Centralizzazione # 1

(attrazione di capitale già esistente)

Lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro presuppone una coopera­zione su larga scala; solo con questo presupposto possono essere organizzate la divisione e la combinazione del lavoro, possono essere economizzati i mez­zi di produzione concentrandoli in massa, possono essere creati mezzi di la­voro già materialmente adoperabili solo in comune, p. es. il sistema delle macchine [<=]; forze immense della natura possono essere costrette al servizio del­la produzione e può compiersi la trasformazione del processo di produzione in applicazione tecnologica della scienza. Sul terreno della produzione delle merci la produzione su larga scala può allignare solo in forma capitalistica. I capitali individuali, e con essi la concentrazione dei mezzi di produzione, crescono nella proporzione in cui costituiscono parti aliquote del capitale complessivo sociale. Se quindi da un lato l’accumulazione si presenta come concentrazione crescente dei mezzi di produzione e del comando sul lavoro, dall’altro si presenta come repulsione reciproca di molti capitali individuali. Contro questa dispersione del capitale complessivo sociale in molti capitali individuali oppure contro la repulsione reciproca delle sue frazioni agisce l’attrazione di queste ultime. Non si tratta più di una concentrazione semplice dei mezzi di produzione e del comando sul lavoro, identica con l’accumula­zione. Si tratta di concentrazione di capitali già formati, del superamento del­la loro autonomia individuale, dell’espropria­zione del capitalista da parte del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi. Questo processo di distingue dal primo per il fatto che esso presuppo­ne solo una ripartizione mutata dei capitali già esistenti e funzionanti, il cui campo d’azione non è limitato dall’aumento assoluto della ricchezza sociale o dai limiti assoluti dell’accumulazione.

Il capitale qui in una mano sola si gon­fia da diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto. È que­sta la centralizzazione vera e propria a differenza dell’accumulazione e con­centrazione. Il buon mercato delle merci dipende, coeteris paribus, dalla pro­duttività [<=] del lavoro, ma questa a sua volta dipende dalla scala della produzio­ne. I capitali più grossi sconfiggono perciò quelli minori. Si ricorderà inoltre che, con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, cresce il volume minimo del capitale individuale, necessario per far lavorare un’azienda nelle sue condizioni normali. I capitali minori si affollano perciò in sfere della pro­duzione delle quali la grande industria si sia impadronita fino allora solo in via sporadica o incompleta. La concorrenza infuria qui in proporzione diretta del numero e in proporzione inversa della grandezza dei capitali rivaleggianti. Essa termina sempre con la rovina di molti capitalisti minori, i cui capitali in parte passano nelle mani del vincitore, in parte scompaiono.

Si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, che ai suoi inizi s’insinua furtivamente come modesto ausilio dell’accumulazione, attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari, disseminati in masse maggiori o mi­nori alla superficie della società, nelle mani di capitalisti individuali o asso­ciati, diventando però ben presto un’arma nuova e terribile nella lotta della concorrenza e trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali. Allo stesso tempo il progresso dell’accumu­lazione aumenta la materia centra­lizzabile, ossia i capitali singoli, mentre l’allargamento della produzione capi­talistica crea qua il bisogno sociale, là i mezzi tecnici di quelle potenti impre­se industriali, la cui attuazione è legata a una centralizzazione del capitale av­venuta in precedenza. Oggi quindi la reciproca forza d’attrazione dei capitali singoli e la tendenza alla centralizzazione sono più forti che mai nel passato. Ma anche se l’estensione relativa e l’energia del movimento centralizzatore sono determinate in un certo grado dalla grandezza già raggiunta dalla ric­chezza capitalistica e dalla superiorità del meccanismo economico, ciò mal­grado il progresso della centralizzazione non dipende affatto dall’aumento positivo della grandezza del capitale sociale. Ed è questo specificamente che distingue la centralizzazione dalla concentrazione, la quale non è che un’e­spressione diversa per indicare la riproduzione su scala allargata.

La centra­lizzazione può avvenire in virtù di un semplice cambiamento nella distribu­zione di capitali già esistenti, cioè di un semplice mutamento nel raggruppa­mento quantitativo delle parti costitutive del capitale sociale. La centralizzazione completa l’opera dell’accumulazione mettendo in grado i capitalisti industriali di allargare la scala delle loro operazioni. Ora, che quest’ultimo risultato sia conseguenza dell’accumulazione o della centralizza­zione; che la centralizzazione si compia in via violenta, cioè con l’annessione, nel quale caso certi capitali diventano per altri centri di gravità così preponde­ranti da spezzarne la coesione individuale e da attirare poi a sé i frammenti singoli, o che avvenga la fusione di una quantità di capitali già formati o in formazione, in virtù di un procedimento più blando, cioè della formazione di società per azioni, l’effetto economico rimane lo stesso.

[k.m.]

 

 

Centralizzazione # 2

(credito e speculazione)

Se si parla del progresso dell’accumulazione sociale, oggi, vi sono tacitamen­te compresi gli effetti della centralizzazione [<= #1]. Mentre la centralizzazione au­menta gli effetti dell’accumulazione e li accelera, essa allarga e accelera allo stesso tempo i rivolgimenti nella composizione tecnica del capitale, che ne aumentano la parte costante a spese di quella variabile, e con ciò diminuisco­no la domanda relativa di lavoro. Le masse di capitale saldate da un giorno all’altro mediante la centralizzazio­ne si riproducono e aumentano come le altre, solo che aumentano più rapida­mente, diventando in tal modo nuove potenti leve dell’accumulazione sociale in poche mani, senza che debba crescere in assoluto il volume dei valori-capitale in funzione, e perciò anche il volume del capitale monetario in cui essi vengono anticipati. La grandezza dei singoli capitali può crescere attra­verso la centralizzazione in poche mani, senza che cresca la loro somma so­ciale. È mutata soltanto la ripartizione dei singoli capitali.

L’accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determi­na la concentrazione del lavoro su ampia scala e di conseguenza una compo­sizione superiore del capitale. D’altro lato, la diminuzione del saggio del pro­fitto accelera, a sua volta, la concentrazione di capitale e la sua centralizza­zione mediante l’espropriazione di piccoli capitalisti, degli ultimi produttori diretti sopravvissuti, presso i quali è ancora qualche cosa da espropriare.  Il successo e l’insuccesso portano qui egualmente all’accentramento dei capi­tali e quindi all’espropriazione sulla scala più vasta. L’espropriazione si estende qui dai produttori diretti agli stessi capitalisti piccoli e medi. Tale espropriazione costituisce il punto di partenza del modo di produzione capita­listico, e allo stesso tempo il suo scopo. A misura che il capitale speso si accresce, il profitto, anche se diminuisce come saggio, aumenta come massa. Questo implica tuttavia al tempo stesso una concentrazione di capitale, poiché ora le condizioni di produzione richie­dono l’impiego di capitali molto forti; e per conseguenza la centralizzazione, vale a dire l’assorbimento dei piccoli capitalisti da parte dei grandi e la loro “de­capitalizzazione”. Si tratta ancora una volta della separazione – elevata alla seconda potenza – delle condizioni del lavoro dai produttori, ai quali questi piccoli capitalisti ancora appartengono, poiché il lavoro in proprio tiene anco­ra un posto considerevole nel loro corso.

Questo processo avrebbe come conseguenza di portare rapidamente la produ­zione capitalistica allo sfacelo, qualora altre tendenze contrastanti non eserci­tassero di continuo un’azione centrifuga accanto alla tendenza centripeta. La custodia dei fondi di riserva dei commercianti, le operazioni tecniche di in­casso e di pagamento del denaro, i pagamenti internazionali, e per conseguen­za il commercio dei lingotti, si concentrano nelle mani dei commercianti di denaro. In seguito a questo commercio di denaro si sviluppa l’altro aspetto della natura del credito, l’amministrazione del capitale produttivo d’interesse [<=] o del capitale monetario [<=], come funzione particolare dei commercianti di de­naro. Il prendere a prestito e il dare a prestito denaro costituisce il loro affare particolare. Essi servono da intermediari fra chi effettivamente prende a pre­stito e chi effettivamente dà a prestito capitale monetario.

Espressa in termini generali, l’attività del banchiere sotto questo aspetto con­siste nel concentrare nelle sue mani e in grandi masse il capitale monetario disponibile per il prestito, così che di fronte ai capitalisti industriali e com­merciali, in luogo del singolo individuo che dà denaro a prestito, si trovano i banchieri, come rappresentanti di tutti coloro che danno denaro a prestito. Es­si diventano gli amministratori generali del capitale monetario. D’altro lato essi rappresentano, di fronte a tutti coloro che danno a prestito, la figura di chi prende a prestito, poiché essi prendono a prestito per tutto quanto il mondo commerciale. Una banca rappresenta da un lato la concentrazione del capitale monetario, cioè di coloro che danno a prestito, d’altro lato la concentrazione di quelli che prendono a prestito. Con lo sviluppo del sistema bancario, e soprattutto non appena le banche pa­gano un interesse per i depositi, vengono depositati presso di esse i risparmi in denaro e il denaro momentaneamente non impiegato di tutte le classi. As­surda è perciò la frase fatta che fa derivare il capitale dal risparmio [<=], perché ciò che lo speculatore pretende è proprio che altri risparmino per lui. Piccole somme, insufficienti per operare isolatamente come capitale monetario, sono riunite in grandi masse e costituiscono cosi una potenza monetaria.

Questa azione di metter insieme piccole somme deve essere distinta come azione specifica del sistema bancario, da quella d’intermediario tra i capitali­sti monetari veri e propri e coloro che prendono a prestito. Infine vengono de­positate presso le banche anche quelle rendite che devono essere consumate solo a poco a poco. Se il credito appare come la leva principale della sovraproduzione e della so­vraspeculazione nel commercio, ciò avviene soltanto perché il processo di produzione, che per sua natura è elastico, viene qui spinto al suo estremo limi­te, e vi viene spinto proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono proprietari, i quali quindi agiscono in tutt’altra maniera dai proprietari, i quali, quando operano personalmente, han­no paura di superare i limiti del proprio capitale privato. Da ciò risulta chiaro soltanto che la valorizzazione del capitale, fondata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica, permette l’effettivo, libero sviluppo soltanto fi­no a un certo punto, quindi costituisce di fatto una catena e un limite imma­nente della produzione, che viene costantemente spezzato dal sistema crediti­zio. Il sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo delle forze produttive e la for­mazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materia­le della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eru­zioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi [<=] e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione.

