine di questo sistema che Dio e la natura hanno instaurato nel mondo.
Questo prete delicato, il cui scritto or ora citato insieme col suo viaggio attraverso la Spagna, è spesso copiato per pagine intere dal Malthus, prese a prestito la maggior parte della sua dottrina da Sir J. Steuart che egli però travisa. Così per esempio quando Steuart dice: Nella schiavitù, esisteva un metodo di forza per rendere lumanità laboriosa (a favore dei non-lavoratori). Gli uomini allora venivano costretti a lavorare (ossia a lavorare gratuitamente per altri), perché erano schiavi altrui; ora gli uomini sono costretti a lavorare (ossia a lavorare gratuitamente per i non-lavoratori) perché sono schiavi dei propri bisogni, non per questo egli ne deduce, come fa il grasso prebendario, che i salariati debbano sempre far la fame. Egli vuole, viceversa, aumentare i loro bisogni e fare del numero crescente dei loro bisogni anche lo sprone del loro lavoro per coloro che sono più delicati.
Se il monaco veneziano aveva trovato, nella deliberazione del destino che rende perenne la miseria, il diritto allesistenza della beneficenza cristiana, del celibato, dei monasteri e delle pie fondazioni, il prebendario protestante vi trova, al contrario, il pretesto per condannare le leggi che concedono al povero il diritto a una misera sovvenzione pubblica. Il progresso della ricchezza sociale dice Storch [Cours déconomie politique, 1815] produce quella utile classe della società che sbriga le occupazioni più noiose, più volgari e più nauseanti, che, in una parola, si addossa tutto ciò che la vita ha di sgradevole e di servile, e appunto per questo procura alle altre classi il tempo, la serenità di spirito e la dignità convenzionale (cest bon!) del carattere, ecc..
Storch si chiede quale sia dunque il pregio di questa civiltà capitalistica, con la sua miseria e con la sua degradazione delle masse, nei confronti della barbarie? Egli trova una risposta sola ... la sicurezza! In virtù del progresso dellindustria e della scienza dice Sismondi [Nouveaux principes déconomie politique] ogni lavoratore può produrre giornalmente molto di più di quello che gli occorra per il proprio consumo. Ma al tempo stesso, mentre il suo lavoro produce la ricchezza, la ricchezza, se fosse destinato a consumarla egli stesso, lo renderebbe poco atto al lavoro. Secondo lui gli uomini (ossia coloro che non lavorano) rinuncerebbero probabilmente a tutti i perfezionamenti delle arti, come a tutti i godimenti che lindustria ci procura, se dovessero acquistarli al prezzo di un lavoro perseverante come quello del lavoratore. Le fatiche oggi sono separate dal loro compenso; non è uno stesso uomo quello che prima lavora e poi si riposa; al contrario, appunto perché luno lavora, laltro deve riposarsi. La infinita moltiplicazione delle forze produttive del lavoro non può quindi avere altro risultato se non laumento del lusso e dei godimenti dei ricchi oziosi. Destutt de Tracy [Traité de la volonté et de ses effets, 1826], infine, il gelido dottrinario della borghesia, esprime la cosa brutalmente: Le nazioni povere sono quelle in cui il popolo sta bene, e le nazioni ricche sono quelle in cui esso è abitualmente povero.
Il meccanismo della produzione capitalistica fa in modo che laumento assoluto del capitale non sia accompagnato da un corrispondente aumento della domanda generale di lavoro. E questo lapologeta lo chiama una compensazione della miseria, delle sofferenze e delleventuale morte dei lavoratori spostati durante il periodo di transizione che li confina nellesercito industriale di riserva! La domanda di lavoro non è tuttuno con laumento del capitale, lofferta di lavoro non è tuttuno con laumento della classe operaia, in modo che due potenze indipendenti tra di loro agiscano luna sullaltra. I dadi sono truccati. Il capitale agisce contemporaneamente da tutte e due le parti. Se da un lato la sua accumulazione aumenta la domanda di lavoro, dallaltro essa aumenta lofferta di lavoratori mediante la loro messa in libertà, mentre allo stesso tempo la pressione dei disoccupati costringe i lavoratori occupati a rendere liquida una maggiore quantità di lavoro rendendo in tal modo lofferta di lavoro in una certa misura indipendente dallofferta di lavoratori. Il movimento della legge della domanda e dellofferta di lavoro su questa base porta a compimento il dispotismo del capitale.
Quindi, non appena i lavoratori penetrano il mistero e si rendono conto come possa avvenire che, nella stessa misura in cui lavorano di più, producono una maggiore ricchezza altrui e cresce la forza produttiva del loro lavoro, perfino la loro funzione come mezzo di valorizzazione del capitale diventa sempre più precaria per essi; non appena scoprono che il grado dintensità della concorrenza tra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della sovrappopolazione relativa; non appena quindi cercano mediante sindacati ecc., di organizzare una cooperazione sistematica fra i lavoratori occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella legge naturale della produzione capitalistica ha per la loro classe, il capitale e il suo sicofante, leconomista, strepitano su una violazione della eterna e per così dire sacra legge della domanda e dellofferta. Ogni solidarietà tra i lavoratori occupati e quelli disoccupati turba infatti lazione pura di quella legge. Non appena, daltra parte, nelle colonie circostanze avverse impediscono, a es., la creazione dellesercito industriale di riserva e insieme impediscono la dipendenza assoluta della classe operaia dalla classe dei capitalisti, il capitale si ribella, insieme con tutti i suoi Sancio Pancia ligi ai luoghi comuni, contro la sacra legge della domanda e dellofferta e cerca di raddrizzarla con mezzi coercitivi.
[k.m.]
(Il capitale, i.23,4)
Eufemismo
(menzogna e ipocrisia)
L'eufemismo è espressione di una delle fondamentali malattie politico-morali della nostra società: lipocrisia. E se lipocrisia è stata definita come lonore che il vizio rende alla virtù [La Rochefoucauld], è forse possibile definire leufemismo come lonore che la menzogna rende alla verità. Il campionario di eufemismi che il nostro tempo ci pone dinanzi agli occhi è francamente impressionante. Tanto da far sospettare che la loro individuazione ed il loro smascheramento rappresentino oggi uno dei compiti principali del pensiero critico.
Con riferimento allIrak, il primo eufemismo adoperato dalla stampa statunitense ed inglese riguarda le menzogne fornite dai governi per giustificare la guerra allIrak: sovente esse sono definite Untruths (non verità) anziché Lies (bugie). Nella nostra lingua, che non conosce questa distinzione, la differenza sembra irrilevante. Non è così: perché utilizzando il primo termine si perde lintenzionalità del mentire e resta soltanto il fatto oggettivo che non si è detta la verità. Per tale via è quindi più facile far passare lidea, ad es., che le untruths sulle armi di distruzione di massa di Saddam siano state causate da failures (inefficienze ed errori) dei servizi segreti, e non siano state invece come in realtà è accaduto costruite e diffuse ad arte dai governi, talvolta in contrasto proprio con i servizi segreti.
Anche failures, del resto, è un eufemismo: come prova il fatto che oggi, nelladdossare la responsabilità delle torture nel carcere Abu Ghraib agli ultimi anelli della gerarchia militare, le responsabilità dei vertici del Pentagono siano ridotte, nella migliore delle ipotesi, a leadership failures (carenze nel comando: New York Times, 24 agosto 2004).
La guerra [<=] stessa viene ammantata di scopi nobili ed elevati, anche attraverso i graziosi nomignoli (dei veri e propri vezzeggiativi) che le sono di volta in volta affibbiati: così, linvasione di Panama venne definita Operazione Giusta Causa, quella dellAfghanistan Operazione Libertà Duratura, e ora quella dellIrak Operazione Libertà Irachena.
Con questo non tutto è risolto: si pone comunque il problema, ad esempio, di definire in modo consono (cioè sufficientemente eufemistico) le vittime civili della guerra. Niente paura: si tratta di effetti collaterali (come se fossero conseguenze contingenti e trascurabili, anziché una componente essenziale della guerra stessa). Allo stesso modo, lesercito israeliano parla spesso di errori (definizione chiaramente menzognera, quando lerrore è rappresentato dalle vittime civili di un missile sparato in mezzo alla folla), e definisce persone non implicate le vittime civili dei suoi attacchi. A questultimo riguardo, il refusnik Yonathan Shapira ha osservato che si tratta di una definizione tratta dal film Terminator. Le guerre contemporanee sembrano quindi replicare anche nel linguaggio le regole spettacolari del cinema. Con la non piccola differenza che nelle guerre reali la gente muore davvero.
E gli altri? E le persone implicate, ossia gli avversari? Siccome non si può dare patente di legittimità al nemico, si usa un termine che non ha alcun luogo preciso nel vocabolario, come quello di militanti o miliziani; e ormai, molto più spesso e quasi automaticamente, quello di terroristi. Luso di questultimo termine criminalizzante (potremmo definirlo un cacafemismo?) ha reso inutili vecchi eufemismi un tempo adoperati per assassinare: come neutralizzare persone accuratamente selezionate (presente nel manuale pubblicato dalla Cia nel 1983 per i contras in Nicaragua), o il grottesco terminare con pregiudizio estremo (adoperato dalla Cia nella guerra del Vietnam).
Tra le caratteristiche della guerra contemporanea, come è noto, vi è il ricorso sempre più massiccio ad eserciti di mercenari. Che però è brutto chiamare proprio così. Cosicché, in luogo di eserciti di mercenari, si parla di security contractors; e i mercenari stessi sono definiti manager della sicurezza (definizione, questultima, di fronte alla quale ci si chiede perché non ci si possa spingere appena un po più in là e parlare di manager del trapasso ).
In tutto questo grande innovare, una cosa la guerra continua inesorabilmente a recare con sé: luso della tortura (vedi, da ultimo, a Guantanamo e Abu Ghraib). Questo è un tasto particolarmente dolente per la propaganda bellicista, perché appare in grado di smascherare tutta la retorica della guerra per la libertà e la dignità umana. Ecco quindi spiegata lostinazione con la quale i nostri telegiornali hanno continuato e continuano a parlare di abusi e maltrattamenti ai prigionieri di Abu Ghraib (anche lipocrita dichiarazione dellUnione europea sulle vicende di Abu Ghraib parlava di abusi anziché di torture). Proprio come aveva fatto Rumsfeld, illuminandoci sullimportanza degli eufemismi anche in sede giudiziaria: la mia impressione è che, finora, laccusa sia quella di "maltrattamenti", che ritengo essere tecnicamente diversi da "tortura" [dichiarazione alla commissione del Congresso, maggio 2004].
Ma anche in questo caso gli eufemismi non sono finiti qui: così leggiamo di interrogatori coercitivi, interrogatori duri, tattiche di pressione e intimidazione, tecniche di interrogatorio rafforzate, pressioni psicologiche, pressioni fisiche moderate (queste ultime sono in quanto tali [cioè grazie a tale definizione eufemistica] autorizzate già da anni dalla Corte Suprema di Israele).
Il tutto, ovviamente, giustificato dalla guerra contro il terrore. Con le parole del memorandum del consigliere della Casa Bianca Alberto Gonzales, stilato il 25 gennaio 2002: la natura della guerra al terrorismo rende obsoleti i limiti imposti dalla Convenzione di Ginevra per linterrogatorio dei prigionieri. Successivamente il dipartimento della giustizia ha riformulato a modo suo il concetto di tortura applicabile alla legge Usa, con queste parole scritte in un altro memorandum a Bush: alcuni atti possono essere crudeli, inumani o degradanti, ma non provocare dolore e sofferenza tali da cadere sotto la voce tortura [1° agosto 2002]. Limportante, in definitiva, non è evitare che i prigionieri cadano sotto i colpi degli aguzzini, ma evitare che i colpi degli aguzzini cadano sotto la voce tortura.
Talvolta intorno agli eufemismi si svolgono vere e proprie polemiche politiche. Ad esempio, allorché nel settembre 2003 il governo israeliano decise di procedere alla deportazione di Yasser Arafat (decisione poi non attuata a motivo delle pressioni internazionali), il ministro dei lavori pubblici israeliano, Eitam, affermò: deportazione è un termine che riguarda troppo da vicino la nostra storia. Non la userei proprio. E propose in sua vece il termine di rimozione. Altri suggerirono espulsione, altri ancora neutralizzazione (questultimo fu indicato anche per la sua minacciosa ambivalenza di significato).
Unultima annotazione sul rapporto tra aggettivazione ed eufemismo. Esistono due tipologie di casi specularmente opposti. In genere, laggettivo viene aggiunto al termine originario per creare leufemismo. Anche tramite laggiunta di una qualificazione si possono addomesticare i concetti: pensiamo anche solo al concetto di guerra umanitaria, grottesco ossimoro che ebbe il suo momento di gloria durante laggressione Nato alla Jugoslavia.