Il credito sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimen­to mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più co­lossale sistema di gioco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale: un capitale illusorio. In periodi di difficoltà per il mercato monetario, questi titoli subiranno una duplice ridu­zione di prezzo; innanzi tutto perché il saggio dell’interesse aumenta, e in se­condo luogo perché essi vengono gettati sul mercato in massa, per essere con­vertiti in denaro. Non appena la burrasca è passata questi titoli riprendono il loro valore precedente, eccettuato il caso in cui si tratti di imprese sfortunate o di bassa speculazione. Il loro deprezzamento durante la crisi agisce come mezzo efficace per l’ac­centramento dei patrimoni monetari. In quanto la diminuzione o l’aumento di valore di questi titoli sono indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano, la ricchezza di una nazione non varia in conse­guenza di tale diminuzione o aumento. Con lo sperpero di capitale in imprese assolutamente senza valore, la nazione non risulta impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone di capitale monetario nomi­nale. Tutti questi titoli non sono in realtà che una accumulazione di diritti, ti­toli giuridici, sulla produzione futura, e il loro valore monetario o valore-capitale non costituisce capitale, come a es. nel caso del debito pubblico [<=], op­pure è determinato in modo completamente indipendente dal valore del capi­tale reale che essi rappresentano.

In tutti i paesi a produzione capitalistica esiste una massa enorme di cosiddet­to capitale produttivo d’inter­esse o di capitale monetario sotto questa forma. E per accumulazione del capitale monetario si deve intendere in gran parte esclusivamente l’accumulazione di questi diritti sulla produzione, l’accumula­zione del prezzo di mercato, del valore-capitale illusorio di questi diritti. Questa espropriazione si presenta come appropriazione della proprietà sociale da parte di pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché la proprietà esiste qui sotto forma di azioni, il suo movimento ed il suo trasferimento non sono che il puro e semplice risultato del gioco di borsa do­ve i piccoli pesci sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi di borsa.

[k.m.]

 

 

Centralizzazione # 3

(società per azioni)

Le società per azioni sono l’annul­lamento dell’industria privata capitalistica sulla base del sistema capitalistico stesso. Infatti con la formazione della società per azioni si ha:

1) Un ampliamento enorme della scala della produzione e delle imprese quale non sarebbe stato possibile con capitali individuali. Tali imprese divengono ora sociali.

2) Il capitale, che si fonda per se stesso su un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro [<=], acquista qui direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capitale [<=] privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali contrapposte alle  imprese private. È la soppressione del capitale  come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso.

3) Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse ed il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo di interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà  che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro e­straniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero.

Nelle società per azioni la funzione è separata dalla proprietà [<=] del capitale e per conseguenza anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di produzione e dal plusvalore. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del  capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, proprietà sociale immediata.       

(k.m.)  

[da Il capitale, III,27]

 

 

Circolazione # 1

(comunicazione, velocità, scorte)

Si fa strada l’idea che il capitalista ammassi alla maniera del tesaurizzatore o che immagazzini una provvista di mezzi di sussistenza, come le api il miele. Ma è un modo di dire. Non parliamo dei bottegai che vendono mezzi di sussistenza; naturalmente, essi devono sempre possedere una buona quantità di scorte. Questo ammassamento non è che lo stadio intermedio in cui si trova la merce prima di passare dalla circolazione al consumo: è la sua esistenza sul mercato [<=] come merce [<=]. Come tale, essa può sussistere solo in questa forma. Non importa in quali mani si trovi: importa solo che negli stadi intermedi essa rappresenta scambio di capitale contro capitale (propriamente, di capitale più un profitto, poiché nella merce il produttore non vende soltanto il capitale ma anche il profitto realizzato sul capitale), e nell’ultimo stadio eventualmente capitale contro reddito (cioè, quando la merce è destinata a entrare non nel consumo industriale, ma in quello individuale). La merce che è ultimata come valore d’uso nella forma atta alla vendita si trova – come merce sul mercato – nella fase della circolazione: tutte le merci si trovano in questa fase in quanto devono percorrere la loro prima metamorfosi, la trasformazione in denaro.

Se la produzione è svariata e massiccia, e quindi anche il consumo è tale, sarà maggiore la massa delle merci più differenti che si trova continuamente in questa sosta, in questo stadio intermedio, in una parola in circolazione, ovvero sul mercato. Dal punto di vista della quantità, grande “ammassamento” qui non significa altro che grande produzione e consumo. La sosta delle merci – la loro permanenza in questo momento del processo, la loro presenza sul mercato invece che nella fabbrica o nell’abitazione privata (come articolo di consumo), e nel negozio o nel magazzino del bottegaio – non è che un momento fuggevole nel processo della loro vita. L’esistenza fissa e autonoma di tale “mondo di merci”, “mondo di cose”, è pura parvenza. La sala d’aspetto è sempre piena, ma sempre di nuovi viaggiatori. Le medesime merci – ma secondo la specie – sono costantemente ricreate nella sfera della produzione, presenti sul mercato, afferrate dal consumo. Così, non le stesse identiche merci, ma merci della medesima specie, si trattengono sempre contemporaneamente in questi tre stadi. Se lo stadio intermedio si prolunga, di modo che le nuove merci che escono dalle diverse sfere di produzione trovano il mercato ancora occupato dalle precedenti, si determina un affollamento, un arresto, il mercato è sovraccarico, le merci vengono svalutate: è la sovraproduzione.

Quando, dunque, lo stadio intermedio della circolazione si rende autonomo, quando non è soltanto un arresto della corrente nel suo fluire, quando la presenza delle merci nella fase della circolazione si manifesta come ammassamento, questo non è un libero atto del produttore, non è uno scopo o una fase vitale immanente della produzione – proprio come l’afflusso di sangue alla testa che porta il colpo apoplettico non è una fase immanente della circolazione del sangue. Il capitale in quanto capitale-merci (così si manifesta in questa fase della circolazione, sul mercato) non deve consolidarsi, può rappresentare soltanto una sosta nel movimento. Altrimenti si turba il processo di riproduzione. L’intero meccanismo viene alterato. Tanto piccola è, e può essere, questa ricchezza oggettiva, apparentemente concentrata in singoli punti, in confronto al flusso costante della produzione e del consumo. La ricchezza perciò non reca una data remota: è sempre di ieri. D’altra parte, se la riproduzione si arrestasse a causa di una perturbazione, i magazzini ecc. si svuoterebbero; si verificherebbe una carenza e si vedrebbe immediatamente che la continuità che la ricchezza esistente sembra possedere non è che la continuità del suo ricostituirsi, della sua riproduzione, l’oggettivazione costante del lavoro sociale.

Presso il bottegaio ha luogo anche la circolazione semplice [M-D-M]: il fatto che egli realizzi un profitto qui non ci riguarda. Egli vende la merce e ricompra la medesima merce (dal punto di vista della specie); la vende al consumatore e la ricompra dal produttore. La medesima specie di merce si trasforma qui continuamente in denaro e il denaro si ritrasforma costantemente nella medesima merce. Ma questo movimento non rappresenta altro che la riproduzione costante, la produzione e il consumo costanti, poiché la riproduzione include il consumo. La merce per poter essere riprodotta deve essere venduta, cadere nel consumo: essa deve dare buona prova di sé come valore d’uso. Infatti, con la scomparsa del suo portatore – il valore d’uso – scompare anche il valore di scambio, a meno che la scomparsa del valore d’uso non sia essa stessa un atto di produzione. Il processo di riproduzione – essendo unità di circolazione e produzione – implica il consumo, che è esso stesso un momento della circolazione. In realtà, considerando il problema nel suo complesso, il bottegaio paga la merce al produttore col medesimo denaro con cui compra da lui il consumatore. Rispetto al produttore, egli rappresenta il consumatore, e rispetto al consumatore, il produttore; egli è compratore e venditore della merce. Dal punto di vista meramente formale, il denaro, in quanto egli lo usi per acquistare, è in realtà la metamorfosi finale della merce del consumatore.

Il passaggio della merce nello stadio intermedio in cui essa permane come merce nella circolazione – in quanto sia la trasformazione della merce nel denaro del consumatore e la ritrasformazione di questo denaro, che ora appartiene al bottegaio nella medesima specie di merce – non esprime altro che il passaggio continuo della merce nel consumo. A tale scopo, infatti, il posto lasciato vuoto dalla merce che cade nel consumo dev’essere occupato dalla merce che proviene dal processo di produzione e che entra ora in questo stadio. La permanenza della merce nella circolazione e il suo essere sostituita da nuove merci dipende naturalmente dal tempo durante il quale le merci si trovano nella sfera di produzione, vale a dire dalla lunghezza del suo periodo di riproduzione, e varia a seconda della diversità di questo periodo. I differenti “serbatoi” della circolazione (magazzini, ecc.) sono tanto canali di scarico per la produzione quanto canali di afflusso per il consumo. Finché si trova qui, la merce è merce e quindi si trova sul mercato, in circolazione. Il consumo la sottrae a questi serbatoi solo pezzo a pezzo, goccia a goccia. La sostituzione, il flusso delle merci successive che la scacciano, si avrà solo poco a poco, quando questi serbatoi si svuotano, a misura che si avvicinano le merci sostitutive.

Se resta un’eccedenza e la nuova produzione è superiore alla media, si avrà un arresto. Lo spazio che codesta determinata merce deve occupare sul mercato è sovraccarico. Affinché tutte vi trovino posto, le merci contraggono i loro prezzi di mercato, e questo le rimette in moto. Se la loro massa come valori d’uso è troppo grande, si adattano allo spazio che debbono occupare con una contrazione dei loro prezzi. Sebbene sia chiaro che la massa assoluta delle merci ammassate nei “serbatoi” della circolazione aumenti con lo sviluppo dell’industria, perché aumentano la produzione e il consumo, questa stessa massa, comparata con la somma stessa della produzione e del consumo, diminuisce. Il passaggio delle merci dalla circolazione al consumo si abbrevia. E precisamente per le seguenti ragioni. La velocità della riproduzione aumenta:

1. Non appena la merce percorre rapidamente le differenti fasi della sua produzione, il processo di produzione si abbrevia in ogni fase perché diminuisce il tempo di lavoro necessario alla produzione della merce, in ognuna delle sue forme.

2. Sia per l’associazione di differenti branche d’affari, di centri di produzione che si formano, sia per lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, la merce passa rapidamente da una fase all’altra; ossia, si abbrevia il tempo occupato dalla permanenza della merce nello stadio intermedio tra una fase di produzione e quella successiva, ossia si accorcia il passaggio da una fase della produzione all’altra.