Più raro il caso opposto, in cui leffetto eufemistico viene realizzato eliminando un aggettivo che specifica un concetto: in questo caso leufemismo è il prodotto della vaghezza e genericità artatamente introdotte nella formulazione da edulcorare. Lesempio più clamoroso è quello della dizione Territori, in vece di Territori occupati (ossia territori palestinesi occupati da Israele). Si tratta di un nonsenso linguistico, in quanto la denominazione di Territori è tautologica (cè al mondo anche soltanto un lembo di terraferma che non sia un territorio?). Ma questo nonsenso serve ad impedire che la definizione stessa di Territori occupati ricordi che cosa è realmente accaduto in Palestina da mezzo secolo in qua. Qui leufemismo fa tuttuno la costruzione di una verità addomesticata e su misura ossia con la negazione della verità.
[v.g.]
Filantropia
(misericordia del capitale)
Nel 1848, Marx e Engels osservavano che il socialismo conservatore o borghese desidera portare rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire lesistenza della società borghese. Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori. Essi cercano conseguentemente di smussare la lotta di classe e di conciliare i contrasti, e per la costruzione di tutti questi castelli in aria fanno appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi. A poco a poco cadono nella categoria dei socialisti reazionari o conservatori.
Ciò significherebbe fare appello alla filantropia del capitale, come se il capitale in quanto tale potesse essere filantropo; ciò significherebbe appellarsi alla misericordia del capitale come se il capitale, in sé, potesse mai essere misericordioso. Designare col nome di fraternità universale lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale è unidea che poteva avere origine solo in seno alla borghesia. Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere allinterno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale.
Karl Kraus descrisse in un aforisma una scenetta tra un cieco e un paralitico mendicanti. Un passante getta un soldo nel cappello del cieco. Il cieco spalanca allora gli occhi e grida contro il passante: Come, solo un soldo?. Il benefattore chiama una guardia, cosa che spinge i mendicanti a prendere la fuga; il paralitico, per fare più in fretta, si mette le grucce sotto il braccio. Ma qui non ce solo uno humour, cè anche una serietà morale antiquata. La coppia di mendicanti infatti è stata arrestata e multata. Al passante, invece, che ha provocato larresto, non è successo nulla. Per valere un soldo, uno deve dare la prova di essere realmente cieco o paralitico. Il filantropo rimane inorridito se risulta che non ci sono le infermità che hanno suscitato la sua compassione. È stato imbrogliato di un soldo, ma la sua coscienza morale [<=] non si accontenta della riparazione al danno, ma si placa solo se lindegno diventa veramente storpio. Dato che questo non lo può ottenere, chiama almeno la guardia.
[gf.p.]
Fiscalismo
Nellanalisi economica la funzione della fiscalità moderna è avvolta da innumerevoli equivoci, sia da parte delleconomia volgare borghese, che di molti critici disinistra. Tale stato di cose non dovrebbe sembrare strano, se ci si soffermasse a considerare che lattività fiscale pubblica (statale o locale) avviene nella sfera della circolazione [<=]. Perciò risente della forma fenomenica estraniata in cui là si presentano i rapporti economici: ciò che appare come dominante è la divisione trinitaria dei redditi fra terra-rendita, capitale-interesse (e profitto) e lavoro-salario. La tassazione è un prelievo su ciascuna delle tre forme di reddito, che affluisce al bilancio pubblico per pagare i servizi che esso eroga. In questambito, del tutto superficiale, si sviluppa lopposizione fra i difensori del capitalismo e i suoi critici. I primi vogliono ridurre al minimo indispensabile il prelievo fiscale, poiché sostengono che la mano invisibile del mercato [<=] è in grado di utilizzare più efficientemente dello stato (nella produzione e nei servizi quali i trasporti, la sanità, la scuola, la previdenza) il denaro dei cittadini. E in modo particolare si oppongono al prelievo fiscale sul capitale nelle sue varie forme (monetario, industriale, commerciale o rendita fondiaria), in modo più o meno differenziato per ciascuna di esse, a seconda di quale frazione particolare del capitale prendano le difese. Mentre i secondi affermano che tramite il fisco lo stato ottiene le risorse necessarie per correggere le imperfezioni del mercato, facendo uso dei servizi pubblici che il capitale privato non fornirebbe affatto, oppure a prezzi troppo alti.
Tale tipo di impostazione, che confina lopposizione fra capitale e lavoro entro la sfera distributiva, è caratteristica di tutte le forme di socialismo piccolo-borghese, vecchie e nuove: dal laburismo di matrice anglosassone, alla socialdemocrazia europea in tutte le sue gradazioni per finire ai democratici e liberals statunitensi. Ma già nella critica al lassalliano programma di Gotha, Marx fa notare che il socialismo volgare (e da esso anche una parte della democrazia) ha adottato dagli economisti borghesi la consuetudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione capitalistico e per conseguenza di rappresentare il socialismo come qualcosa che ruoti attorno alla distribuzione. Quindi ogni azione nella distribuzione dei redditi che si illuda (o illuda), di mutare i rapporti di produzione, attraverso la tassazione, è del tutto mistificante. Su una simile rivendicazione lassalliana (il partito operaio tedesco chiede come base economica dello stato: unimposta progressiva unica sul reddito, ecc.) nota ancora Marx: le imposte sono la base economica della macchina governativa [<=] e niente altro. Nello stato del futuro, quello cioè che già esiste in Svizzera, questa pretesa è quasi soddisfatta. La tassa sul reddito presuppone le diverse forme di reddito delle varie classi [<=] sociali, cioè la società capitalistica. Non è dunque niente di eccezionale che i riformatori delle finanze di Liverpool borghesi col fratello di Gladstone in testa avanzino le stesse rivendicazioni del programma.
Purtroppo molta parte della sinistra liberal-progressista o socialdemocratica odierna ripropone sempre come novità, senza alcun senso del ridicolo, tali vecchie ricette: già nel dopoguerra un keynesiano come Abba Lerner, sosteneva che un forte saggio di imposizione è strettamente connesso con il socialismo... Se uno stato preleva con le imposte il 50% dei profitti dellindustria ... è come se lo stato possedesse il 50% dellindustria... Queste elevate aliquote dimposta è più giusto chiamarle socialismo che minaccia di socialismo. Ma la misura in cui avviene una redistribuzione secondaria dei redditi, con la tassazione, non muta la distribuzione fondamentale fra il salario [<=] e le diverse forme di plusvalore [<=] (profitto dimprenditore, interesse e rendita) già determinata dai rapporti di produzione capitalistici. Se, per assurdo, si avesse la forza per imporre allo stato borghese di tassare totalmente il plusvalore in maniera da ridurlo allo zero (ma basterebbe molto meno), e quindi abolire la distribuzione primaria, vorrebbe dire che si sarebbe in grado di mutare i rapporti di produzione e allora sarebbe più rapido ed efficace farlo direttamente.
Ciò era riconosciuto, già allinizio di questo secolo, anche da un social-liberale come Hobson, che nel suo studio sullimperialismo [<=] affermava: il più chiaro significato della finanza imperialista, tuttavia, appare non dal lato della spesa, ma da quello della tassazione. Gli obiettivi di quegli interessi economici che usano la borsa pubblica per scopi di guadagno privato sarebbero in larga misura sconfitti se essi dovessero trovare i soldi per riempire quella borsa. Far passare lincidenza diretta della tassazione dalle loro spalle a quelle di altre classi o della posterità è per loro una naturale politica di auto-difesa. Infatti una sana politica di tassazione farebbe derivare tutta o la maggior parte delle entrate nazionali dagli incrementi non guadagnati del valore della terra e dalle attività industriali che in virtù di qualche protezione legale o economica che li ripara dalla concorrenza, sono in grado di ottenere alti saggi di interesse o di profitto... Tuttavia, ciò implicherebbe di tassare proprio quegli elementi che da un punto di vista economico sono alla base dellimperialismo. Infatti sono precisamente gli elementi non guadagnati delle entrate che tendono a un automatico processo di accumulazione e che, gonfiando il fiume dei capitali eccedenti in cerca di mercati per investimento o di mercati per le merci in sovrappiù con essi prodotte, indirizzano le forze politiche verso limperialismo. Un serio sistema di tassazione, perciò, colpirebbe proprio la radice della malattia.
Ma siccome ciò non è mai avvenuto, senza una rottura rivoluzionaria dei rapporti di produzione, concentrare le forze della lotta del proletariato sul fronte redistributivo è solo fonte di pericolose illusioni: ci si mette nella compagnia del fratello di Gladstone e dei seguaci del keynesismo moderno. Se si sgombra il campo da tali chimere, diviene allora importante evitare il peggioramento della distribuzione primaria fra salario e capitale, che può essere prodotta dallazione della redistribuzione statale. Infatti a questo punto bisogna considerare che oggi, in molti paesi, una notevole quota del salario sociale [<=] globale della classe [<=] lavoratrice viene erogata in forma non monetaria (i servizi pubblici) oppure differita (pensioni e liquidazioni), tramite lintermediazione del bilancio pubblico. Da un lato vi sono i prelievi fiscali e contributivi sui salari (in cui vanno considerate anche le quote contabilmente versate dai padroni, che sono sempre parte del salario) dallaltro ci sono i servizi e le prestazioni erogate ai lavoratori e alle loro famiglie. La misura in cui tale redistribuzione secondaria accresce o diminuisce il salario sociale globale, dipende dai rapporti di forza [<=] fra le classi. Tali rapporti mutano nello spazio (sono diversi, in un stesso momento, in corrispondenza di una data divisione internazionale del lavoro: fra paesi imperialisti e dominati ed entro gli stessi gruppi) e nel tempo (variano in funzione della fase attraversata dal ciclo di accumulazione del capitale: peggiorano durante le fasi di crisi [<=] e migliorano con le riprese quantitative).
Ora, in una fase di crisi dellaccumulazione come lattuale, è evidente che la borghesia non rinunci a nessun mezzo per ridurre il livello storico pregresso del salario sociale globale: per questo quella che appare come crisi fiscale dello stato sociale è nullaltro che il tentativo di operare unulteriore redistribuzione dai salari ai profitti, tramite lintermediazione del bilancio pubblico. Ovvero al valore del prelievo fiscale e contributivo sul salario non corrisponde un eguale valore di servizi collettivi e prestazioni monetarie erogate in favore della classe lavoratrice e delle sue famiglie. Del resto in Italia, ad esempio, il fatto che per molti anni (per lesattezza dal 1982!) il cosiddetto deficit primario, cioè la differenza fra entrate e spese correnti al netto dei pagamenti per interessi sui titoli del debito pubblico, sia stato costantemente positivo sta proprio ad indicare lavvenuta inversione della redistribuzione secondaria fra salario e capitale. Se nella fase di ascesa dellaccumulazione, il livello del salario sociale globale era cresciuto anche in tale forma, ciò è stato ottenuto aumentando lindebitamento pubblico. Ma poi i debiti debbono essere restituiti, con gli interessi, ai creditori: cioè sostanzialmente al grande capitale monopolistico interno ed estero e le classi medie loro alleate.
Questa non è certo una novità legata alla cosiddetta crisi del welfare state, se già Marx notava che poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti annui dinteressi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato lintegrazione necessaria del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia un aumento delle imposte in séguito. Daltra parte, laumento delle imposte causato dallaccumularsi di debiti contratti luno dopo laltro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico di imposte non è un incidente, ma anzi è il principio ... il miglior sistema per rendere il lavoratore sottomesso, frugale, laborioso e... sovraccarico di lavoro.
Quindi linversione successiva tende a ricondurre il salario sociale globale (inclusa la redistribuzione statale secondaria) entro le leggi di movimento del salario, che dipendono dai rapporti di produzione. Ma proprio conoscendo ciò è importante difendere il livello precedente del salario, in tutte le sue forme. Perciò il Consiglio centrale provvisorio dellAssociazione internazionale dei lavoratori (20.2.1867), indicava che: a) nessuna modifica della forma di imposizione può produrre un qualche importante cambiamento nelle relazioni tra lavoro e capitale; b) ciononostante, dovendo scegliere tra due sistemi di imposizione, raccomandiamo la totale abolizione delle imposte indirette, e la loro sostituzione generale con le imposte dirette. Ciò perché le imposte indirette aumentano i prezzi delle merci, in quanto i commercianti aggiungono a quei prezzi non solo lammontare delle imposte stesse, ma linteresse e il profitto sul capitale anticipato per pagarle. Ciò perché le imposte indirette nascondono allindividuo quanto egli paga allo stato, mentre invece unimposta diretta non è mascherata né mistificata, e non può essere fraintesa neppure dalle persone meno capaci. Limposizione diretta permette dunque a ognuno di controllare i poteri dello stato, mentre limposizione indiretta distrugge ogni tendenza allautogoverno.
Ed anche Hobson notava: Daltra parte, se le forze capitalistico-imperialiste volessero scaricare apertamente il peso della tassazione sulle spalle del popolo, con un sistema di governo a suffragio popolare risulterebbe assai difficile varare una politica così dispendiosa. La gente deve pagare, ma non deve sapere che sta pagando o quanto sta pagando; e il pagamento deve essere diluito su un periodo quanto più lungo possibile. Quindi la rivendicazione dellimposizione diretta sui redditi aveva, ed ha ancora, lo scopo di rendere trasparente la redistribuzione operata dallo stato borghese e facilitare la lotta contro la riduzione del salario sociale globale in questa forma subdola, che si nasconde dietro le vesti neutrali dello stato. Questa precisa analisi dei limiti, e del modo di condurre la battaglia sul terreno della redistribuzione fiscale, è tuttora poco compresa anche dalla sinistra classista, pure se non è stata, storicamente, un patrimonio esclusivo del movimento comunista.
[o.l.]
Flexicurity
(precariato partecipato)
Il testo della Commissione Europea, relativo alla comunicazione al Parlamento e altri enti dellUnione Europea del giugno 2007 a Bruxelles, si intitola Towards common principles of flexicurity: more and better jobs through flexibility and security. Si tratta di un aggiornamento degli studi del 2001, relativi al lavoro decente o dignitoso, quale programma pilota in 8 paesi: Barhein, Bangladesh, Danimarca, Ghana, Kazakhstan, Marocco, Panama, Filippine. Unico tra questi, la Danimarca, presentava il programma di flessibilità e sicurezza in uneconomia aperta di piccole dimensioni, per la realizzazione del lavoro decente, quale comune aspirazione dei popoli, riduzione della povertà, democratizzazione delle forze della mondializzazione, affermazione dei diritti umani. Tralasciando in questa sede il senso evanescente di lavoro decente e le altre finalità annesse per cui se ne parla nelle organizzazioni internazionali, è significativo invece sapere che è in quel contesto che si è focalizzato il doppio obiettivo congiunto: flessibilità e sicurezza lavorativa.
Flessicurezza, orribile termine composto dallunione linguistico-concettuale di due realtà antitetiche ed autoescludentisi, si configura come un altro presidio di polizia antisindacale a difesa del diritto darbitrio imprenditoriale. Coniugare la concordia discorde della flessibilità [cfr. la Contraddizione nn.35,63,76,97,106] con la sicurezza, per mostrarle funzionali ad un aumento e miglioramento lavorativo, sembra lultimo ritrovato, in ordine di tempo, per segnare lallontanamento galattico tra le ideologie volte al consenso e, al contrario, la realtà quotidiana esperita da irretire.
La ristrutturazione capitalistica in atto richiede migliori condizioni di lavoro per una migliore produttività. Tradotto in termini concreti, reclama una disponibilità lavorativa incondizionata eufemisticamente resa neutra nella generica flessibilità che, secondo ossimori mentali passati per consequenzialità logiche, garantirebbe la sicurezza del e sul lavoro, oltre ad aumentare ovviamente i profitti. Se la flessibilità richiesta altro non è che labbattimento di diritti storici conquistati a salvaguardia di una forza-lavoro privata così di qualsiasi potere, la sicurezza di chi lavora conseguentemente dovrà scemare fino ad annullarsi. Studi e pur rari documentari nel merito delle reali condizioni lavorative confermano infatti le gravi carenze, in termini di sicurezza, generalizzate in tutti i continenti dalla cosiddetta globalizzazione.
Il toyotismo giapponese della ristrutturazione postbellica si è esteso, secondo le differenze storiche delle legislazioni mondiali, imponendo a tutte le sue merci in particolare la forza-lavoro il just in time del suo uso. La frantumazione contrattuale della forza-lavoro merce al pari delle altre sul mercato, ma fonte di creazione di valore non appena racchiusa nel geloso mistero dellappropriazione avvenuta è stata la necessità di sopravvivenza del sistema, nella fase trasnazionale, ovvero sua massima concentrazione storica attuale. Tale frantumazione ha risposto allesigenza di imporre il confronto competitivo alle diverse frontiere in cui era stato suddiviso precedentemente il lavoro salariato.
La separazione per nazionalità, parzialmente efficace fino allultimo conflitto mondiale, aveva più volte evidenziato leccessiva concentrazione di coscienza sindacale e politica nei paesi più sviluppati, coerentemente allorganizzazione tayloristica della fabbrica. Investimenti a tappeto in paesi in via di sviluppo, delocalizzazioni, decentramenti, subforniture, filiere, indotti produttivi, ecc. hanno invece reso possibile lideologia della fine della classe operaia. Resa invisibile dagli smembramenti produttivi e propagandata dalle accademie a tutte le vie mediatiche del potere, è stato reso altrettanto invisibile il suo aumento nelle forme migranti e sparpagliate nel mondo dove il lavoro sotto costo, remunerato fino a 60 centesimi lora, si arrende senza diritti e privo di voce.
Questa risposta padronale, atta a fugare gli spettri di comunismo ancora in giro per il mondo, è emersa dalla corporeità, ancor più minacciosa, dei profitti in anoressia progressiva. Il mondo libero ha reagito alla crisi di capitale scaricandola, come al solito, sul mondo del lavoro. La competitività tra capitali è stata mascherata dietro la competitività entro le politiche del lavoro, che gli Stati si sono assunti quale compito primario, in ossequio al loro specifico ruolo di delega del potere. È stata poi gettata nella fantasmagoria salariale come economia informale tra paesi, settori, tecnologie, lavori resi ovunque deregolamentati, cottimizzati, atipici, intermittenti, irregolari, squillo, ricatturati dal microcredito, ecc. coniugata con una supposta sicurezza sociale.
La flessicurezza sarebbe una strategia integrata per accrescere, al tempo stesso, flessibilità e sicurezza sul mercato del lavoro [Commissione europea 2007]. Sicurezza delloccupazione prima della sicurezza del posto, o, come è stata definita, flessibilità dal volto umano. Stesso belletto, per chi ha memoria storica, del socialismo dal volto umano di Dubcek, Cecoslovacchia 1968, nella cosiddetta primavera di Praga, quando vennero inferti i continui colpi di maglio al socialismo reale. Lattuale primavera del rinascere dei profitti passa dunque per labbattimento delle garanzie lavorative giustificate dalla mascherata di una sicurezza non meglio identificata nel rocambolesco intento di separare gli effetti dalle rispettive cause, obliterando irreversibilmente queste ultime.
Ancora oggi Montezemolo, o Confindustria, difende la cultura dimpresa negando che la flessibilità conduca alla precarietà, negando, come demagogia, che questa causi vittime da lavoro e proponendo infine il 2008 lanno della sicurezza. La libertà di licenziamento o flessibilità deve così farsi accettare come una perdita di lavoro, anche in sequenza più volte, che però devessere vissuta non come uninterruzione durevole tra unoccupazione e la successiva, e nemmeno come una perdita di profili di carriera, inevitabilmente discontinui, senzangoscia esistenziale. Sembra la pillola di Mary Poppins.
Il modello da rendere operativo anche in Italia, nemmeno a dirlo, è quello danese attuato sin dal 1999, come programma nazionale che prevede: 1) preavviso (variabile in base allanzianità del lavoro) del licenziamento; 2) dispositivi di legge per assegnare automaticamente un posto di lavoro a tempo indeterminato in base ai contratti stipulati; 3) indennità di disoccupazione per lo più a carico dello stato; 4) personale specializzato che segue i casi dei disoccupati; 5) obbligo per il disoccupato di seguire corsi di formazione; 6) penalità amministrative per eventuali rifiuti di lavori proposti dai servizi.
La logica di tali misure è che servano a disciplinare la forza-lavoro non impegnata a cercarsi un impiego, sostando nellerogazione delle indennità di disoccupazione. Oltre alla normale colpevolizzazione di chi non ha voglia di lavorare, tutto ciò risulta come una nuova organizzazione del lavoro cui si impone un consenso coatto allesproprio definitivo di identità professionale, specializzazione mansionaria, competenze qualificate per progressioni di carriera, coerenza con liter degli studi, scelte o gestione di attitudini o propensioni lavorative, mantenimento e fruizione delle relazioni sociali in ambito lavorativo. Tutto ciò che costituisce in altri termini la stabilità della personalità individuale inserita in un contesto sociale che arricchisce conoscenza e gradi coscienziali. Flessicurezza diventa allora lo sperpero programmato della socialità e della sanità psico-fisica degli individui soggetti alla girandola occupazionale. In questa lansia esistenziale è il più lieve degli effetti mentre la morte da lavoro è continuamente in agguato, laddove aumenta lintensificazione dei turni, dei ritmi, lassenza di controlli o ispezioni, non realisticamente contrastabile più di tanto in quanto costosa.
Lesempio danese non solo è difficile o impossibile da esportare, ma non convince neppure nel merito delle cifre relative alla riduzione della disoccupazione [cfr. Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce, Laterza, 2007]. Il ritrovato flessicuro che è stato fatto proprio dai governi internazionali, anche di centrosinistra, altro non è che il programma corporativo fascista del 1927 [cfr. la Contraddizione, nn.8,90; Documenti del corporativismo fascista, e Il neocorporativismo, Laboratorio Politico, la Città del Sole, Napoli 1995, anche in rete a www.contraddizione.it], ora rinverdito come globalizzato, adeguato cioè alle esigenze del mercato mondiale in cui rendere irriconoscibile la classe lavoratrice universalizzata. Interessi delle imprese e interessi dei lavoratori sono tessuti insieme così dallidentica rappresentanza politica, dalla partecipazione dei salari agli utili dellimpresa, dallesecrazione della conflittualità sociale se proveniente dalla massa dei lavoratori, infine dai sostegni al reddito chiamati ammortizzatori sociali. Cig e Cigs (cassa integrazione guadagni, ordinaria e straordinaria), indennità di disoccupazione e indennità di mobilità, risultano assolutamente insufficienti al fabbisogno. La sicurezza sociale non risulta praticabile senza la destinazione dei miliardi pubblici e privati necessari, per ora inesistenti secondo le forze politiche dominanti. Infine, resta il costo umano del peregrinare lavorativo, dovuto allunità inscindibile del lavoratore con la sua forza-lavoro tesi fondamentale di Gallino nel negare il lavoro come merce seppure si trovassero i miliardi. Ma questo se non può esistere, perché il lavoro o meglio la forza-lavoro che lo eroga è merce finché dura il sistema capitalistico, è solo capitale variabile non appena venduta, e la sua appendice umana o spirituale non costituisce una voce nel capitolo costi.
Hic Rhodus hic salta.
[c.f.]
Flessibilità
Flessìbile, flessibilità, flèssile, flessìmetro, flessiòne, flessivo, flèsso, flessòre, flessuosità, flessuòso... flèttere. Questa la sequenza da dizionario di cui ogni lavoratore, pardòn ogni professionista ... dingresso, di solidarietà, in leasing, ecc. dovrà essere, al tempo, esperto conoscitore. Suggeriamo, ai mestatori dei trabocchetti immateriali, luso terminologico completo, qui sopra proposto, nel consueto equivocare spregiudicato, per loccultamento dei rapporti di forza [<=] materiali. I sinonimi, indicati dal dizionario, quali pieghevole, elastico, ammiccano a quel significato senza rompersi che prelude allaltro figurato che si può modificare, che cede facilmente alla volontà altrui. Contrario di: inflessibile. Il nuovo ohnismo (organizzazione del lavoro aconflittuale con una a- [<=] privativa del conflitto) e la sua applicazione pratica toyotista (lavoro standardizzato con delega ai lavoratori del controllo di processo) basano laumento della produzione sulla congiunta flessibilità delle macchine [<=] e della forza-lavoro [<=]. Il post-nuovismo del sistema di rapporti sociali totalmente dominato da una classe, oggi transnazionale, impone ai soli curiosi la nuova conoscenza delle parole usate, senza parere, nel vecchio senso comune. Questultimo serve ancora bene a metabolizzare ogni dissenso nella conservazione di passate parvenze rese inoffensive, come pure nel suo rinnovamento rovesciato in consenso [<=] vegetativo, in ignoranza del reale. Ai contrari (anche ai pentimenti) irrigiditi, dunque, il còmpito di aggiornare il vocabolario della lotta di classe [<=], dalla parte di chi deve rendere il tempo di vita funzionale allidentificazione di tempo di lavoro e tempo di produzione, appropriati dal capitale.