3. Tutto questo sviluppo – l’abbreviazione sia delle fasi di produzione sia del passaggio da una fase all’altra – presuppone la produzione su larga scala, la produzione di massa, e, nello stesso tempo, la produzione basata sull’impiego di molto capitale costante, specialmente di capitale fisso; e quindi il flusso ininterrotto della produzione: non flusso nel senso considerato ora (mediante l’accostamento e l’addentellarsi delle diverse fasi di produzione), ma nel senso che nella produzione non hanno luogo pause intenzionali.

Questo processo non aspetta la domanda, ma è una funzione del capitale. Il capitale continua a lavorare sempre alla medesima scala (a prescindere dall’accumulazione e dall’espansione) con uno sviluppo e  un’estensione costante delle forze produttive. La produzione, quindi, non solo è rapida, così che la merce raggiunga velocemente la forma in cui è atta a circolare, ma è costante. La produzione qui appare solo come riproduzione continua, e nello stesso tempo è produzione di massa. Se le merci, perciò, sostano a lungo nei “serbatoi” della circolazione – se vi si accumulano – esse ben presto li sovraccaricheranno per la rapidità con cui si susseguono le ondate di produzione e la gran quantità di roba che riversano continuamente in tali “serbatoi”. Ma le medesime necessità che creano questa velocità e questo carattere di massa della riproduzione, riducono anche la necessità di raccogliere le merci in codesti “serbatoi”. In parte – per quanto riguarda il consumo industriale – ciò è già implicito nell’avvicinamento reciproco delle fasi di produzione che la merce stessa o le sue componenti devono percorrere. Se tali elementi sono prodotti quotidianamente in grandi quantità, e trasportati fino ai cancelli delle fabbriche, all’industriale basta tenerne una piccola scorta; o, il che è lo stesso, se vi è un intermediario, quest’ultimo, oltre a ciò che vende giorno per giorno e di cui viene quotidianamente rifornito, ha bisogno solo di una piccola scorta [“just in time”].

Ma, a prescindere dal consumo industriale, in cui le scorte delle merci (cioè, le scorte delle componenti delle merci) devono diminuire in tal modo, anche il bottegaio può contare in primo luogo sulla rapidità delle comunicazioni, in secondo luogo sulla certezza del rinnovo e del rifornimento rapido e continuo. Quindi sebbene il suo giro d’affari possa aumentare, ogni singola merce si trattiene più brevemente nel suo magazzino, in questo stadio di passaggio. Rispetto al suo fatturato, al suo giro d’affari, vale a dire rispetto all’entità sia della produzione sia del consumo, la massa complessiva di merci da lui di volta in volta trattenuta, ammassata nella sua scorta, è piccola. Un riempimento straordinario dei “serbatoi” – nella misura in cui non sia dovuto alla saturazione del mercato, che in queste circostanze si verifica tuttavia con una facilità infinitamente maggiore di quando regnava una lentezza patriarcale – ha un carattere meramente speculativo. D’altra parte, si verifica una continua estensione del mercato, e, nella misura in cui diminuisce l’intervallo di tempo durante il quale la merce si trova sul mercato, aumenta l’espansione, vale a dire che il mercato si estende in senso spaziale, e volendo descrivere la periferia della sfera di produzione della merce rispetto al centro si deve prolungare sempre di più il raggio. La rapidità della riproduzione è connessa o, meglio, è solo un’altra espressione del fatto che il consumo vive alla giornata – “cambia d’abito e biancheria” con la stessa rapidità con cui muta le sue opinioni, e non porta lo stesso vestito per dieci anni, ecc.

Il consumo, anche per gli articoli in cui ciò non sia imposto dalla natura del valore d’uso, è sempre più simultaneo alla produzione, sempre più dipendente dal lavoro presente (poiché, di fatto, è scambio di lavoro coesistente). E ciò nella stessa misura in cui il lavoro passato diventa un fattore sempre più importante della produzione, sebbene si tratti di un passato di fresca data e soltanto relativo. Ecco un esempio di quanto la necessità di tenere scorte sia legata all’insufficienza della produzione. Solo laddove entra in circolazione il prodotto diventa merce. Quindi la circolazione si allarga straordinariamente con la produzione capitalistica per le seguenti ragioni: i. la produzione di massa, la quantità,  il carattere di massa, non stanno in alcun rapporto quantitativo col bisogno del produttore; ii. l’unilateralità qualitativa del prodotto sta in rapporto inverso all’accresciuta varietà dei bisogni; questa differenziazione delle merci è duplice: le differenti fasi di una stessa produzione, come pure i lavori intermedi (richiesti per le componenti, ecc.), si scompongono in diversi rami di lavorazione reciprocamente indipendenti (oppure, il medesimo prodotto si trasforma, nelle diverse fasi o stadi successivi, in differenti generi di merci); iii. trasformazione della maggioranza della popolazione in lavoratori salariati, che prima consumavano una massa di prodotti in natura; iv. mobilizzazione di una massa di beni, prima “inalienabili”, come merci, e creazione di forme di proprietà che consistono unicamente in titoli; da un lato, alienazione della proprietà fondiaria, ecc. (anche la mancanza di proprietà delle masse fa sì che esse si comportino, a es. nei confronti della loro abitazione, come nei confronti di una merce); dall’altro, sviluppo del sistema azionario.

[k.m.]

 

 

Circolazione # 2

(plusvalore e sovraproduzione)

Perfino Ricardo dice, in alcuni passi, che la ricchezza consta unicamente di valori d’uso. Egli trasforma lì la produzione borghese in mera produzione per il valore d’uso, il che è una “bella visione” di un modo di produzione dominato dal valore di scambio. Egli considera così la forma specifica della ricchezza borghese come qualcosa di puramente formale, che non coinvolge il proprio contenuto. Quindi nega anche le contraddizioni della produzione borghese che esplodono nelle crisi [<=]. Di qui tutta la sua falsa concezione del denaro. Di qui, inoltre, deriva il fatto che Ricardo nel processo di produzione del capitale trascura completamente il processo di circolazione [<= #1], in quanto esso implica la metamorfosi delle merci, la necessità della trasformazione del capitale in denaro. Il processo di circolazione cancella, offusca la connessione con il valore in rapporto al tempo di lavoro: poiché la massa del plusvalore [<=] qui è determinata anche dal tempo di circolazione del capitale, sembra che si introduca un elemento estraneo al tempo di lavoro. Nel capitale compiuto, che appare come un tuttounità di processo di circolazione e di produzione, ossia come una determinata somma di valore che, in un determinato spazio di tempo, in un determinato segmento di circolazione, produce un determinato profitto (plusvalore) – in questa figura il processo di produzione e il processo di circolazione esistono ormai solo come ricordo e come momenti che determinano uniformemente il plusvalore, velando in tal modo la sua natura “semplice”. Il plusvalore adesso appare come profitto.

Questo profitto: i. è riferito a una determinata sezione della circolazione, che è differente dal tempo di lavoro; ii. il plusvalore è calcolato e riferito non alla parte del capitale da cui immediatamente deriva, ma indistintamente all’intero capitale; in questo modo la sua fonte è sottratta alla vista; iii. benché in questa prima forma del profitto la sua massa sia ancora quantitativamente identica alla massa del plusvalore prodotto dal singolo capitale, il tasso del profitto, riferito all’intero capitale anticipato, è fin da principio differente dal tasso del plusvalore, riferito alla sola parte variabile di esso; iv. presupponendo come dato il tasso di plusvalore, il tasso di profitto può salire o scendere, perfino in senso contrario al tasso di plusvalore. Così, nella prima figura del profitto, il plusvalore ha già una forma che non solo non lascia immediatamente riconoscere la sua identità col plusvalore, col pluslavoro, ma anzi sembra contraddirla immediatamente. Poi, con la trasformazione del profitto in profitto medio, esso non solo sembra ma è effettivamente differente dal plusvalore.

Il profitto è determinato dal valore del capitale anticipato. Il rapporto tra il profitto e la composizione organica del capitale è completamente cancellato, irriconoscibile. Con la trasformazione dei valori in prezzi di costo, la base stessa – la determinazione del valore delle merci mediante il tempo di lavoro in esse contenuto – sembra soppressa. Nella misura in cui il denaro serve a pagare debiti e non accelera il processo di riproduzione – e forse anzi lo rende impossibile o lo riduce – è solo denaro per colui che lo prende a prestito, mentre per il prestatore è effettivamente capitale indipendente dal processo del capitale. In questo caso, l’interesse è un fatto indipendente dalla produzione capitalistica come tale, dalla creazione di plusvalore. L’interesse è esplicitamente posto come generato dal capitale, separato, indipendente ed estraneo al processo capitalistico stesso. In tal modo anche l’ultima forma del plusvalore, che in qualche modo rammenta la sua origine, viene isolata e concepita in una forma non solo estraniata, ma foggiata in diretta opposizione a essa – e con ciò la natura del capitale e del plusvalore, come della produzione capitalistica in generale, viene infine completamente mistificata.

Il capitale, da un rapporto, si trasforma sempre più in una cosa, ma in una cosa che ha incorporato, ingoiato, il rapporto sociale, una cosa che si rapporta a se stessa con una vita e un’autonomia fittizie, un essere “sensibilmente sovrasensibile”: è la forma della sua realtà o piuttosto la sua vera forma d’esistenza. Ed è la forma in cui vive nella coscienza dei suoi portatori, i capitalisti, in cui si rispecchia nelle loro idee. Questa forma fissa e ossificata (metamorfizzata) del profitto – e con ciò del capitale in quanto suo fondamento, suo produttore, in quanto il capitale si conserva e si accresce nel profitto, poiché il capitale è la base, la causa, la sostanza, e il profitto la conseguenza, l’effetto, l’accidente – è ulteriormente rafforzata nel suo aspetto esteriore dal fatto che lo stesso processo di perequazione del capitale ne stacca una parte sotto forma di rendita. Nella scissione del profitto in interesse [o rendita] e profitto industriale, la natura del plusvalore (e quindi del capitale) non è solo cancellata, ma esplicitamente rappresentata come qualcosa di completamente differente [“nuova economia”]. In queste forme del plusvalore, la natura del plusvalore, l’essenza del capitale e il carattere della produzione capitalistica sono quindi non solo completamente cancellati, ma rovesciati nel loro contrario. D’altra parte, il carattere e la figura del capitale sono compiuti come soggettivizzazione delle cose, reificazione di soggetti, inversione di causa ed effetto, quiproquo religioso, quando la forma pura del capitale D-D’ [a es., quella che opera in borsa] è rappresentata ed espressa in maniera insensata, senza alcuna mediazione [<=].