Flessibile devessere il lavoro se inflessibile perdura il demandare allarbitrio padronale ogni trattativa (altrimenti definita aziendale) sullorario, sulle qualifiche, sugli straordinari, ecc. Flessibile deve diventare la manodopera per essere normalizzata alla multifunzionalità, bisognosa solo di alta mobilità predisposta (le rotazioni si basano su una preparazione adatta a lavori multipli), non già di specializzazione alcuna. Sicché non cè necessità di remunerarla. In altre parole, chiunque abbia già la fortuna di lavorare, non può per ciò stesso avvalersi di eventuali rimpiazzi ma in compenso è tenuto a sostenere possibili difficoltà altrui, fino al conseguimento dellobiettivo prefissato. Il cottimo [<=] a oltranza annidato nella flessibilità anche, o soprattutto, se non dichiarato prevede come fine la dedizione totale. Il flessimetro (in fisica: misuratore delle deformazioni per flessione di un solido elastico) potrebbe essere lo strumento per identificare il punto di rottura, appena sperimentato nel primo laboratorio-Giappone col nome professionale di karoshi o morte da superlavoro! Tale destino riservato alla proletarizzazione va ricondotto alle sue cause, insite nella: flessibilizzazione. Filiazione storica della restrizione e instabilità dei mercati, ovvero dellincremento della competitività internazionale, è questa la condizione necessaria di esistenza del sistema che, in modo ancora insufficiente, attiva cicli produttivi diversi accrescendone sempre più la continuità. Equivale a dire che la risposta strategica del capitale alle sue stesse crisi [<=] consiste nellintensificazione (flessibilità informatica) tecnologica, per piegare la forza-lavoro ad una riorganizzazione che appaia tecnicamente dominata dalle macchine. Dominata dal progresso dunque, non dal capitale che può disporre incontrastato del lavoro, come un Moloch della vita altrui.
Gli innegabili vantaggi dellaumento del rendimento medio produttivo, dovuto a tempi e carichi di lavoro auto-organizzati dai gruppi solidali, invece che predeterminati e gravanti sui singoli, sono gli ingredienti indispensabili alla vittoria aziendale sulla concorrenza. Il lavoro è costretto a nobilitarsi in flèssile (lett.), rarefacendo così sprechi di tempo, attese, assenze, numero di addetti (cioè salari), porosità lavorative per condensare sempre più la propria tensione allo sfruttamento. Questa maggiore partecipazione agli interessi del capitale fa sì che esso disponga anche di un tendenziale annullamento delle scorte. Sintende che per scorte-zero la nuova organizzazione del lavoro si riferisce oltre che alle materie prime, ecc., racchiuse nella denominazione di capitale costante, anche a quelle umane più chiaramente identificate come capitale variabile. Al capitale appartiene (per natura? di diritto? o per gentile o estorta concessione?) il lavoro, che viene pertanto ridotto a sola appendice flessiva. A modificazione della propria forma (contrattuale) cioè, a mera espressione coniugata e declinata delle relazioni (contraddittorie, conflittuali) che strutturano il prepotere e lespansione del primo.
La sola grande produzione diviene così più flessuosa, elasticizzata nelleleganza della personalizzazione dei gusti, nellabbraccio-tipo con una domanda-qualità, degli individui che contano. Il mito della cortesia totale, che orna i giganti della grande industria, è linimitabile tocco elitario per attrarre nella totale dipendenza tutta la scala dei produttori di formato minore. Una sana gerarchia interna ad un sistema di produzione e lavoro anche con diversità qualitative e geografiche presiede a quello che comunemente si chiama indotto o sistema dappalti e subappalti. Anche se lultimo appalto dovesse essere linsospettabile, modernizzato lavoro a domicilio, nulla può distoglierci dal riguardarlo come capillare di tutta larticolazione produttiva nel suo insieme e nella sua centralizzazione [<=], fondata sul grande capitale monopolistico finanziario [<=].
[c.f.]
Flessibilità # 2
(orario di lavoro)
Flessibilità: un termine che popola con la sua presenza le discussioni, gli articoli, gli accordi, i contratti [per una critica concettuale e terminologica, # 1 ?]. Eppure, a dispetto della sua invadenza, non è molto diffusa tra i lavoratori e nel corpo sociale una reale e piena consapevolezza dei suoi molteplici significati e delle sue implicazioni. Attorno alla flessibilità è stata prodotta unaccurata e intensa campagna ideologica politico-sindacale la quale ha mirato a confondere e a rappresentarla come oro. Con lanalisi, nel caso specifico della flessibilità applicata allorario di lavoro [<=], si cercherà di asportare un po di questa placcatura, rendendo visibile la reale natura della proposta, e gli obiettivi dei suoi sostenitori. La flessibilità trasforma le condizioni di lavoro.
Lapplicazione della flessibilità oraria incide sulle condizioni di estrinsecazione dellattività lavorativa, aggravandone il peso. Ciò che precedentemente veniva riconosciuto e sanzionato come aggravio della condizione fisica del lavoratore viene abilmente aggirato e celato. Con lintroduzione della flessibilità il limite della prestazione lavorativa ordinaria è superato dallorario elastico, scompare la soglia giornaliera oltre la quale si entrava in straordinario. Ma con questo abile artificio si supera il limite orario legale giornaliero delle 8 ore (previsto nel rdl del 1923, che tra laltro stabiliva un massimo di ore straordinarie settimanali pari a 12), oltre il quale aumenta laggravio per la condizione fisica del lavoratore. Per questo motivo, il rdl considera tale attività come straordinaria, quindi erogabile solo con il suo consenso e con un aumento di remunerazione della prestazione oraria).
Le più recenti disposizioni italiane [il cosiddetto pacchetto Treu] hanno affermato che lorario giornaliero non soggiace ad alcun limite oltre a quello che si rinviene nella direttiva 104/93 Ce. Essa fissa, come soglia di tutela dellintegrità psicofisica del lavoratore (che veniva riconosciuta già ad inizi del 1900), un periodo di riposo continuativo di 11 ore nellarco delle 24, quindi unestensione dellorario giornaliero di lavoro fino a un massimo di 13 ore, spostandolo di un colpo da 8 a 13 ore (5 ore in più), legalizzando e normalizzando un abuso. Ovviamente, e senza essere troppo maliziosi, questo serve per rendere fruibile la flessibilità oraria al meglio della sua dinamica. Si supera così il rdl del 1923 che fissava la durata massima giornaliera in 8 ore lavorative + 2 di straordinario (oltretutto lo straordinario è volontario, sottoposto ad accordi tra parti, mentre la flessibilità il lavoratore la deve erogare).
Nella flessibilità oraria, un concetto di soglia che marca il passaggio in prestazione straordinaria ancora esiste, ma entra in gioco al superamento della media (settimanale, mensile, annuale). Il concetto di media cela le reali condizioni in cui si manifesta la flessibilità. Tutte le forme sono indistintamente unificate. Labilità demagogia degli apologeti punta a far brillare di innovazione e di opportunità la compensazione in banca ore, in giorni di ferie aggiuntive. Si abbatte un principio di controllo dellattività lavorativa. Il lavoratore giornalmente deve riprodurre le condizioni fisiche necessarie allo svolgimento del suo lavoro. Il suo ciclo fisiologico è giornaliero. Nellarco delle ventiquattro ore egli consuma le sue energie e le recupera nellalimentazione, nel riposo, nelle relazioni familiari e non che intrattiene nel suo tempo libero, nelle sue attività personali.
È bene ricordare che lart 36 della costituzione riconosce che per la tutela dellintegrità psico-fisica del lavoratore, oltre alla limitazione delle 8 ore giornaliere di lavoro (allo scadere delle quali scatta il recupero fisiologico giornaliero), il lavoratore ha diritto ad un giorno di riposo settimanale. Leffetto dello straordinario, nellattuale regime di flessibilità oraria è quanto mai gravoso e mascherato tramite lindistinta valutazione della sua quantità sulla media nel periodo di riferimento. Se la soglia è spostata allo scadere della media (che nel migliore dei casi è calcolata su un intervallo settimanale), il ciclo fisiologico entro il quale il soggetto deve necessariamente completare il recupero delle sue energie psicofisiche è ancor più arbitrariamente compromesso (si pensi ai casi di media mensile o annuale!). Il concetto stesso di prestazione straordinaria viene snaturato.
A parte una certa ambiguità relativa alle sanzioni, il governo di centro-destra completa lopera in materia di orario legale di lavoro già avviata dal centro-sinistra. Nel nuovo d.lgs. 8.4.2003, n.66, in cui è stata recepita la direttiva europea, oltre a essere formalizzato il regime orario, le stesse 13 ore giornaliere non sono un limite invalicabile, poiché sono previste deroghe alla trattativa contrattuale tra le parti, finanche al livello aziendale. Allapplicazione piena della nuova direttiva sullorario di lavoro legale, recepita nei contratti, il fine settimana (il cosiddetto week end) sarà una battuta di cui fare oggetto il malcapitato lavoratore. Dove è finita per Treu e per i suoi successori, al suo pari virtuosi, quella porzione di vita delle persone che si chiamava svago?
Si diceva, nel 1855 in Australia, 8 ore di lavoro, 8 ore di svago, 8 ore per dormire; nel 1867, nello stato dellIllinois, divenne legge nel giorno del 1° maggio. Dove è finito il tempo di svago dei lavoratori? Tanto lo vogliono ridurre al lumicino che non se ne parla più; nei documenti si parla solo di tempo di riposo. Si modifica una cosa positiva, sensata e vitale per tutti, per produrre il paradosso tristemente noto che interviene quando al peggioramento delle condizioni del lavoratore, corrisponde un vantaggio economico per le imprese; cioè al progresso tecnologico e scientifico corrisponde un forte arretramento sociale generale.
La flessibilità è unopportunità concessa alle imprese per riorganizzare lattività lavorativa in modo da incorporare, allinterno dellorario normale, parte di quel tempo che in precedenza era pagato come straordinario. Parte delle punte dellattività, che in condizioni normali (non in regime di flessibilità oraria) vengono affrontate con il ricorso allo straordinario, ora ottimizzandole invece con la flessibilità, vengono incorporate nellorario normale. Diventa magicamente orario normale, scompare buona parte dello straordinario e il suo costo.
Il concetto di straordinario resta, ma viene confinato allarco temporale di riferimento della media (settimanale, mensile annuale), il cui superamento, quindi, rappresenta una fantastica ottimizzazione per le imprese. Limpresa riduce i costi di produzione. Il lavoratore ci rimette sia sulla busta paga, sia nellaggravio della sua condizione fisica. Inoltre, il risparmio di tempo ottenuto con il ricorso alla flessibilità (particolarmente nei casi di media mensile o annuale), produce come sottoprodotto unulteriore riduzione del personale in forza nelle aziende, quindi maggiore disoccupazione [<=]. La flessibilità è una forma di ristrutturazione mascherata (e neanche troppo). Ogni forma di ristrutturazione e riorganizzazione dellattività lavorativa si fa per risparmiare tempo di lavoro e lavoratori. La flessibilità consente la massimizzazione dello sfruttamento [<=] del lavoratore; essa è una delle forme più pure di estrazione del plusvalore. Non a caso gli imprenditori sono favorevoli allo scambio di riduzione oraria contro flessibilità.
La flessibilità, in aggiunta, produce un peggioramento certo nella vita privata dei lavoratori e dei loro familiari. I tempi dellimpresa simpongono ancor più pesantemente sui tempi delle famiglie. I cicli, le punte dellimpresa, sincronizzano il tempo, il respiro, dei lavoratori e dei loro familiari, comprimendone arbitrariamente le necessità. Sbiadisce fino a scomparire il riferimento a un orario di cessazione dellattività, sulla base del quale organizzare il proprio tempo, dare regolarità alla vita privata, consentendo un sano sviluppo dellindividuo e un regolare espletamento delle necessità familiari. Con la flessibilità viene introdotto un cambiamento qualitativo, è infranto largine che consente di separare il tempo in cui lindividuo è per la fabbrica da quello in cui egli è per se stesso e per la propria famiglia, stravolgendo questa seconda finalità nella relazione assurda, in virtù della quale non solo i lavoratori ma indirettamente anche i loro familiari sono quasi totalmente subalterni alla fabbrica.
Gli imprenditori ottengono un elevato grado di sottomissione del lavoratore. La vita personale e familiare del lavoratore è ridotta ad accessorio, a essa si può prestare attenzione se e quando (lorario della fabbrica è prioritario) ne rimanga il tempo. Già ora in diverse realtà lavorative viene comunicato al lavoratore il giorno prima, o il giorno stesso, lestensione dellorario giornaliero. Le statistiche in materia, rivelano un pesante danneggiamento dei rapporti familiari e delle condizioni psico-fisiche dei lavoratori.
Tirando le somme, limprenditore con la flessibilità oraria trasforma la maggior parte del costo delle ore straordinarie in costo di ore ordinarie. Quindi, ottiene una riduzione di costi [<=]. La possibilità di articolare lorario di lavoro a suo piacimento, cioè secondo le necessità della produzione, gli conferisce linnegabile vantaggio di avere non solo una fabbrica che respira secondo il mercato, ma di ottimizzare al massimo lorganico, sia in termini di modulazione puntuale della prestazione oraria sia in termini numerici assoluti, a un costo minimo e nettamente più basso di prima; e, avendone indebolito il potere contrattuale insito nella contrattazione della prestazione lavorativa, di porre in essere una rigidità oraria, anche in caso di stato di agitazione.
Non solo, lo stesso orario flessibile mina la forza del lavoratore, che non è più proprietario del suo tempo, ma la proprietà del suo tempo è trasferita nelle mani del suo datore di lavoro. Indebolisce economicamente il lavoratore, perché lo paga di meno e lo sfrutta di più. Avendolo indebolito economicamente lo indebolisce anche psicologicamente a seguito della precarizzazione o frammentazione dei rapporti familiari e di relazione, con conseguente disarticolamento sociale poiché la forza di una persona poggia anche nella sua possibilità di pagare i propri bisogni, di espanderli, di crescere con essi e di parteciparli con la propria famiglia. Il proprio essere poggia nelle possibilità (soprattutto economiche) di nutrirlo rinnovandolo. Il lavoratore perde su tutti i fronti dove invece avanza il padrone; la proprietà, annullando anni di lotte, di conquiste, di evoluzione nellaffermazione del soggetto lavoratore come classe [<=].
Il sistema politico, ma anche (e il fatto è ancor più grave) quello sindacale, hanno rappresentato tutto ciò, con un massiccio intervento ideologico (che i tecnici chiamano di marketing). Il termine flessibilità è stato maneggiato abilmente nella sua contrapposizione simbolica al termine rigidità, appositamente per far risaltare (in modo truffaldino) un positivo, per nulla reale, bensì falso. La comunicazione simbolica rappresentava il flessibile come ciò che è implicitamente armonico, che ha capacità di adattamento (al nuovo, al dinamismo del mercato, della vita, allattualità), mentre la rigidità, veniva rappresentata come lantitesi del progresso, dellevoluzione, il vecchio contrapposto al nuovo, il freno allevoluzione economica della società.
[a.ds.]
Flessibilità # 3
(diario postumo)
Gli studi storici sulla civiltà italica del terzo millennio hanno fatto un importante passo avanti con la scoperta del diario duno sconosciuto vissuto nei primi decenni dellepoca. Un esame preliminare dei suoi contenuti ci ha indotto a ritenerlo opera dun uomo flessibile, categoria numerosa a quei tempi. In effetti disponevamo già duna massa ragguardevole di documenti relativi al Culto della Flessibilità allora diffuso. Articoli, saggi, fossili di filmati tv, pergamene daccordi internazionali come quello famoso tra Italia e Gran Bretagna di inizio millennio, attestano come la venerazione della flessibilità [<=] fosse una delle occupazioni principali di quelle popolazioni.
In ogni settore della vita sociale, culturale, politica, financo economica, esse parevano anteporre tale culto ad ogni altro impegno o pensiero. Per la verità, i ricercatori non sono finora riusciti ad appurare se la flessibilità fosse creduta essere, o si volesse far credere che fosse, spirito, sostanza, persona, archetipo collettivo o logo pubblicitario.
Questo diario dun uomo che pare praticasse la flessibilità, per convinzione o per obbligo, permette comunque di comprendere meglio quale incidenza essa avesse nella vita quotidiana. Il diario copre un arco di parecchi anni. Ne riportiamo alcuni brani.
Ottobre 2001 A me la flessibilità piace. Mi lascia libero di organizzare il mio tempo. Sono indipendente. E poi si incontrano facce nuove. Lavorare in aziende sempre diverse è una bella esperienza. Mi arricchisce la professionalità [<=] e mi permette anche di spenderla meglio. È vero che ogni tanto devo chiedere soldi ai miei per andare in discoteca, perché tra un lavoro e laltro magari passa qualche mese. Ma insomma, se penso a loro che han passato tutta la vita nello stesso barboso posto, io son molto più soddisfatto.
Giugno 2005 La ditta in cui ho lavorato tre mesi mha rinnovato il contratto per altri sei. Giusto un paio di giorni prima che scadesse laltro. Si vede che mi apprezzano. Certo che se me lo dicevano un po prima avrei gradito, perché mi risparmiavo di girare le agenzie e passare nottate in Internet per vedere se trovavo un altro lavoro.
Gennaio 2006. La mia compagna S. vorrebbe fare un figlio. Pure a me piacerebbe. Però è anche lei una flessibile sta facendo un tempo parziale e se dovesse capitare che restiamo tutti e due senza lavoro, tra un impiego e laltro, non ce la faremmo. Dunque meglio aspettare. Siamo ancora giovani.
Marzo 2009. La ditta in cui lavoro da sei mesi mha rinnovato il contratto per altri tre. Il capo del personale dice che per adesso, in attesa del giudizio dei mercati sui loro prodotti, non possono fare di più. Ma invita ad avere fiducia. Altri hanno avuto prima o poi il tempo indeterminato. Visto che dove lavoro io siamo almeno duecento, gli domando quanti sono. Potrebbero essere addirittura il venti per cento, risponde, facendomi due o tre nomi.
Maggio 2010 Insieme con S. sono andato in banca. Vorremmo comprarci un alloggetto. Anche se alla fine non lavoriamo in media più di otto o nove mesi allanno, guadagniamo abbastanza. Però avremmo bisogno dun prestito o dun mutuo. Limpiegata sta a sentire, fa qualche domanda, poi dice che non si può. I prestiti o i mutui si concedono soltanto a chi ha un lavoro stabile. Per consolarci ci confida che nemmeno lei, impiegata di banca, potrebbe avere un mutuo. È una temporanea.
Novembre 2014. Dopo sette rinnovi consecutivi di vari tipi di contratto un paio di interinali, tre o quattro a tempo determinato, altri due cococo, cioè di collaborazione coordinata la ditta mi ha proposto un contratto a tempo indeterminato. In cambio mi chiede soltanto, per via della flessibilità, di rendermi disponibile al lavoro a turni, sei ore comprese in un qualsiasi intervallo tra le 7 e le 24, in qualunque giorno, sabato e domenica inclusi. Ogni settimana lorario del turno può cambiare. Naturalmente loro si impegnano a farmi sapere quale sarà il mio orario con almeno due o tre giorni di anticipo. Naturalmente ho accettato.
Gennaio 2015 Ho saputo da un biglietto di S. adesso facciamo turni con orari diversi, così ci lasciamo messaggi sulla porta del frigorifero che il medico le ha detto che se vuole avere un figlio dovrebbe sbrigarsi. A 35 anni una donna è anziana per avere un primo figlio. Lei però è ancora indecisa. Adesso ha un cococo, ma sta per scadere e non ha ancora trovato altro. E se non lavora lei non paghiamo laffitto, altro che il latte in polvere e una tata. Ci vorrebbe una legge apposta, per le madri flessibili.
Luglio 2016. Mia madre vorrebbe sapere con precisione quale lavoro faccio. Per dirlo ai parenti, agli amici che chiedono notizie. Sostiene che la mette a disagio non poter rispondere che suo figlio, per dire, fa lelettricista, o limpiegato allanagrafe, o il disegnatore di dépliants. Vorrei risponderle, perché ormai ha laria proprio vecchia. Il fatto è che, dopo tanti lavori, non lo so nemmeno io chi sono, che cosa sono. Da qualche tempo mi fa male la schiena. Ho prenotato una visita.
Luglio 2018 Dato che bisogna essere previdenti, ho chiesto a unesperta a quanto potrebbe ammontare la mia pensione. Mha parlato di ricongiungimenti, casse separate, regime contributivo, e dello sbaglio daver cambiato tante volte lavoro e azienda. Posso aspettarmi, in conclusione, una pensione pari a circa un terzo di quello che prendo al mese, quando lavoro. Ma con una pensione pari a un terzo dello stipendio mica si vive. Quindi le ho chiesto cosa dovrei fare per aumentarla. Dovresti investire almeno un terzo di quello che guadagni in un fondo integrativo, ha detto.
Settembre 2018. Non sono ancora riuscito ad andare dal medico. Ogni volta che faccio la prenotazione, capita che sono di turno.
Dicembre 2018. La ditta, di cui ho sentito che sta andando benissimo, mi ha licenziato. Ho protestato, ricordando che il mio contratto era a tempo indeterminato. Mhanno spiegato gentilmente che da quando lo statuto dei lavoratori è stato abolito, indeterminato significa soltanto che è lazienda a decidere quando il contratto termina.
(Mese illeggibile del 2022). Questanno sono riuscito a lavorare soltanto sei mesi. Le aziende mi fanno difficoltà perché, alla mia età, non ho abbastanza formazione. I giovani che arrivano adesso dalla scuola sono più preparati e flessibili. Per fortuna nellazienda in cui lavoro adesso ho ritrovato F., ex compagno di scuola. È diventato capo settore, un uomo importante. Gli ho chiesto comè riuscito a far carriera. Beh, dice, ho cercato di restare nella stessa azienda il più a lungo possibile. Se uno salta di qua e di là, da un posto allaltro, mica lo promuovono. Ti pare?
Chiudiamo qui, per ora, il diario delluomo flessibile. Come ben sanno gli storici, le cause del rapido declino della civiltà italica del terzo millennio d. C. sono tuttora avvolte dal mistero. Lipotesi dun avvelenamento collettivo da piombo delle condotte dacqua, già affacciata per spiegare il crollo duna civiltà fiorita nello stesso territorio 15-20 secoli prima, va scartata in base alle indagini compiute con i nostri super-spettrografi di massa. Ma sulla base di questultimo ritrovamento, ci pare lecito ipotizzare che il culto della flessibilità, distraendo ipnoticamente i capi come le masse da ogni altro fine esistenziale, abbia avuto in tale declino un peso non lieve. Le nostre ricerche su questo fascinoso tema proseguiranno.
[l.g.]
(da la repubblica - economia, 20.2.2002, un altro scritto di Luciano Gallino)
Fondazioni
(banche)
La storia delle fondazioni bancarie, come le conosciamo oggi, comincia nel 1990. In quellanno viene infatti approvata la legge n. 218, detta legge Amato, che si prefigge lobiettivo di dare una forte accelerata al processo di privatizzazione delle banche, allepoca quasi tutte in mano pubblica. Il primo passo necessario, a questo fine, era la trasformazione delle quasi totalità delle banche pubbliche (casse di risparmio, delle banche del monte, degli istituti di credito di diritto pubblico, degli istituti di credito speciale) in società per azioni a controllo pubblico. Solo la via scelta per privatizzare alcune grandi banche (le ex banche di interesse nazionale: Comit, Credit, ecc.) fu diversa, e si basò sulla vendita delle quote in mano allIri.
Gran parte delle banche, comprese nelle prime tre tipologie (casse di risparmio, banche del monte, istituti di credito di diritto pubblico), ha tradizionalmente avuto la forma istituzionale di fondazione o di ente associativo. In tali casi la legge Amato ha previsto che, allatto della trasformazione in società per azioni, la società bancaria fosse scorporata dalla fondazione. Contemporaneamente, la fondazione assumeva lo statuto di ente pubblico e otteneva il conferimento delle nuove azioni. In tal modo, il controllo pubblico esercitato dalle fondazioni è diventato lassetto proprietario prevalente nel sistema bancario italiano. In una prima fase, i limiti posti alle fondazioni sono abbastanza blandi. È vero che la legge Amato vietava alle fondazioni sia di detenere partecipazioni di controllo in società bancarie diverse da quella conferitaria [cioè di quella di cui aveva le azioni], sia di porsi a capo di un gruppo creditizio.
Tuttavia, in sede di approvazione di questa stessa legge, il Parlamento impose alle fondazioni di salvaguardare in via diretta o indiretta il controllo pubblico sulle società bancarie conferitarie, trattando come eccezione da autorizzare il trasferimento della maggioranza delle azioni di tali società a privati. Non è quindi sorprendente che, alla fine del 1994, quasi il 75 per cento delle fondazioni detenesse ancora la maggioranza assoluta della propria banca conferitaria (inoltre, il 20% delle restanti fondazioni aveva comunque una posizione di controllo grazie ad accordi con altre fondazioni).
Il primo tentativo sistematico di limitare il peso delle fondazioni nella struttura proprietaria del sistema bancario italiano è dovuto alla cosiddetta direttiva Dini, emanata nel novembre del 1994. Questa direttiva prevedeva che le fondazioni disponessero di un quinquennio per soddisfare una delle due alternative seguenti:
a) finanziare più del 50% delle loro spese, ivi comprese le erogazioni nei campi di attività prescelti, con redditi diversi dai dividendi erogati dalla banca conferitaria;
b) allocare non più del 50% del loro patrimonio in azioni della banca conferitaria.
La direttiva Dini ebbe però unefficacia assai limitata.
Un tentativo meglio orchestrato di spingere le fondazioni ad uscire dallazionariato delle banche è invece rappresentato dalla legge Ciampi (decreto legislativo n.153/5.1999). La legge Ciampi persegue almeno due scopi: a) disegnare un insieme di incentivi per indurre la graduale uscita delle fondazioni dagli assetti proprietari delle banche; b) delineare lattività delle fondazioni, che diventano enti di diritto privato, nel settore non profit.