Allora anche l’ossificazione dei rapporti, la loro rappresentazione come un rapporto tra uomini e cose, dotato di un determinato carattere sociale, è ben diversa che nella semplice mistificazione della merce e in quella, già più complicata del denaro. La transustanziazione, il feticismo è compiuto. L’interesse riassume il carattere estraniato delle condizioni di lavoro in rapporto all’attività del soggetto. Rappresenta la mera proprietà [<=] del capitale come mezzo per appropriarsi dei prodotti del lavoro altrui – in quanto dominio sul lavoro altrui – che gli spetta al di fuori del processo di produzione e che non è affatto il risultato della specifica determinatezza di questo processo di produzione stesso. Non lo rappresenta in antitesi al lavoro ma, al contrario, senza alcuna relazione con il lavoro e come mero rapporto tra un capitalista e l’altro. Quindi come una determinazione esteriore e indifferente al rapporto tra capitale e lavoro. La ripartizione del profitto tra i capitalisti è indifferente al lavoratore come tale. In realtà, l’interesse [insieme alla rendita] presuppone il profitto, di cui è soltanto una parte, e per il lavoratore salariato è perciò del tutto indifferente il modo in cui il plusvalore si divide in interesse e profitto, si ripartisce tra diverse specie di capitalisti.

In gran parte il profitto del capitalista – trattandosi di “espropriazione” di altri capitalisti, campo in cui l’operare individuale del singolo capitalista ha mano particolarmente libera, e non trattandosi invece di creazione di plusvalore – deriva dalla distribuzione del profitto complessivo dell’intera classe dei capitalisti tra i suoi singoli membri, nel campo “mercantile”. Certe specie di profitto – per esempio quelle fondate sulla speculazione [<=] – si muovono unicamente in questo campo. Ciò che mostra la bestiale stupidità dell’economia volgare è che essa lo confonde con il profitto che deriva dalla creazione di plusvalore (da parte del capitale operante [<=]). Trattandosi di simili asini, è naturale che confondano le spese di calcolo e le cause di compensazione dei capitalisti – nella distribuzione del profitto complessivo dell’intera classe dei capitalisti – con ragioni per lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti stessi, con le cause, per così dire genetiche, del profitto come tale.

[k.m.]

 

 

Civiltà

(superiorità dell’occidente)

La Dialettica dell’illuminismo è uscita nel 1947. Se ora ripubblichiamo l’o­pera dopo vent’anni è per la consapevolezza che non poche delle idee ivi espresse sono ancora oggi del tutto valide. Il libro fu composto in un momento in cui si poteva prevedere la fine del terrore nazionalsocialista. Nel periodo della scissione politica in enormi blocchi obiettivamente spinti a scontrarsi, l’orrore permane. I conflitti nel terzo mondo e il risorgere del totalitarismo [<=] non sono dei puri incidenti storici così come non lo era, secondo la Dialettica, il fascismo di allora. L’evoluzione, analizzata nel libro, verso un’integrazione totale, è interrotta ma non tron­cata; essa minaccia di attuarsi attraverso guerre e dittature. Il libro diventa un documento, ma noi speriamo che sia al contempo qualcosa di più [dalla Premessa all’ultima edizione tedesca (1969), di Max Horkheimer - Theodor W. Adorno].

È venuto meno il concetto stesso di vita umana come unità della storia di un uomo: la vita del singolo è definita ormai solo dal suo opposto, la distruzione, ma ha perduto ogni armonia e coerenza, ogni ricordo consapevole e memoria involontaria – ha perduto il significato. Gli individui si riducono alla pura successione di presenti puntuali, che non lasciano traccia, o le cui tracce sono per loro oggetto di odio, come irrazionali, superflue, e superate nel senso più letterale. Come è sospetto ogni libro che non sia appena uscito, come il pensiero della storia, al di fuori della scienza specializzata, innervosisce i tipi attuali, così li manda in bestia il passato dell’uo­mo. Ciò che uno è stato e sperimentato un tempo, è annullato di fronte a ciò che è, ha, o a cui può servire adesso.

Il primo consiglio, tra benevolo e minaccioso, che si impartisce spesso all’emigrato, e cioè quello di dimenticare completamente il passato, dal momento che non può trasferirlo con sé, di farci una croce sopra e di cominciare senz’altro una nuova vita, vorrebbe infliggere d’autorità all’in­truso, sentito come un essere spettrale, ciò che si è appreso da tempo a fare a sé stessi. Si soffoca la storia in sé e negli altri, per timore che possa rammentare lo sfacelo della propria esistenza – che consiste a sua volta, in larga misura, nella rimozione della storia. Ciò che accade a tutti i sentimenti, l’esclusione di tutto ciò che non ha un valore di mercato, accade nel modo più brutale a quello da cui non si può ottenere neppure la ricostituzione psicologica della forza-lavo­ro, al lutto. Che diventa lo stigma della civiltà, sentimentalismo asociale, che dimostra che non si è ancora riusciti del tutto a inchiodare gli uomini al regno degli scopi. Così il lutto viene sfigurato più di ogni altra cosa, ridotto coscientemente alla formalità sociale che la bella salma è sempre stata, in larga misura, per gli uomini induriti. Si infligge in realtà ai morti ciò che per gli antichi ebrei era la maledizione più tremenda: nessuno si ricorderà di te. Gli uomini sfogano sui morti la loro disperazione di non ricordarsi nemmeno di sé stessi.

La resistenza della natura esterna, a cui risale in definitiva la pressione, si prolunga nella società attraverso le classi [<=] e agisce su ogni individuo, fin dall’infanzia, come durezza degli altri. Gli uomini sono molli quando vogliono qualcosa dai più forti; duri e brutali quando ne sono richiesti dai più deboli. È questa la chiave del carattere nella società come è stata finora. La conclusione che il terrore [<=] e la civiltà sono inseparabili, tratta dai conservatori, è solidamente fondata.

Lo sviluppo della civiltà si è compiuto all’insegna del carnefice. Non ci si può disfare del terrore e conservare la civiltà. Attenuare il primo è già l’inizio della dissoluzione. Di qui si possono trarre le conseguenze più diverse: dal culto della barbarie fascista [o in versione berlusconiana] alla fuga rassegnata nei gironi infernali [Dante, Inferno, c. III]. Ma se ne può trarre anche un’altra: non curarsi della logica, quando è contro l’umanità.

Sotto la storia nota dell’Europa corre una storia sotterranea. Essa consiste nella sorte degli istinti e delle passioni umane represse e sfigurate dalla civiltà. Colpito dalla mutilazione è soprattutto il rapporto col corpo. La divisione del lavoro, in cui la fruizione è finita da una parte e il lavoro dall’altra, ha colpito d’interdetto la forza bruta. Come lo schiavo, anche il lavoro ebbe un marchio. Il cristianesimo ha esaltato il lavoro [<=], ma ha umiliato tanto più, in compenso, la carne come origine di ogni male.

C’erano due razze per natura, i superiori e gli inferiori. La liberazione dell’individuo europeo è avvenuta nel quadro di una generale trasformazione culturale che ha scavato tanto più a fondo la scissione nell’animo dei liberati, quanto più si attenuava la coazione fisica dall’esterno. L’odio-amo­re per il corpo tinge di sé tutta la civiltà moderna. Il corpo, come ciò che è inferiore e asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come ciò che è vietato, reificato, estraniato. Solo la civiltà conosce il corpo come una cosa che si può possedere, solo in essa esso si è separato dallo spirito – quintessenza del potere e del comando – come oggetto, cosa morta, corpus.

Il corpo fisico non si può più ritrasformare in corpo vivente. Rimane un cadavere, per quanto possa essere allenato e irrobustito. La trasformazione in cosa morta, che si delinea nel suo nome, fa parte del processo costante che ha ridotto la natura a materiale e materia. Le opere della civiltà sono il frutto della sublimazione, del­l’odio-amore acquisito verso il corpo e la terra, da cui il dominio ha avulso tutti gli uomini. Ma l’assas­sinio, il si­cario, i giganti abbrutiti, adoperati se­gretamente come giustizieri dai potenti legali e illegali, grandi e piccoli, ... tutti i lupi mannari che vivono nel buio della storia e tengono desta la paura, senza la quale non ci sarebbe il dominio: in loro l’odio-amore per il corpo è brutale e immediato, essi violano tutto quello che toccano, distruggono ciò che vedono in luce, e questa distruzione è il rancore per la reificazione; essi ripetono, con cieca furia, sull’oggetto vivente, ciò che non possono più fare che non sia accaduto: la scissione della vita nello spirito e nel suo oggetto. L’uomo li attrae irresistibilmente; lo vogliono ridurre al corpo, nulla deve avere il diritto di vivere. Questa ostilità degli infimi – già accuratamente coltivata e protetta dai superiori, laici e ecclesiastici – per la vita atrofizzata in loro, con cui essi in modo omosessuale e paranoico, entrano in contatto attraverso l’omicidio, è sempre stato uno strumento indispensabile dell’arte di governo. L’ostilità degli schiavi verso la vita è una forza inesauribile della sfera notturna della storia.

[m.h.-t.a.]

(da Max Horkheimer - Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, 1947)

 

 

Classe # 1

(definizione)

È di moda, soprattutto nei tempi di indebolimento del pensiero, predicare la fine delle classi [<=] e, a fortiori, della lotta di classe [<=]. Che ciò sia fatto dall’ideolo­gia dominante è ovvio; che tale predica venga assimilata e ripetuta acritica­mente dagli esponenti dell’“asinistra” è conseguenza necessaria proprio di quello stesso dominio di classe “solido e pericoloso” che costoro vorrebbero far credere di esorciz­zare. E la faccenda non è recente, se già Marx si sentì in dovere di precisare, nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale, che “l’econo­mia politica, in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico come forma as­soluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati. Dal momento in cui la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose, per la scienza economi­ca borghese quella lotta suonò la campana a morte. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, co­modo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica”. Del resto, che la lotta di classe appaia spenta agli occhi dei proletari è inevitabile in momenti in cui la parte attiva di codesta lotta venga perseguita dalla borghesia trionfante, ancorché in crisi, e non sia più svolta se non marginalmente dal proletariato stesso. Tutto ciò non esime dal riconosce­re le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, il persistere della lotta delle classi che lo costituiscono e, anzitutto, l’esistenza e la riproduzione delle classi stesse.