Per realizzare questo secondo obiettivo, essa prevede che le fondazioni concentrino almeno una parte della loro attività senza fini di lucro in sei settori di utilità sociale (arte, assistenza, beni culturali e ambientali, istruzione, ricerca scientifica, sanità) e destinino laltra eventuale parte al perseguimento di fini statutari che dovranno essere comunque coerenti con gli ambiti più generali di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico.
Quanto ai meccanismi creati per incentivare le fondazioni alla dismissione del controllo bancario, i principali sono questi:
1) la legge vieta alle fondazioni di detenere o, a maggior ragione, di acquisire il controllo di imprese che non siano strumentali ai sei settori di utilità sociale sopra ricordati;
2) concede alle fondazioni un periodo di tempo di 4 anni (estensibili per altri 24 mesi) per superare le preesistenti situazioni di controllo nelle società bancarie e prevede che, scaduto tale periodo, la procedura per la cessione del controllo sia avviata dufficio dalla Banca dItalia;
3) accorda alle fondazioni esenzioni fiscali su possibili plusvalenze dalla vendita delle partecipazioni bancarie;
4) trascorso il quadriennio richiamato al punto (2), estende alle fondazioni le agevolazioni fiscali riservate agli enti non profit soltanto se le fondazioni hanno dismesso il controllo proprietario delle società non strumentali.
Ma attenzione: la legge Ciampi parla sempre del controllo della singola fondazione sulle banche. Resta in ombra il fatto che il controllo si può esercitare anche con accordi o patti di sindacato tra diverse fondazioni. È proprio grazie a questo escamotage che le fondazioni hanno mantenuto il controllo delle banche risultanti dai processi di concentrazione avvenuti negli anni Novanta: di fatto, le fondazioni hanno diminuito la propria quota totale di controllo rispetto alla metà degli anni novanta ma, al contempo, hanno rafforzato la loro centralità.
In tutti i principali gruppi bancari italiani le fondazioni sono così divenute determinanti per gli assetti proprietari e di controllo. Ma, a proposito di controllo, chi controlla le fondazioni? Nessuno. Infatti si tratta di organismi ormai di diritto privato, i cui membri sono nominati per cooptazione (per inciso, al loro vertice si trovano tuttora salvo poche eccezioni banchieri a suo tempo posti dal cosiddetto caf a capo delle rispettive banche ...). È possibile una situazione peggiore di questa? Sì.
Ecco infatti arrivare Tremonti, che, con un emendamento alla legge finanziaria 2002, dà una svolta alla situazione. Una svolta allinsegna del motto: le fondazioni sono cosa nostra. Vediamo come:
1) Attribuendo il potere di nomina della maggioranza (il 66%) degli organi delle fondazioni agli Enti locali. Siccome la maggior parte delle fondazioni ricche (la Fondazione Cariplo è la terza fondazione del mondo per patrimonio) si trova al nord, dove le giunte berlusconidi sono la netta maggioranza, il gioco è fatto: sarà possibile sviluppare sinergie virtuose tra pubblico e privato (in parole povere, fare tutti i possibili favori ad amici e clientele). Inoltre, per mettersi al riparo in casi in cui gli effetti della norma potevano essere negativi (ossia dove le giunte comunali non sono di centro-destra), vengono distinte le fondazioni di natura associativa (tra cui, guarda caso, spicca lEnte Cassa di risparmio di Roma), per le quali la quota degli Enti locali non potrà essere superiore al 50% del totale.
2) Allungando i termini per la dismissione delle quote nelle banche (purché le fondazioni girino le loro azioni a non meglio precisate società di gestione del risparmio: di fatto un sistema di controllo a scatole cinesi), e demandando alla Banca dItalia la decisione, volta per volta, su cosa debba intendersi per controllo.
3) Vincolando le fondazioni ad investire almeno il 10% del patrimonio in infrastrutture del territorio di riferimento (senza indicare alcun criterio o obiettivo di redditività dellinvestimento).
4) Facendo dipendere da decisioni della Banca dItalia quali siano gli altri settori rilevanti di impegno delle fondazioni.
Risultato: una ripubblicizzazione delle fondazioni bancarie, condotta allinsegna del controllo politico del Clan Berlusconi sulle banche, della sostituzione delle fondazioni al finanziamento delle opere pubbliche da parte dello Stato, e dellattribuzione ad una Banca dItalia in crisi didentità (dopo leuro) di poteri inediti ed impropri.
Per intendere limportanza di questo colpo di mano, è sufficiente tenere presenti alcuni dati.
a) Il patrimonio delle fondazioni bancarie oggi ammonta a qualcosa come 39 mrd (di cui 19 liquidi).
b) Le fondazioni hanno la maggioranza relativa delle azioni di Unicredito, Sampaolo-Imi, Bancaroma; quella assoluta del Monte dei Paschi di Siena; sono il primo socio italiano di Intesa-Bci.
c) Le poltrone in ballo tra consigli di amministrazione delle fondazioni e delle società da loro controllate sono non meno di 1.500.
Insomma: opportunità mirabolanti di sottogoverno per il clan Berlusconi. Sulla base di queste premesse, è comprensibile che i Berlusconidi si siano innamorati delle fondazioni, sino a pensare di usare lo stesso schema per disfare luniversità. In questo caso le fondazioni saranno adoperate per privatizzare, fare outsourcing, scorporare funzioni, e rendere le università delle appendici delle imprese.
Là distribuzione di risorse pubbliche agli amici, qui smantellamento delle strutture pubbliche per favorire i privati. Con Berlusconi, finalmente, il privato è politico...
[l.v.]
Forza-lavoro
La capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente [J.Ch.L. Simonde de Sismondi].
Il cambiamento di valore del denaro che si deve trasformare in capitale non può avvenire in questo stesso denaro, poiché esso, come mezzo di acquisto e come mezzo di pagamento, non fa che realizzare il prezzo della merce [<=] che compera o paga. Il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata, ma non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce vien pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore duso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal consumo duna merce, il possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire, allinterno della sfera della circolazione [<=], cioè sul mercato [<=], una merce il cui valore duso stesso possedesse la peculiare qualità desser fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro.
Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo linsieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente dun uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori duso di qualsiasi genere. La forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere luno compratore, laltro venditore, persone dunque giuridicamente eguali. Il proprietario di forza-lavoro, quale persona, deve riferirsi costantemente alla propria forza-lavoro come a sua proprietà [<=], quindi come a sua propria merce. Una cosa è evidente, però. La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dallaltra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato duno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale.
Ormai dobbiamo considerare più da vicino quella merce peculiare che è la forza-lavoro. Essa ha un valore, come tutte le altre merci determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione e, quindi anche alla riproduzione, di questo articolo specifico; ossia: il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro; la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza-lavoro include i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato. È un sentimentalismo troppo a buon mercato il trovare brutale queste determinazioni del valore della forza-lavoro, la quale deriva dalla natura stessa della cosa. La natura peculiare di questa merce specifica, la forza-lavoro, ha per conseguenza che, quando è concluso il contratto fra compratore e venditore, il suo valore duso non è ancor passato realmente nelle mani del compratore, ma il suo valore duso consiste soltanto nella successiva estrinsecazione della sua forza. Il valore duso che il possessore del denaro riceve, per parte sua, nello scambio, si mostra soltanto nel consumo reale, nel processo di consumo della forza-lavoro. Il processo di consumo della forza-lavoro è allo stesso tempo processo di produzione di merce e di plusvalore. Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori del mercato ossia della sfera della circolazione. Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire luno e laltro nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto: Vietato lingresso agli estranei - No admittance except on business. Qui si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale. Finalmente ci si dovrà svelare larcano della fattura del plusvalore [<=].
Tutti i termini del problema sono risolti e le leggi dello scambio delle merci non sono state affatto violate. Si è scambiato equivalente con equivalente. La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equivalenti, deve avvenire entro la sfera della circolazione e non deve avvenire entro la sfera della circolazione. Tutto questo svolgimento, la trasformazione in capitale del denaro, avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Avviene attraverso la mediazione della circolazione, perché ha la sua condizione nella compera della forza-lavoro sul mercato delle merci; non avviene nella circolazione, perché questa non fa altro che dare inizio al processo di valorizzazione, il quale avviene nella sfera della produzione. E così tout est pour le mieux, dans le meilleur des mondes possibles.
Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta!.
[k.m.]
Genocidio
(una libertà del profitto)
Il termine fu usato nel 1946 al processo di Norimberga per definire i crimini nazisti. Va da sé che stigmatizzare i vinti con laccusa di genocidio (letteralmente sterminio di popolazioni e stirpi), esentava definitivamente i vincitori da eventuali sospetti, guarda caso, su politiche tradizionalmente comuni. Una storia deliberatamente laconica, o proprio consegnata al silenzio, sui massacri che hanno assicurato il benessere al mondo libero, tutela le nostre coscienze dal dubbio circa il governo dei buoni, convincendo alla necessità di collaborarvi, contro le terroristiche riapparizioni del Male.
Ecco allora qualche nesso storico obliterato, o ritenuto secondario, che ripristina invece il senso dei genocidi. Qui, siffatta denominazione è considerata non tanto o comunque non solo per il numero delle vittime, quanto per la causa reale delle morti e atrocità subite. Ripristinandone un significato storico, genocidio rappresenta non più una semplice estinzione o riduzione quantitativa di popoli, identità etniche, culture, ecc., su cui al più commiserare o inorridire, ma la consapevolezza delle forme di affermazione ed espansione del nostro sistema di produzione e di way of life.
Naturalmente non è stato il capitalismo a inventare questo modo di appropriazione delle ricchezze altrui, ma questo è il tempo in cui, vivi, possiamo ancora agire. Questa lepoca, dunque, presa in esame. Dal suo apparire, il capitalismo è la potenza impersonale che detta le sue leggi ai propri agenti. I nomi e i paesi che soddisfano le sue necessità riproduttive sono solo le sagome animate della libertà illimitata, o arbitrio, dellaccumulazione di denaro fine a sé stessa.
Il genocidio degli indiani delle Americhe iniziato nel XVI secolo ad opera di spagnoli, portoghesi e anglosassoni prosegue a tuttoggi. In Brasile, da una popolazione di circa 3 milioni di amerindi nel 1500, se ne contavano 500.000 nel 1940, e soltanto dieci anni dopo non più di 100.000. I mezzi materiali impiegati, oltre la tortura, furono la mitragliatrice, la dinamite, larsenico, i pesticidi, i dolci avvelenati, lassimilazione (che li ha ridotti in schiavitù legalizzata), la deportazione, i lavori forzati, le malattie, i suicidi.
Messico, Guatemala, Colombia, Perù, Cile offrono storie analoghe, mutano spaventosamente verso lalto i numeri delle popolazioni annientate, mutano le motivazioni addotte (massacri operati 30, 40 anni fa, perché aderenti alla guerriglia!), identica la causa: esproprio di terre, oro, miniere, guano, ecc.
A Cuba si rileva una specificità ad opera dellimperialismo spagnolo: dal 1896 al 1898 si mette a punto la riconcentrazione, ovvero la deportazione di un popolo sulla sua stessa terra. Qui la causa specifica fu il capitalismo zuccheriero e la sua necessità di disporre di ferrovie, per il trasporto dello zucchero di canna. Questo bisogno di ferro segnò lingresso, nellisola, degli interessi britannici e Usa. Con i capitali internazionali (anche francesi), aumentò il numero di militari, impiegati subito per impedire i rifornimenti dei cubani che rivendicavano lindipendenza.
Centinaia di migliaia di persone vennero ammassate in località usate come prigioni, senza mezzi di sussistenza per donne, bambini e vecchi. Le loro case e villaggi vennero dati alle fiamme insieme agli animali, secondo il criterio: togliere lacqua dal vaso per catturare i pesci. Su una popolazione di circa 1.500.000 di abitanti, furono uccise tra le 300.000 e le 500.000 persone. Un modello di efficienza per i campi di concentramento nazista?
Prima del 1898 (fine del colonialismo spagnolo con il pretesto provvidenziale dellaffondamento del Maine 266 morti a bordo, ma tutto lo stato maggiore salvo a terra!) la Standard Oil Company, lAmerican Sugar Refining, la Bethlehem Iron Works avevano già investito nel nickel e manganese, oltre alla American Tobacco Company. Gli Usa occuparono allora Guantánamo, con una politica interventista che inneggiava ai diritti dei cubani di essere liberi. Gli stessi refrains li abbiamo riascoltati dalla Florida in questi ultimi anni: esuli cubani e dollari premono per il controllo dellisola.
Ma anche gli stessi campi di concentramento verranno chiamati, per il Vietnam, villaggi strategici (piano Staley-Taylor con la presenza a Saigon del vicepresidente John- son, 1961).