In prima istanza, dal punto di vista della base economica del modo di produ­zione capitalistico, la definizione di classe sociale può essere immediatamen­te circoscritta all’omogeneità di funzione svolta dai diversi soggetti nel pro­cesso di produzione. L’identità funzionale individua l’appartenenza all’una o all’altra classe in sé, oggettivamente identificata. Tale appartenenza, pertanto, non pertiene alla sfera empirica del tipo di attività svolta, né dell’ammontare di reddito percepito, né tantomeno può corrispondere biunivocamente con i singoli individui empirici. Essa è, per l’appunto, oggettiva e trascende il sog­getto individuale in quanto un medesimo soggetto può svolgere più di una funzione nel processo di produzione, con diverse mansioni e livelli di reddito, per cui la sua appartenenza a quella o quell’altra classe dipende da quale sua figura prevalga sulle altre, da quella che ne determina in prima istanza il ruolo e la funzione sociale. Dunque, nel modo di produzione capitalistico che sta a fondamento delle for­mazioni economiche sociali moderne a dominanza borghese, la prima e prin­cipale divisione funzionale al processo di produzione medesimo mette: da un lato, la classe di coloro che sono proprietari [<=] delle condizioni oggettive della produzione, in quanto non produttori, ossia tali che per definire la loro fun­zione peculiare non è necessario che essi partecipino attivamente alla produ­zione stessa; dall’altro, la classe di coloro che sono effettivamente i produtto­ri della ricchezza sociale nella forma storica data, in quanto non proprietari di quelle condizioni della produzione, pur se accidentalmente e parzialmente possano esserlo.

La predominanza dell’una o dell’altra funzione fa sì che i soggetti sociali siano identificabili, nel primo caso, con la classe dei capitali­sti (in senso lato) e, nel secondo, con la classe dei proletari (o lavoratori sala­riati, in senso lato). È altresì ovvio che una siffatta definizione funzionale di classe, come insieme omogeneo di soggetti per riguardo al processo di produ­zione, sia adeguata anche ai modi di produzione che hanno preceduto quello capitalistico, tenendo tuttavia presente che nelle epoche passate diverse erano le classi costitutive delle varie formazioni sociali poiché diversa era la finalità del processo di produzione e che, proprio in ragione di ciò, solo nella forma capitalistica le classi si presentano come tali, nella loro elementarità, senza trasmutarsi e cristallizzarsi nella parvenza di “ordini” o “caste” in forza di su­perfetazioni metaeconomiche. Solo sulla base di una tale divisione nelle due classi principali della società moderna si può costruire una successiva, e necessaria, articolazione che sia ancora economica, ma anche sociologica e culturale o perfino comportamen­tale.

Innanzitutto, come accennato, nulla vieta che un medesimo individuo sia al contempo “proprietario” e “produttore”, come potrebbe essere l’artigiano, il coltivatore diretto, o anche il capitalista che lavora nella propria impresa o il salariato (operaio, bracciante o impiegato) che possiede qualche mezzo di produzione. Ma la sovrapposizione casuale di più funzioni non impedisce di comprendere sia che nella generalità dei casi ciò non caratterizza il modo di produzione capitalistico, ma solo le sue diverse forme empiriche di esistenza economica sociale, sia di individuare nel caso di una simile sovrapposizione, accidentale transitoria o residuale, quale funzione debba essere ritenuta quella qualificante e determinante. In secondo luogo, perciò, è facile trovare una gran varietà di forme di passaggio, intermedie tra le due classi principali della società moderna, tali da rappresentare altre classi, sottoclassi, ceti o gruppi in cui praticamente si articola questa formazione sociale. Ma, in terzo luogo, in­fine, nessuno può dubitare che ancora oggi e per tutta la vigenza in forma dominante del modo di produzione capitalistico si riproduca in maniera sem­pre più polarizzata la divisione tra “proprietari non produttori” (capitalisti in­dustriali, percettori di profitto e interesse, nella cui classe vanno generalmente ricomprese anche le forme moderne assunte dai capitalisti monetari e dai ca­pitalisti commerciali, e proprietari fondiari, percettori di rendita) e “produtto­ri non proprietari” (lavoratori salariati o proletari, percettori appunto di sala­rio, in qualsiasi forma esso sia travestito). Nessuno può disconoscere tuttora l’esistenza di tali classi, su scala mondiale, e le contraddizioni e gli antagoni­smi che esse mettono in movimento. È bene che la specificazione del concet­to di classe e della sua formazione storica, così come l’analisi delle classi realmente esistenti e la loro composizione, siano lasciate alle parole stesse di Marx e dei marxisti.

[gf.p.]

 

 

Classe # 2

(concetto e formazione)

I proprietari della semplice forza-lavoro, i proprietari del capitale e i proprie­tari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole i lavoratori salariati, i capitalisti e i proprietari fon­diari costituiscono le tre grandi classi [<=] della società moderna, fondata sul mo­do di produzione capitalistico. Tuttavia la stratificazione delle classi non ap­pare mai nella sua forma pura. Fasi medie e di transizione cancellano tutte le linee di demarcazione. Ma per l’analisi delle classi ciò è irrilevante. Che cosa costituisce una classe? A prima vista può sembrare che ciò sia dovu­to all’identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito. Tuttavia da questo punto di vista, anche i medici, a es., e gli impiegati verrebbero a formare due classi, poiché essi appartengono a due distinti gruppi sociali. Lo stesso var­rebbe per l’infinito frazionamento di interessi e di posizioni, creato dalla divi­sione sociale del lavoro. Non è necessario, però, per enucleare le leggi dell’e­conomia borghese – le leggi di un’epoca che ha sostituito, alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, distinguendosi così dalle altre epoche per aver semplificato gli antagonismi di classe, scin­dendo l’intera società sempre più in due grandi campi nemici, due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato – scri­vere la storia reale dei rapporti di produzione.

Le condizioni originarie della produzione non possono essere prodotte esse stesse. Proprietà [<=] significa, originariamente, nient’altro che il rapporto del­l’uomo con le condizioni naturali della produzione in quanto gli appartengo­no, presupposte con la sua stessa esistenza, rapporto con esse in quanto pre­supposti naturali. Originariamente, dunque, proprietà significa rapporto del soggetto che lavora, produce e si riproduce, con le condizioni oggettive della sua produzione o riproduzione in quanto gli appartengono. Non è l’unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali del loro ricambio materiale con la natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato di un pro­cesso storico, ma la separazione di queste condizioni oggettive dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente sol­tanto nel rapporto tra lavoro salariato e capitale. La tendenza costante e la legge di sviluppo del modo di produzione capitalistico è di separare in grado sempre maggiore i mezzi di produzione dal lavoro e di concentrare progressi­vamente in larghi gruppi i mezzi di produzione dispersi, trasformando con ciò il lavoro in lavoro salariato ed i mezzi di produzione in capitale.

Questi sono i presupposti storici necessari per trovare il lavoratore come lavoratore salaria­to, come lavoratore libero – libero in due sensi: libero dagli antichi rapporti di servitù o di dipendenza personale, e inoltre libero da ogni forma di esistenza oggettiva e materiale, libero da ogni proprietà – ossia, come capacità lavorati­va puramente soggettiva che si contrappone alle condizioni oggettive della produzione come alla sua non proprietà, come a proprietà altrui, a capitale. Si presuppongono processi storici che consistono nella separazione di ele­menti uniti, condizioni oggettive della produzione e del lavoro – terra, materia prima, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro, denaro, o tutto ciò insieme – dal lavoro stesso, dal loro tradizionale legame con gli individui che ne sono stati poi staccati. Ciò presuppone un processo di dissoluzione il cui risultato non è la scomparsa di uno degli elementi, ma la comparsa di ciascuno di que­sti in una relazione negativa con l’altro, in cui siano mutate soltanto le condi­zioni della loro proprietà e del loro modo di esistenza. Si considera un proces­so storico che abbia reso la massa dell’umanità affatto priva di proprietà e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, separando il lavoratore libero (potenzialmente) da una parte e il capitale (potenzialmente) dall’altra. La separazione delle condizioni ogget­tive dalle classi che sono state trasformare in lavoratori liberi, salariati, deve presentarsi altresì come autonomizzazione di queste stesse condizioni al polo opposto.

La storia di ogni società esistita finora è storia di lotte di classe [<=]. Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in diversi ordini, una molteplice graduazione delle posizioni so­ciali: liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, e per di più anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. Per il solo fatto che è una classe e non più un ordine, la borghesia è costretta a organizzarsi non più localmente ma nazionalmente, e a dare una forma generale al suo interesse. Dalle numerose borghesie locali delle singole città sorse assai lentamente la classe borghese, attraverso condi­zioni di vita che erano comuni a tutti i borghesi e indipendenti da ciascun in­dividuo singolo. Con lo stabilirsi dei collegamenti delle singole città queste condizioni comuni si svilupparono per diventare condizioni di classe. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriar­cali, idilliache. Ha dissolto la dignità personale nel valore di scambio e ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfrutta­mento mascherato di illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che erano considerate degne di venerazione e di rispetto: ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in suoi salariati. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare.

Le condizioni economiche poste dal medesimo processo storico avevano dap­prima trasformato la massa della popolazione in lavoratori liberi. La domina­zione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune e interessi comuni. Così questa massa è già in sé una classe nei confronti del capitale, ma non lo è ancora per sé. Nella lotta questa classe si riunisce e si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Quando il proletariato annuncia la dissoluzione dell’ordine esistente, non fa altro che rivelare il segreto della sua propria esistenza, dato che esso è già di fatto la dissoluzione di questo ordine. Quando il proletariato rivendica la negazione della proprietà privata, non fa che innalzare a principio della so­cietà ciò che la società ha innalzato a principio del proletariato. Questa forma storica della proprietà privata è costretta a mantenere in essere se stessa e con ciò il suo termine antitetico, il proletariato: questo è il lato positivo dell’anti­tesi. Invece il proletariato è costretto a negare se stesso e con ciò il termine antitetico che lo condiziona e lo fa proletariato, e cioè la proprietà privata. La classe proprietaria e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoe­straneazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraneazione, sa che l’estraneazione è la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di un’esistenza umana; la seconda si sente annientata nell’estraneazione, vede in essa la sua impotenza, e la realtà di un’esistenza non umana. Essa, per usare un’espressione di Hegel, è nell’abiezione la ribel­lione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura. In seno all’antite­si, dunque, il proprietario privato è il partito della conservazione ed il proleta­rio il partito della distruzione. Il primo lavora alla conservazione dell’antitesi, il secondo alla sua distruzione. La lotta di classe contro classe è una lotta po­litica.