Il genocidio indonesiano fu perpetrato, più modernamente, in nome dellanticomunismo. Già dal XVII secolo furono occupate, dalla Compagnia olandese delle Indie orientali che esercitò il monopolio di riso, mais, caffè, tè, manioca, copra, ecc., le isole di Giava, Sumatra, Borneo, Celebes, Molucche e parte della Nuova Guinea. Allinizio del XX secolo, limpero coloniale olandese aveva contraddittoriamente generato forme di nazionalismo che si identificarono per lo più con i partiti comunisti (Pki), anche cinese e vietnamita.
Ora, si trattava anche di petrolio. Alle prime insurrezioni, le autorità coloniali sciolsero il Pki deportando migliaia di persone e rinchiudendo i dirigenti in campi di concentramento. Stessa sorte subì il partito nazionale indonesiano di A. Sukarno (1927-29), che fu arrestato prima nel 29, poi nel 33. Lindipendenza si incontrò con la II guerra mondiale: allimperialismo olandese successe quello giapponese. La fine della guerra fornì infine loccasione per il massacro di 30.000 comunisti, e la sostituzione ulteriore con limperialismo Usa. Di fronte allascesa della Cina di Mao, gli yankees formularono la teoria del domino, si autoproposero cioè come unici guardiani contro il comunismo nel mondo; ovvero usarono i cadaveri comunisti dei massacri, anche a venire, come vistoso diversivo dagli interessi quali quelli di Shell, Standard Oil, Caltex, ecc.
Lavvicinamento di Sukarno allUrss e alla Cina popolare, la Conferenza di Bandung (1955) cui parteciparono 29 stati afroasiatici proclamando il non allineamento, lavvicinamento del partito comunista a quello di Sukarno, suggerirono al mondo libero il provvido rimedio di un colpo di stato militare (1965). Stesso copione hitleriano: i comunisti vennero incolpati del tentativo di putsch. Il generale Suharto (asceso al governo con le simpatie Usa, alias i finanziamenti Cia) intraprese il massacro da 500.000 a 1 milione di indonesiani, con armi, incendi, in campi di concentramento, prigioni, ecc. Nel 1974 la vedova di Sukarno dichiarò il coinvolgimento dellex primo ministro giapponese Eisaku Sato mentre gli veniva assegnato il premio Nobel per la pace! , nel massacro di un milione di persone accusate di essere comuniste, mentre erano soltanto seguaci di Sukarno.
Questa fu lapertura al libero flusso degli investimenti stranieri (prestiti e aiuti) nellIndonesia dei generali. Dal 1974 vennero represse manifestazioni di studenti, quasi soppressa la libertà di stampa, effettuate centinaia di arresti. Lanno successivo, dopo 12 ore dalla visita del presidente Ford, fu sferrato lattacco a Timor Est, ancora stato indipendente. Alla crisi economica contrassegnata da 6 milioni di disoccupati (tanti quanti vennero calcolati nel 1933, in Germania!), fecero riscontro a tutto il 98 le congratulazioni e gli accordi del Fmi, di cui Suharto poté vantarsi.
Lannessione indonesiana di Timor est contava, dopo 4 secoli e mezzo di colonialismo portoghese, 600.000 abitanti di cui il 90% contadini e analfabeti. Con loccupazione bellica giapponese furono annientate 50.000 persone, senza scandalo alcuno per loccidente. Nel 1959, poi, la repressione portoghese, nei confronti di uninsurrezione anticoloniale, fece contare fra i timoresi un migliaio di morti e centinaia di imprigionati in condizioni inumane. Con il concorso dei servizi segreti modellati sulla Gestapo, Suharto invase Timor orientale sostenendo che si stava preparando un governo comunista. Diecimila uomini furono utilizzati per linvasione, a questi se ne aggiunsero altri 10.000 fucilieri e altrettante riserve. Vennero impiegate armi chimiche e bombe al napalm, fornite dagli Usa ad altri paesi occidentali (Paesi Bassi, Australia, Spagna, Germania occidentale, Francia). Le strategie: aviazione da bombardamento, distruzione delle coltivazioni, rastrellamenti sistematici, circa 150 villaggi trasformati in campi di concentramen- to mantennero in detenzione circa 300.000 persone in stato di totale abbandono di cibo e cure. I massacri che seguirono linvasione ebbero la caratteristica terroristica già collaudata dalle guerre mondiali: la morte da riservare alla popolazione tutta in modo indifferenziato. Search and destroy.
Allinferno delle armi seguì quello delle malattie che continuò ad uccidere migliaia di persone nei campi di concentramento. Tra il 1975 e l81 su una popolazione di circa 600.000 abitanti ne fu falcidiata più della metà. A questi numeri si aggiunsero successivamente altre vittime, cancellando per più dei ? la popolazione timorese. Questi riferimenti storici sono solo emblematici.
Molti altri paesi e popolazioni possono certificare il proprio contributo di sangue a sostanziare il concetto di genocidio, non isolato come si è tentato nelluniversale esecrazione del nazismo, ma interno alla categoria del modo di produzione capitalistico. Ad esempio il Vietnam, in primo luogo, in cui si sono calcolate più di 4 milioni di vittime, e su cui vennero sganciate 7.500.000 tonnellate di bombe, tre volte più che nel secondo conflitto mondiale, oltre ai 75 milioni di litri di defolianti e prodotti chimici [E. Santarelli, Storia sociale del mondo contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1982].
Quanto invece può contribuire maggiormente a chiarificare questo concetto è la possibilità di intravederlo senza il rumore delle armi o lorrore delle morti. Il genocidio o i massacri generalizzati non sono una calamità naturale, vengono preordinati da centrali finanziarie, istituti di credito, banche, assicurazioni, società anonime ormai per lo più con capitali a base transnazionale. Il crimine organizzato ricicla il proprio denaro nelle stesse banche dove classi dispotiche africane, asiatiche e latino-americane depositano le ricchezze estorte ai rispettivi paesi.
Sottoalimentazione, prostituzione, malattie, droga, ecc., tutti i mali dei paesi impoveriti sono, in altri termini, gestiti da interessi radunati nelle mani di una minoranza mondiale. Pinochet, F.E. Marcos, D.Duvalier, Mobutu, I. Amin, ecc. sono solo alcuni nomi dei criminali che hanno governato nei rispettivi paesi (Cile, Filippine, Haiti, Congo, Nigeria) accumulando per lo più in Svizzera, incalcolabili fortune personali. Questi paesi sono annoverati tra i più poveri del mondo, per reddito della popolazione, mentre sono ricchi di risorse materiali quali petrolio, rame, manganese, cobalto, diamanti, uranio, ecc.
Proprio questa ricchezza è oggetto di accaparramento diretto mediante lindebitamento dei paesi, i colpi di stato organizzati dai paesi dominanti, governi fantoccio, alleanze strategiche, guerre, ecc. o indiretto attraverso gli investimenti profittevoli dovuti alla gestione di capitale monetario che arriva nelle casseforti bancarie protette dal segreto della provenienza. Questo lavoro di retroguardia, discreto, silenzioso, pudico di fronte agli occhi delle masse espropriate consente o proprio indirizza professionalmente, la localizzazione, i tempi, le personalità più indicate per gli affari più lucrosi.
Laccusa di genocidio, quindi, è sostanzialmente il prezzo da pagare imposto ai vinti. [Tutti i dati sono tratti da Il libro nero del capitalismo: a cura di Jacques Jurquet, Jean Laïlle, Robert Pac, Jean Ziegler Net, Milano, 2003].
[c.f.]
Giornata lavorativa
In tempi di ping pong padronal-sindacali (valga per tutti Volkswagen / IgMetall) che investono, non solo lEuropa, ma anche le contrade nostrali segnate dal potere di Confindustria, Fiat, ecc. sostenute dal gioco delle parti avverse dei confederali, pro lavoratori in via di sfruttamento, sembra di dover assolutamente affrontare la questione giornata lavorativa in sede teorico-storica, per valutare correttamente la posta in gioco. Al di là quindi del falso problema impostato dalla Corporazione: settimana cortissima / orario ridotto / salario-non-si-sa, prendiamo in esame da che cosa è costituita la giornata lavorativa e la produttività [<= # 3] nei rapporti di capitale, e in particolare in tempo di crisi [<=] come questo. Innanzitutto essa è la grandezza variabile in cui distinguere una parte necessaria (per la ricostituzione del valore della forza-lavoro [<=] venduta), ed una parte destinata alla produzione di plusvalore [<=] (appropriato dal capitale, non pagata, nella invisibilità dello scambio equo del salario). La sua variabilità dipende da un limite minimo indeterminabile e da un limite massimo determinato dal limite fisico della forza-lavoro, quantificabile allinterno, e in minor misura, delle 24 ore, giorno naturale di vita. Siccome il capitale può anche definirsi come lavoro morto (accumulatosi nel corso dei secoli, come ricchezza prodotta socialmente e appropriata privatamente), per rigenerarsi ha bisogno di succhiare come un normale vampiro il lavoro vivo produttore di valore, quanto più ciò sia possibile. Il tempo di lavoro è in altri termini tempo di consumo della forza-lavoro, in cui questa valorizza, cioè accresce, il capitale.
Lirriducibile conflitto tra capitale e lavoro consiste proprio in questo: quanto più la merce forza-lavoro crea plusvalore (in aggiunta cioè al valore che copre il suo costo), tanto più luso di siffatta merce (la cui vendita, alienazione nel mercato, è oggi vagamente denominata occupazione) è vantaggioso al capitale e svantaggioso per il suo possessore. Il prolungamento della giornata lavorativa è infatti il tentativo costante di depredamento della forza-lavoro a scapito del suo portatore, costretto ad erogare o sperperare energie muscolari ed intellettuali, oltreché psichiche, al di là di quanto sia necessario al loro ristabilimento. Il vangelo del capitale che favorisce la parsimonia o lastinenza come limite morale alla vita del possessore di forza-lavoro è assolutamente in contrasto con lillimitata, incontinente disponibilità (oggi si chiama flessibilità [<=], mobilità, leasing, partecipazione [<=], ecc.) imposta alla forza-lavoro quando devessere acquistata (o salariata). Questultima, cioè, viene messa in condizioni di non potersi risparmiare nellesigere, come pari diritto, il valore di se stessa in qualità di merce, come qualunque altra merce, ma deve cedere al diritto del più forte, di chi decide cioè della sua sopravvivenza nel ricatto operativo dellespulsione dal mercato (che, con la medesima vaghezza del termine positivo occupazione, occulta sotto la parola anodina e negativa di disoccupazione [<=], trascurando tutte le forme stagnanti dellesercito di riserva [<=]) .
Il motivo di tanto dispendio della forza-lavoro risiede nel fatto per cui, col progredire tecnologico, il tempo di lavoro necessario (per il suo valore duso, la sussistenza) si riduce relativamente alla parte supplementare (per il suo valore di scambio, la ricchezza). Cè bisogno di una diminuzione del tempo di lavoro necessario, in rapporto alla giornata lavorativa, e una diminuzione della popolazione lavoratrice necessaria (questa è la forma antitetica), in rapporto alla popolazione. Tale contraddittorietà, che si presenta sotto le forme della sovrapproduzione, sovrappopolazione, ecc., produce la massima moltiplicazione possibile del valore duso del lavoro (trasformato nella variegata contrattazione salariale, di cui rimane visibile solo la forma appropriata delle diverse branche di produzione).
La tendenza del capitale è, naturalmente, di collegare il plusvalore assoluto con quello relativo; ossia: massima estensione della giornata lavorativa col massimo numero di giornate lavorative simultanee, simultaneamente con la riduzione al minimo, da una parte, del tempo di lavoro necessario, dallaltra, del numero di lavoratori necessari. Questa esigenza contraddittoria, come la definisce Marx, di aumentare il numero delle ore lavorative può quindi ricevere la forma di riduzione: a) del numero dei lavoratori necessari (non solo la cosiddetta disoccupazione, ma soprattutto la precarizzazione), e anche b) del tempo di lavoro necessario (settimana corta, cortissima, part time, lavoro interinale, ecc.). Ciò consente: 1) lintensificazione (si produce di più nella stessa unità di tempo) della forza produttiva del lavoro nella sua divisione e combinazione, e 2) la concentrazione della precedente quantità lavorativa non più frammentata, ma accomunata. Con i medesimi costi di mantenimento, cioè, il capitale fa eseguire un maggior lavoro per la quota supplementare produttiva di plusvalore. Data lintroduzione nel processo lavorativo di alti livelli tecnologici (ristrutturazione) che oggi permettono in modo crescente labbassamento del tempo di lavoro necessario, il capitale, pur essendo costretto a scambiare valore con lautomazione [il capitale fisso ha altresì il vantaggio di ingoiare nel suo progresso la conflittualità sociale, riducendone numericamente i suoi portatori], ha così la possibilità di aumentare continuamente la quota di plusvalore nella simultaneità produttiva.