La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello stato. Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volon­tariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrapopolazione relativa tiene la legge della do­manda e dell’offerta di lavoro, e quindi il salario, entro un binario che corri­sponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei bi­sogni del capitale appone il suggello al dominio del capitalista sul salariato. Si continua a usare la forza extraeconomica, immediata, solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose il lavoratore salariato può rimanere affidato alle “leggi naturali della produzione”, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione che viene garantita e per­petuata da esse. I singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi stessi si ri­trovano l’uno di contro all’altro. Quanto più una classe dominante è capace di assimilare gli uomini migliori delle classi dominate, tanto più solida e perico­losa è la sua dominazione. L’organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna a essere spezzata ogni momento.

[k.m.]

 

 

Classi

(analisi e composizione)

Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. L’aristocrazia feudale non è la sola classe che abbia visto le proprie condizioni di vita paralizzarsi e morire nella moderna società borghese. Nella produzione capitalistica, la determinatezza sociale economica dei mezzi di produzione – il fatto che essi esprimano un determinato rapporto di produzione – si è talmente sviluppata insieme all’esi­stenza materiale di questi mezzi di produzione in quanto tali, e ne è così inse­parabile nel modo di pensare della società borghese, che quella determinatez­za (categorica) si applica anche nel caso in cui il rapporto sia direttamente in contraddizione con essa. Il contadino indipendente, o l’artigiano, viene diviso in due persone: in quanto proprietario dei mezzi di produzione è capitalista e in quanto lavoratore è salariato di se stesso, cioè egli sfrutta se stesso come salariato e si paga il plusvalore. Parlando di piccoli contadini, ci si riferisce al proprietario di un pezzetto di terra, non più grande di quello che di regola egli è in grado di lavorare insieme alla sua famiglia. Questo piccolo contadino, al pari del piccolo artigiano, è dunque un lavorato­re che si differenzia dal moderno proletario per il fatto di essere ancora pro­prietario dei suoi mezzi di lavoro; si tratta quindi di una sopravvivenza di un modo di produzione ormai trascorso. Il possesso dei mezzi di produzione da parte dei singoli produttori oggigiorno non fornisce loro più alcuna libertà [<=] reale. L’artigianato nelle città è già andato in rovina. Il piccolo contadino che coltiva direttamente la propria terra non ne ha una proprietà sicura e non è li­bero: è nelle mani degli usurai e la sua esistenza è malsicura.

Nei paesi dove la civiltà moderna si è sviluppata, si è formata una nuova pic­cola borghesia, che oscilla tra il proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte integrante della società borghese. La classe dei pic­coli commercianti e bottegai ha dunque una posizione intermedia. I suoi com­ponenti, però, vedono avvicinarsi il momento in cui spariranno completamen­te come parte autonoma della società odierna e saranno sostituiti nel com­mercio, nella manifattura e nell’agricoltura, da ispettori e agenti salariati. I ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti, gli artigiani, gli agricoltori, i con­tadini, la gente che vive di piccola rendita, tutte queste classi soccombono nella concorrenza con i capitalisti più grandi, perdono il loro valore in con­fronto con i nuovi modi di produzione e combattono la borghesia per salvare dalla rovina la loro esistenza di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora di più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia. La piccola borghesia mira a una trasformazione delle condizioni sociali che le renda possibilmente sopportabile e comoda la società esistente. Essa esige quindi soprattutto una riduzione della spesa statale attraverso una limitazione della burocrazia e il trasferimento delle imposte principali sui grandi proprie­tari terrieri e sulla grande borghesia. Essa esige inoltre l’eliminazione della pressione che il grande capitale esercita sul piccolo, a mezzo di istituti di cre­dito pubblici e di leggi contro l’usura, cosicché a essa e ai contadini divenga possibile ottenere prestiti a condizioni vantaggiose.

Quanto al sottoproletariato, che rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato nel movimen­to da una rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettersi al servizio di mene reazio­narie. Questo mazzo di elementi squalificati di tutte le classi, che pianta il suo quartier generale nelle grandi città, è il peggiore di tutti i possibili alleati. Una parte della borghesia desidera portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese. [I membri dell’intellighentsia sono divisi dal proletariato anche a causa della loro ideologia. Provenendo da àmbiti borghesi, essi portano con sé una concezione borghese del mondo, che è stata ulteriormente rafforzata dal loro studio teorico. (a.p.)]. Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficienza, i membri delle società protettrici degli animali, i fondatori delle società di temperanza, filosofi, semifilosofi e begli spiriti, e tutta la variopinta schiera dei minuti ri­formatori. Lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento conti­nuo del capitale collocato in un’impresa, e la concorrenza impone a ogni capi­talista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Con lo sviluppo della produzione capitalistica la scala della produzione viene determinata in grado sempre maggiore dal vo­lume del capitale, dall’impulso di valorizzazione e dalla necessità della conti­nuità e dell’ampliamento del processo di produzione. Nella misura in cui si sviluppano la produzione e l’accumulazione capitalistica, si sviluppano la concorrenza e il credito. La centralizzazione [<=] completa l’opera dell’accumula­zione e la cresciuta dimensione costituisce ovunque il punto di partenza di una più ampia organizzazione del lavoro complessivo di molti.

La produzione capitalistica stessa ha fatto sì che il lavoro di direzione, com­pletamente distinto dalla proprietà del capitale, vada per conto suo; le società per azioni, sviluppatesi con il sistema creditizio, hanno in generale la tenden­za a separare sempre più questo lavoro di amministrazione. Il salario di am­ministrazione appare completamente distinto dal guadagno d’imprenditore. Tuttavia si sviluppa nelle società per azioni un nuovo imbroglio per quanto riguarda il salario d’amministrazione, poiché accanto e al di sopra del dirigen­te effettivo si presentano una quantità di consiglieri di amministrazione e di controllo, per i quali in realtà amministrazione e controllo diventano semplice pretesto per depredare gli azionisti e arricchire se stessi. Che “l’anima del no­stro sistema industriale” non siano i capitalisti industriali ma i dirigenti (ma­nagers) è già stato messo in rilievo dal sig. Ure. È diventato dunque inutile che questo lavoro di direzione venga esercitato dal capitalista. Si sa che un direttore d’orchestra non ha affatto bisogno di essere proprietario degli strumenti dell’orchestra, come pure che non appartiene alla sua funzione di direttore di oc­cuparsi in qualche modo del “salario” degli altri musicisti. Ma poiché il sem­plice dirigente, che non possiede il capitale sotto alcun titolo, esercita tutte le funzioni effettive, rimane unicamente il funzionario. Le diverse forme di questo lavoro sono un momento necessario del processo capitalistico di produzione nella sua totalità, in cui esso comprende anche la circolazione [<=], o è da essa compreso. Le contraddizioni sviluppate nella circo­lazione delle merci, e più ampiamente nella circolazione del denaro, si ripro­ducono da sé nel capitale, poiché di fatto solo sulla base del capitale ha luogo una sviluppata circolazione di merci e denaro. Nell’essenza della produzione capitalistica è insita quindi una produzione senza riguardo ai limiti del merca­to. La circolazione del capitale è la metamorfosi che il valore subisce attra­versando diverse fasi. Le spese di circolazione si risolvono nelle spese che sono necessarie per realizzare il valore delle merci, per trasformarlo da merci in denaro.

La natura del capitale e della produzione basata su di esso consiste in questo: che il tempo di circolazione diventa un momento determinante ai fini del tem­po di lavoro. Il tempo che questo processo dura o costa a essere impiantato, appartiene ai costi di produzione della circolazione, alla produzione basata sullo scambio, sulla divisione del lavoro. Il tempo di lavoro che i capitalisti industriali perdono vendendosi fra di loro le merci non muta di carattere per il fatto che esso viene a gravare sul commerciante anziché sul capitalista indu­striale. Quando l’estensione degli affari impone o mette loro in grado di as­soldare come lavoratori salariati propri agenti della circolazione – cioè quan­do i capitalisti anziché compiere essi stessi quel lavoro ne fanno l’affare esclusivo di terze persone da essi pagate – sostanzialmente il fenomeno non è mutato. Mediante la divisione del lavoro, una funzione che è un momento ne­cessario della riproduzione viene trasformata da un’occupazione accessoria di molti nell’occupazione esclusiva di pochi. Forza-lavoro e tempo di lavoro de­vono essere spesi in certo grado nel processo di circolazione. Il tempo e il la­voro usato per portare a compimento il prodotto costituiscono delle condizio­ni di produzione. Il non-tempo di lavoro nella produzione costituisce una con­dizione del tempo di lavoro, una condizione per fare realmente di quest’ulti­mo il tempo di produzione.

Il capitale sborsato in questi costi – compreso il lavoro da esso comandato – appartiene ai “falsi costi” della produzione capitalistica. Cresce necessaria­mente la massa del prodotto che si trova sul mercato come merce, cresce la massa di capitale fissata più o meno a lungo nella forma di capitale-merce, e la maggior parte della società si trasforma in lavoratori salariati. Anche se i diversi produttori scientifici o artistici, artigiani o professionisti, lavorano per un capitale comune, in un rapporto che non ha niente a che fare col modo di produzione capitalistico vero e proprio, ciò d’altra parte non impedisce nem­meno che il rapporto in cui si trova ognuna di queste persone presa singolar­mente sia quello del salariato rispetto al capitale, in cui scambiano immedia­tamente il lavoro col denaro in quanto capitale. Tutti questi momenti proven­gono dalla forma della produzione e dal mutamento di forma in esso contenu­to. Con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificamente capitalistico, il vero funzionario del pro­cesso lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sem­pre più socialmente combinata. Le diverse forze-lavoro cooperanti partecipa­no in modo diverso al processo di produzione e valorizzazione – chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto col cervello, chi come direttore, ingegne­re, tecnico, ecc., chi come sorvegliante, manovale o semplice aiuto.