Quale che sia la parola usata per denominare la giornata o la settimana di lavoro di un uomo, tali parole esprimono il costo della merce prodotta scrive Marx e se dunque i costi continuamente si abbassano nella massa dei valori prodotti, relativamente aumenta la massa di plusvalore appropriabile, la cui ripartizione è rinviata ai rapporti di forza [<=] esistenti o da modificare oggi a livello transnazionale. Quale che sia la riduzione temporale proponibile dal padronato, questa non significa: più tempo libero per il godimento lasciato alla forza-lavoro; al contrario, significa relativamente maggior riduzione salariale da ripartire tra occupati ed esclusi (disoccupati), secondo i rapporti di forza gestiti dal capitale nelle sue contingenti gerarchie mondiali, in continuo conflitto per la supremazia. È per questo che il modello Volkswagen interessa non in quanto esportabile/non-esportabile, emergenza/normalità, o per altrettali simili banalizzazioni indifferenti alla concretezza dellinteresse del capitale. La cura di Wolfsburg altro non è se non il tentativo parziale di ripresa dellaccumulazione a base tedesca, nel più classico dei modi: riduzione oraria, riduzione salariale, creazione dellesercito di riserva stagnante. Con buona pace di chi chiacchiera di post-industriale!
[c.f.]
Giustizia # 1
La giustizia delleconomia politica, così come essa nella realtà fissa le leggi che governano la società esistente, è una giustizia che sta tutta da una sola parte: da quella del capitale [<=]. La classe [<=] proletaria può riconoscere completamente le proprie condizioni di vita soltanto se osserva le cose nella loro realtà senza le lenti deformate dal diritto [<=]. Il potere personale riposa su condizioni di vita che si sviluppano in maniere comuni a molti, delle quali i capitalisti, in quanto dominanti, devono assicurare la continuità contro altre classi [<=], facendole apparire in pari tempo come valide per tutti. Lespressione di questa volontà condizionata dai loro interessi comuni è la legge. Proprio limporsi degli individui indipendenti gli uni dagli altri e limporsi delle loro proprie volontà che su questa base è un atto necessariamente egoistico nei loro rapporti reciproci rende necessario il rinnegamento di se stessi nella legge e nel diritto, rinnegamento nel caso eccezionale, affermazione dei loro interessi nel caso medio; esso dunque è considerato rinnegamento di se stessi non da loro, ma solo dallegoista coerente con se stesso. Laffermazione delle vecchie leggi contro i nuovi bisogni e le esigenze nuove dellevoluzione sociale, in fondo, non significa altro se non lipocrita affermazione di interessi particolari tramontati contro linteresse generale contemporaneo.
Con la legge sorgono necessariamente degli organi incaricati di farla osservare: i pubblici poteri, lo stato. Con il procedere dellevoluzione sociale, questa legge si sviluppa dando luogo a una legislazione più o meno ampia, più complicato diventa questo sistema, e più la sua terminologia si allontana da quella mediante cui si esprimono le condizioni usuali della vita economica. La legislazione acquista laspetto di un elemento indipendente, che fa derivare la giustificazione della propria esistenza e il motivo del suo ulteriore sviluppo non dai rapporti economici, ma da motivi propri, immanenti, poniamo dal concetto di volontà. Gli uomini dimenticano che il loro diritto deriva dalle condizioni della loro esistenza economica. Col progredire della legislazione che si sviluppa in un corpo complicato, vasto, si affaccia la necessità di una nuova divisione del lavoro sociale; si forma una categoria di giuristi specializzati, e con essi sorge la giurisprudenza. Lo stato, una volta divenuto un potere indipendente dalla società, produce sùbito una nuova ideologia. Per i politici di professione, per i teorici del diritto pubblico e per i giuristi del diritto privato, infatti, il legame coi fatti economici si perde definitivamente. Poiché, in ogni singolo caso, i fatti economici devono assumere la forma di motivi giuridici per essere sanzionati in forma di legge, e poiché nel sanzionarli in questo modo, comè naturale, si deve anche tener conto dellintero sistema giuridico vigente, perciò la forma giuridica deve essere tutto e il contenuto economico nulla.
In uno stato moderno il diritto non deve soltanto corrispondere alla situazione economica generale, esserne lespressione, ma deve anche essere unespressione coerente in se stessa, che non faccia a pugni con se stessa per delle contraddizioni interne. E affinché questo scopo venga raggiunto, la fedeltà del riflesso delle relazioni economiche ne soffre sempre di più. E ciò si produce tanto più spesso, quanto più raramente avviene che un codice sia lespressione cruda, senza attenuazioni e senza falsificazioni, del dominio duna classe. Il corso della evoluzione giuridica consiste, dunque, in gran parte soltanto nel tentativo di eliminare le contraddizioni risultanti dalla traduzione diretta delle relazioni economiche in princìpi giuridici e di mettere assieme un sistema giuridico armonico, sistema che in séguito linfluenza e la pressione dellulteriore evoluzione economica spezzano nuovamente di continuo e coinvolgono in nuove contraddizioni. Nel suo ulteriore sviluppo, la giurisprudenza compara i diritti vigenti presso i vari popoli e nelle varie epoche, considerandoli non come espressione dei rapporti economici via via vigenti, ma come sistemi che hanno le proprie radici in se stessi. La comparazione presuppone qualcosa di comune; questo si ha in quanto i giuristi compongono, con ciò che vi è di più o meno comune in tutti questi sistemi giuridici, il diritto naturale. Ma il metro con cui si misura ciò che è diritto naturale e ciò che non lo è, consiste nellespressione più astratta del diritto stesso: la giustizia.
Da questo momento in poi levoluzione del diritto consiste, per i giuristi e per chi crede loro sulla parola, soltanto nello sforzarsi di avvicinare sempre di più le condizioni umane, che siano espresse in termini giuridici, allideale della giustizia, della giustizia eterna. E questa giustizia rimane sempre e soltanto lespressione idealizzata, divinizzata, dei rapporti economici vigenti ora nel loro aspetto conservatore, ora nel loro aspetto rivoluzionario. La giustizia dei greci e dei romani considerava giusta la schiavitù; la giustizia dei borghesi del 1789 rivendicava labolizione del feudalesimo, considerandolo ingiusto. Per gli Junker prussiani anche la sonnolenta legislazione che stabilisce autorità regionali indipendenti costituisce una violazione della giustizia eterna. Il concetto della giustizia eterna non cambia soltanto col tempo e col luogo, ma anche con le persone. Mentre nella vita di ogni giorno, a causa della semplicità dei rapporti di cui essa costituisce il campo, si usano senza dar luogo a equivoci espressioni quali giusto, ingiusto, giustizia, sentimento di diritto, anche in relazione a fatti sociali, nelle ricerche scientifiche che si compiono sui rapporti economici queste espressioni creano, come abbiamo visto, una disperata confusione. Tutto, perciò, sta colla testa allingiù. E mi pare si comprenda da sé che questo arrovesciamento, il quale, sino a che non viene riconosciuto, costituisce ciò che noi chiamiamo concezione ideologica, reagisce a sua volta sulla base economica e può, entro certi limiti, modificarla.
[f.e.]
Giustizia # 2
Fu chiesto a un proletario in tribunale se per il giuramento volesse servirsi della formula ecclesiastica o di quella laica. Quello rispose: Io sono disoccupato. Non fu solo distrazione la sua. Con questa risposta egli lasciò intendere di trovarsi in una situazione in cui tali domande, e forse tutta la procedura in quanto tale, non avevano più alcun senso. Gli oppressi e gli sfruttati sono per la giustizia, ma per loro non è che loppressione e lo sfruttamento debbano cessare onde regni giustizia, ma deve regnare giustizia onde cessino oppressione e sfruttamento. Quindi gli oppressi e gli sfruttati non sono persone giuste. Libertà, bontà, giustizia, buon gusto e generosità sono problemi di produzione.
I delinquenti di specie comune, come i ladri, gli assassini per rapina, i falsari e i violenti, non violano il costume con la stessa motivazione che i maestri adducono perché lo si violi, ma per lo stesso motivo: perché regna la fame e si può trarre profitto dalla violenza. Si può dire: essi delinquono contro legoismo per egoismo. Purtuttavia essi violano appunto le cattive leggi. Per questo il popolo li ama. Infiniti libri li esaltano. Questi delinquenti non sanno nessuna soluzione al difficile compito, ma ne esigono una. Sono isolati, eppure solo apparentemente si contrappongono alla generalità, cioè a tutti gli altri. In realtà si contrappongono solo a pochi, i quali però sanno darsi lapparenza della generalità. Molto più pericolosi sono coloro che essi perseguitano e da cui vengono perseguitati, poiché costoro agiscono collettivamente, quando compiono i loro delitti, e li chiamano azioni morali. I piccoli delinquenti hanno perso la fiducia nella possibilità che gli uomini agiscano disinteressatamente, e questo, data una situazione in cui lagire disinteressatamente diventa un atto suicida e le masse sono costrette con la violenza a trascurare il proprio interesse, in fondo è un indizio di intelligenza realistica. Essi sono comunque assai più furbi di coloro che credono perfino al disinteresse dei loro persecutori. La nostra epoca non ha diritto di condannare degli egoisti finché non si decide a creare una situazione in cui il disinteresse diventi un atto buono, cioè buono per chi è disinteressato. I piccoli delinquenti offendono solo le regole del gioco degli egoisti. Ma sono queste regole ciò che vi è di più condannabile.
Molti sono oggi disposti a combattere la violenza impiegata contro gli inermi. Ma sanno anche riconoscerla, la violenza? Alcuni atti di violenza sono facili da riconoscere. Quando si calpestano degli uomini per la forma del loro naso o per il colore dei loro capelli, la violenza è palese ai più. Anche quando si rinchiudono degli uomini in carceri senzaria, si vede la violenza allopera. Ma noi vediamo dappertutto uomini che non appaiono meno sfigurati che se fossero stati battuti con verghe dacciaio, uomini che a trentanni sembrano vecchi, eppure non è visibile violenza alcuna. Uomini che abitano anni e anni in stamberghe non più accoglienti delle carceri, né per essi vi è più possibilità duscirne che di uscire dalle carceri. Vero è che davanti a queste porte non ci sono carcerieri. Coloro cui si infligge tale violenza sono infinitamente di più di coloro che in questo o quel giorno vengono fustigati o gettati in questo o quel carcere. Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra ecc. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro stato.
In base a una disposizione di legge della vecchia Cina, in certo senso esemplare, per i processi importanti si convocavano i giudici da province lontane. Era infatti molto più difficile che essi venissero corrotti (e dovevano dunque essere meno incorruttibili) giacché i giudici locali vigilavano sulla loro incorruttibilità ed era gente questa che proprio di ciò era praticissima e voleva loro male. Inoltre codesti giudici venuti di lontano non conoscevano per esperienza quotidiana le usanze e le condizioni del luogo. Per il semplice fatto che si verifica di frequente, lingiustizia assume spesso il volto della giustizia. A quei tempi si poteva aspirare alla conoscenza pura solo combattendo la corruzione. Allaffermazione che per la corruzione è necessario il denaro, ci furono alte esclamazioni di meraviglia e addirittura un gran scuoter di teste per lindignazione. Ciò indica che ci si era aspettati qualche cosa di meglio. Si tradiva così il desiderio che la corruzione potesse essere conseguita con alcunché di bello, di spirituale, e che non si potesse rimproverare a un uomo corrotto di mancare di spiritualità. Molti si lasciarono corrompere dagli onori. Con ciò si voleva dire: non dal denaro. E mentre a coloro di cui si era provato che avevano avuto illegittimamente del denaro si toglieva il denaro stesso, a coloro che altrettanto illegittimamente hanno avuto onore si desidera lasciarglielo. Così molti che sono accusati di sfruttamento preferiscono far credere di aver preso il denaro per poter dominare che lasciarsi dire che hanno dominato per prendere denaro. Ma dove aver denaro significa dominare, colà il dominare non è niente che possa scusare il rubar denaro.
Ci sono stati in cui la giustizia viene troppo esaltata. In tali stati è lecito supporre che sia particolarmente difficile esercitare la giustizia. Molti uomini non sono adatti alla bisogna, perché sono o troppo poveri o troppo disgraziati per poter essere giusti o per intendere per giustizia qualche cosa di diverso da un aiuto per loro stessi. Ma quella giustizia che si richiede per se stessi è tenuta in poco conto. Questi oppressi vengono raramente esaltati come amici della giustizia, poiché manca loro laltruismo. Ma costoro laltruismo non ce lhanno perché essi stessi sono indigenti e oppressi. Per parte sua, la giustizia degli altri, dei sazi, desta il sospetto che siano appunto sazi solo in quel momento, e che adesso provvedano per le prossime settimane o anni. Altri, di fronte a uno stato di cose che garantisse loro una sazietà permanente, temono la ribellione di coloro che sono stati trattati ingiustamente. Altri ancora si fanno paladini del diritto di coloro che desiderano sfruttare essi stessi. In paesi bene amministrati non cè bisogno di una particolare giustizia.
[b.b.]