Per effetto dello sviluppo della forza produttiva del lavoro il reddito cresce a tal punto che il borghese ha bisogno di più “servitori” di prima: questa pro­gressiva trasformazione di una parte degli operai in servi è una bella prospet­tiva! Sulla nuova base – in cui è necessario meno lavoro vivo in rapporto a quello passato – anche i lavoratori esclusi e pauperizzati, e la parte dell’incre­mento della popolazione [<=], o vengono assorbiti dall’ampliamento degli affari nelle stesse industrie o in nuovi settori di occupazione aperti dal nuovo capita­le e che soddisfano nuovi bisogni: questa è la seconda bella prospettiva, per cui la classe lavoratrice deve sopportare tutti gli inconvenienti temporanei – licenziamenti e mobilità – ma senza che ciò ponga fine al lavoro salariato, che anzi viene riprodotto su scala sempre crescente. L’abbassamento del co­sto dei bisogni vitali immediati consente di ampliare l’ambito della produzio­ne di lusso, cosicché gli operai hanno questa terza bella prospettiva: che, per procurarsi la stessa quantità dei loro oggetti di prima necessità, metteranno in grado le classi più elevate di estendere, raffinare e diversificare l’àmbito dei godimenti di costoro, e di approfondire così l’abisso economico, sociale e po­litico che li separa da quelli che stanno meglio di loro. Queste sono le contraddizioni da cui deriva il continuo accrescimento delle nuove classi medie che si trovano nel mezzo tra lavoratori da una parte e capi­talisti e proprietari fondiari dall’altra, che si nutrono direttamente in sempre maggior ampiezza del reddito nazionale e che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice, aumentando la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila sovrastanti.

Tra la borghesia e il proletariato esistono numerosi strati intermedi i quali progressivamente, con gradazioni quasi impercettibili, conducono da una classe all’altra. In parte si tratta di classi di recente formazione, di ufficiali e sottufficiali degli eserciti industriali: da capi-officina e tecnici, attraverso in­gegneri, dottori, capi-ufficio su fino ai direttori, essi costituiscono una catena ininterrotta di funzionari; negli strati inferiori essi fanno parte degli sfruttati, in quelli più elevati essi partecipano allo sfruttamento. In modo differente dai residui del vecchio ceto medio indipendente, la cosiddetta nuova classe media – l’intellighentsia, i funzionari, gli impiegati del settore privato – costituisce quello strato intermedio. Esso si differenzia dal vecchio ceto medio, piccola borghesia, in un punto importante: non è proprietario dei mezzi di produzio­ne, vive invece della vendita della propria forza-lavoro. Esso è una classe moderna, in ascesa, che con lo sviluppo sociale diviene sempre più numerosa e rilevante. La sua forza-lavoro è altamente qualificata; la sua retribuzione è considerevolmente più elevata; i suoi membri occupano posizioni dirigenti e scientifiche, da cui dipende il profitto d’impresa. [a.p.].

Numerose funzioni e attività che un tempo erano circondate da un alone sa­cro, si trasformano da una parte in lavoro salariato, per quanto diversi ne sia­no il contenuto e la remunerazione, dall’altro cadono – per il calcolo del loro valore, del prezzo delle diverse prestazioni, dalla prostituta al re e al papa – sotto l’impero delle leggi che regolano il prezzo del lavoro salariato. Queste occupazioni trascendenti, venerande – il sovrano i giudici, gli ufficiali, i preti, ecc., l’insieme degli antichi ordini ideologici che le producono, i loro dotti, maestri e preti – vengono equiparati, dal punto di vista economico, alla folla dei loro lacchè e dei loro buffoni che viene mantenuta dalla ricchezza oziosa. Essi sono semplici “servitori” pubblici, vivono del prodotto del lavoro altrui, appartengono alle spese di circolazione, appaiono come “falsi costi” di pro­duzione. Ma alla grande massa dei cosiddetti lavori “superiori” – come i funzionari sta­tali, i militari, gli artisti, i medici, i preti, i magistrati, gli avvocati, ecc. – al­cuni dei quali sono sostanzialmente distruttivi e però sanno come appropriarsi di una grandissima parte della ricchezza “materiale”, un po’ vendendo le loro merci “immateriali” un po’ imponendole con la forza, non è gradito affatto di essere relegati, dal punto di vista economico, nella stessa classe dei buffoni e dei servitori, e di apparire, rispetto ai produttori veri e propri e agli agenti del­la produzione, come semplici consumatori e parassiti.

Tuttavia, in quanto essi divengono o perfino si rendono necessari – sia per le infermità fisiche (come i medici), sia per le debolezze spirituali (come i preti), sia per il conflitto tra gli interessi privati e gli interessi nazionali (come gli impiegati statali, gli avvo­cati, i magistrati, i poliziotti, i soldati) – la società borghese impara dall’espe­rienza che la necessità, ereditata dal passato, della combinazione sociale di tutte queste classi deriva dalla sua propria organizzazione. Lo stato, la chiesa, ecc., sono giustificati solo nella misura in cui sono comitati d’amministrazio­ne o di gestione degli interessi comuni dei borghesi produttivi. Cosicché la società borghese produce di nuovo, nella sua propria forma, tutto ciò che essa aveva combattuto nella forma feudale o assolutistica. Essa si pre­senta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria [<=], una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di pro­getti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni, ecc. Tanto i fannulloni quanto i loro pa­rassiti dovevano trovare il loro posto nel miglior ordinamento possibile del mondo.

[f.e.-k.m.-a.p.]

(le considerazioni marxiane ed engelsiane sul concetto di classe sono tratte da vari testi: capp. 23 e 24 del I libro del Capitale, cap. 6 del II, capp. 23 e 27 e, naturalmente, cap. 52 (Le classi) del III, laddove “il manoscritto si interrom­pe”; appendice 4 del I volume delle Teorie del plusvalore e capp. 17 e 18 del II volume; VI capitolo inedito; quaderno V e VI dei Lineamenti fondamentali; prima sezione dell’Ideologia tedesca, prima parte della Sacra famiglia, Criti­ca della filosofia del diritto, Miseria della filosofia, La questione contadina in Francia e in Germania e, ovviamente, Manifesto del partito comunista; gli inserti sulle “nuove classi medie” sono tratti da Anton Pannakœk, Le diffe­renze tattiche nel movimento operaio)

 

 

Colpi di stato e rivoluzioni

(forme di insurrezione e rivolte)

Il colpo di stato è una forma di violenza, politica o pure militare, mirata al cambiamento di un governo in carica. Ciò che distingue il colpo di stato dalla rivoluzione, ma in diversa misura anche dalla guerra civile, dalla guerra rivoluzionaria e dalla guerra insurrezionale, è perché si tratta comunque sempre di un conflitto tra due gruppi della stessa classe dominante. La terminologia spesso usata di golpe deriva la sua origine dalle lingue ispaniche, soprattutto per l’uso fattone in America latina con una quasi esclusiva commistione dell’a­spetto militare con quello politico [di qui anche il termine pronunciamiento del capo dei golpisti]. Diffusosi sempre più nel secondo dopoguerra in Medioriente, in Africa e in Asia, anche in Europa si sono avuti “colpi di stato” [a es., in Francia (1958) con la ripresa del governo da parte di de Gaulle, in Grecia (1967) con l’avven­to della giunta militare dei “colonnelli”, o in Portogallo (1974) con la destituzione di Salazar]. Dopo l’avvento del fascismo, che non fu affatto una “rivoluzione” come blaterano i suoi fautori, né vide alla sua nascita una “guerra civile” (come avvenne in Spagna) che invece si verificò solo per la sua fine, ma un colpo di stato ordito da Benito Mussolini e dal re Vittorio Emanuele iii di Savoia – altri tentativi parzialmente falliti si sono verificati anche in Italia, con le aspirazioni golpiste di Tambroni, De Lorenzo, Miceli, Gelli, ecc. con i vari “piano Solo”, P.2. e così via. In tutti questi casi la classe dominante borghese, in perfetta continuità, era sempre la medesima.

Le guerre rivoluzionarie, al contrario, possono essere definite tali soltanto se siano caratterizzate dal fatto di puntare a colpire e abbattere il sistema di potere dominante e la classe proprietaria che lo incarna, non solo il governo: in particolare nel mondo moderno l’obiettivo attuale può essere unicamente il superamento del mo­do di produzione capitalistico bor­ghese. Tutte le forme insurrezionali non aventi tale scopo esplicito sono ascrivibili a rivolte o ribellioni, perché non mirano direttamente a capovolgere i rapporti di potere e di proprietà. A margine di un’attivi­tà capace di preludere a una “rivoluzione”, simili forze possono tatticamente appoggiare le “guerre di liberazione nazionale”, in quanto guerre insurrezionali per l’autonomia di un popolo dal giogo di una potenza coloniale straniera, o di rivolta contro l’accettazio­ne da parte del potere interno del–l’oc­cupazione straniera, o sempre all’in­terno per la lotta contro i governi dispotici di stati sovrani.

Ma, appunto, in tutti codesti casi non si può ancora parlare correttamente di rivoluzione o di guerra rivoluzionaria; perciò sono da considerarsi poche le guerre “rivoluzionarie” paragonabili alla Rivoluzione francese del 1793, e magari dopo ancora nel xix secolo al tentativo abortito della Comune di Parigi (1871); mentre gli episodi, a es. del 1848 in Europa segnarono solo “un traballamento superficiale” perché – come precisò Marx contro il “colpo di stato” di Na­poleone iii – “lo spettro soltanto della rivoluzione fece la sua apparizione”. Perciò si è dovuto aspettare per riferirsi, nel xx sec., alle due grandi rivoluzioni (incompiute negli anni successivi) russa (1917) e cinese (1949). Anche le guerre iniziate per l’indi­pendenza nazionale in Algeria, contro la Francia (1954-1962), e a Cuba, contro il regime legato agli Usa di Batista (1956-1959), assunsero strada facendo parziali e provvisori riferimenti a un carattere rivoluzionario, in quanto sviluppatesi in riferimento al socialismo. Si sono avuti nel mondo moderno alcuni altri movimenti rivoluzionari la cui attività però è stata contenuta o soffocata.                       

[* .*]

(da Enciclopedia Treccani)

 

 

Colpo di stato

(frammento di storia contemporanea)

Qui si tratta di dimostrare, nel corso di uno sviluppo di parecchi anni (1848-1850), altrettanto critico quanto caratteristico per tutta l’Europa, l’intimo nesso causale e quindi, secondo il concetto di Marx, di ricondurre gli avvenimenti politici all’a­zione di cause in ultima istanza economiche. Nel giudicare avvenimenti e serie di avvenimenti della storia contemporanea non si sarà mai in condizione di risalire sino alle cause economiche ultime. Persino oggi che la stampa tecnica specializzata fornisce un materiale così ricco, non è possibile seguire giorno per giorno il corso del mercato mondiale e i mutamenti che sopravvengono nei metodi di produzione, in modo da poter in qualsiasi momento fare il bilancio generale di questi fattori multiformi, complessi e in continua mutazione, fattori di cui i più importanti, inoltre, agiscono a lungo e in modo latente prima di erompere improvvisamente e violentemente alla superficie.

Una netta visione della storia economica di un periodo determinato non può mai formarsi contemporaneamente, ma soltanto successivamente, dopo che sia stato raccolto e studiato il materiale. La statistica è qui un ausilio necessario e arriva sempre in ritardo. Per la storia contemporanea corrente si è quindi costretti anche troppo spesso a considerare questo fattore, che è il più decisivo, come costante, ad assumere come data e immutabile per l’intero periodo la situazione che si riscontra all’inizio del periodo considerato, o a prendere in considerazione soltanto quei mutamenti di questa situazione che sgorgano da avvenimenti che sono manifesti e che perciò si presentano essi pure in modo aperto. Il metodo materialista dovrà perciò limitarsi anche troppo spesso a ricondurre i conflitti politici a lotte di interesse delle classi sociali e delle frazioni di classe preesistenti, determinate dalla evoluzione economica e a ravvisare nei singoli partiti politici l’espressione politica più o meno adeguata di queste stesse classi o frazioni di classe. È evidente che tale inevitabile negligenza di quei mutamenti della situazione economica – base vera di tutti gli avvenimenti che si devono indagare – che si producono durante gli avvenimenti stessi, non può essere che una fonte di errori. Ma tutte le condizioni di una esposizione sintetica della storia contemporanea racchiudono in sé inevitabilmente fonti di errori, il che però non impedisce a nessuno di scrivere la storia contemporanea.

Marx, a partire dalla primavera del 1850, ebbe nuovamente agio di dedicarsi agli studi economici e si accinse innanzi tutto allo studio della storia economica degli ultimi dieci anni. In questo modo gli risultò completamente chiaro dai fatti stessi ciò che sino allora egli aveva ricavato in modo quasi aprioristico da materiali insufficienti: che la crisi commerciale mondiale del 1847 era stata la vera madre delle rivoluzioni di febbraio e di marzo e che la prosperità industriale ristabilitasi a poco a poco dalla metà del 1848 e giunta al suo apogeo nel 1849 e nel 1850, fu la forza che dette vita e nuovo vigore alla reazione europea. La rassegna storica fatta da Marx e da me [cfr. Neue Rheinische Zeitung, autunno del 1850 (maggio-ottobre)], rompe una volta per sempre con l’illusione di una prossima ripresa di energia rivoluzionaria: “una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi”.

Immediatamente dopo il colpo di stato di Luigi Napoleone del 2 dicembre 1851, Marx prese nuovamente in esame la storia della Francia dal febbraio 1848 sino a questo avvenimento, il quale poneva temporaneamente un termine al periodo rivoluzionario [cfr. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte]. L’unanimità dei partiti operai di tutto il mondo riassume brevemente la sua rivendicazione della trasformazione economica: l’ap­propriazione dei mezzi di produzione da parte della società. A proposito del “diritto al lavoro”, che viene designato come “prima formulazione goffa in cui si riassumono le rivendicazioni rivoluzionarie del proletariato”, si dice: “ma dietro al diritto al lavoro sta il potere sul capitale, dietro al potere sul capitale sta l’appropria­zione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia associata e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci”. Il socialismo operaio moderno si distingue nettamente tanto da tutte le diverse sfumature di socialismo feudale, borghese, piccolo-borghese, ecc., quanto dalla confusa comunità dei beni del comunismo utopistico e del comunismo operaio primitivo. Già ora i mezzi di distribuzione in possesso della comunità, dello stato o del comune noi li vogliamo appunto abolire.

Era naturale e inevitabile che le nostre concezioni della natura e dello sviluppo della rivoluzione “sociale” proclamata a Parigi nel febbraio 1848, della rivoluzione del proletariato, fossero fortemente colorite dai ricordi dei modelli del 1789-1830. E special­mente quando il sollevamento di Parigi trovò la sua eco nelle insurrezioni vittoriose di Vienna, Milano, Berlino, quando tutta l’Europa sino alla frontiera russa venne trascinata nel movimento; quando poi in giugno a Parigi venne combattuta la prima grande battaglia per il potere tra il proletariato e la borghesia; quando la vittoria stessa della propria classe scosse a tal punto la borghesia di tutti i paesi che essa si rifugiò di nuovo nelle braccia della reazione feudale monarchica poco prima rovesciata, date le condizioni di allora non poteva più esistere per noi nessun dubbio che era scoppiata la grande lotta decisiva e che questa lotta doveva venir combattuta in un solo periodo rivoluzionario di lunga durata e pieno di alternative.

Dopo la sconfitta del 1849 non condividemmo in nessun modo le illusioni della democrazia volgare raccolta attorno ai governi provvisori futuri in partibus [infidelium, nelle terre occupate dagli infedeli]. Questa contava su una vittoria rapida, decisiva una volta per tutte, del “popolo” sugli “oppressori”; noi su una lotta lunga, dopo l’eliminazione degli “oppressori”, tra gli elementi contraddittori che si celavano precisamente in questo “popolo”. La democrazia volgare aspettava la nuova esplosione dall’og­gi al domani; noi dichiaravamo già nell’autunno 1850 che almeno il primo capitolo del periodo rivoluzionario era chiuso e che non vi era da aspettarsi nulla sino allo scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per questo fummo messi al bando come traditori della rivoluzione da quegli stessi che in séguito fecero tutti, quasi senza eccezione, la pace con Bismarck, nella misura in cui Bismarck trovò che ne valeva la pena.

Anche la nostra concezione d’allora era una illusione. La storia è andata anche più lontano; essa non ha soltanto demolito il nostro errore di quel tempo; essa ha pure sconvolto radicalmente le condizioni in cui il proletariato ha da lottare. Il modo di combattere del 1848 è oggi sotto tutti gli aspetti antiquato e questo è un punto che in questa occasione merita di essere esaminato più da vicino. Tutte le passate rivoluzioni hanno condotto alla sostituzione del dominio di una classe con quello di un’altra; ma sinora tutte le classi dominanti erano soltanto piccole minoranze rispetto alla massa del popolo dominata. Una minoranza dominante veniva rovesciata, un’altra minoranza prendeva il suo posto al timone dello stato e rimodellava le istituzioni politiche secondo i propri interessi.

E ogni volta si trattava di quel gruppo di minoranza che le condizioni dello sviluppo economico rendevano atto e chiamavano al potere. Appunto per questo e soltanto per questo avveniva che la maggioranza dominata partecipava al rivolgimento schierandosi a favore di quella minoranza, op­pure si adattava tranquillamente al rivolgimento stesso. Ma se prescindia­mo dal contenuto concreto di ogni caso, la forma comune di tutte quelle rivoluzioni consisteva nel fatto che esse erano tutte rivoluzioni di minoranze. Anche quando la maggioranza prendeva in esse una parte attiva, lo faceva soltanto, coscientemente o no, al servizio di una minoranza; questo fatto però, o anche solo il fatto del­l’atteggiamento passivo e della mancanza di resistenza della maggioranza, dava alla minoranza l’apparenza di essere rappresentante di tutto il po­polo. La minoranza vittoriosa in generale si scindeva: una metà era soddisfatta dei risultati raggiunti, l’altra voleva andare più avanti e presentava nuove rivendicazioni. Il partito più moderato prendeva di nuovo il sopravvento e le ultime conquiste andavano in tutto o in parte perdute di nuovo. Tutte le rivoluzioni dell’età moderna hanno presentato que­sti lineamenti, che sembravano inseparabili da ogni lotta rivoluzionaria.

E sembrava che essi fossero da applicarsi anche alle lotte del proletariato per la sua emancipazione; tanto più applicabili in quanto proprio nel 1848 si potevano contare sulle dita coloro che comprendevano anche solo in una certa misura in quale direzione si dovesse cercare questa emancipazione. Persino a Parigi, anche dopo la vittoria, le stesse masse proletarie non avevano nessuna idea chiara circa la via da battere. Eppure il movimento esisteva, istintivo, spontaneo, insopprimibile. Non era proprio quella la situazione in cui doveva vincere la rivoluzione, diretta bensì da una minoranza, ma questa volta non nell’in­teresse della minoranza, bensì nel più genuino interesse della maggioranza?

In tutti i periodi rivoluzionari un po’ lunghi si erano potute guadagnare, così, facilmente le grandi masse popolari anche solo mediante plausibili miraggi presentati loro dalle minoranze che le spingevano avanti, ma che non erano altro che l’espressione chiara, razionale, dei loro bisogni, da loro stesse ancora incompresi, sentiti soltanto in modo ancora confuso. Questo stato d’animo rivoluzionario delle masse aveva lasciato il posto quasi sempre, e per lo più molto presto, a uno spossamento e si era persino trasformato nel suo contrario, non appena, svanita l’illusione, era subentrato il disinganno. E presto, nel corso della realizzazione pratica (nella primavera del 1850) lo sviluppo della repubblica borghese sorta dalla rivoluzione “sociale” del 1848, aveva con­centrato il vero potere nelle mani della grande borghesia e per contro aveva raggruppato tutte le altre classi sociali, i contadini come i piccoli borghesi, attorno al proletariato.

La storia ha mostrato chiaramente che lo stato dell’evoluzione economica sul continente era allora ancor lun­gi dall’esser maturo per l’eliminazio­ne della produzione capitalista; e se anche il potente esercito del proletariato non ha ancora raggiunto la meta, anche se esso, lungi dal conseguire la vittoria con una sola grande battaglia, deve progredire, lentamente, di posizione in posizione, con una lotta dura e tenace, ciò dimostra una volta per sempre come fosse impossibile conquistare la trasformazione sociale del 1848 con un semplice colpo di sorpresa. Una borghesia divisa in due frazioni prima di tutto però desiderava la calma e la sicurezza per i suoi affari pecuniari; di fronte a essa un proletariato vinto, sì, ma ancor sempre minaccioso, attorno al quale si raccoglievano sempre più la piccola borghesia e i contadini; la minaccia continua di un’esplosione violenta, che malgrado tutto non offriva nessuna prospettiva di soluzione definitiva. Tale era la situazione, che si sarebbe detta fatta apposta per il colpo di stato del pretendente pseudodemocratico Luigi Bonaparte.

Con l’aiuto dell’esercito questi pose fine il 2 dicembre 1851 alla situazione tesa e assicurò all’Europa la pace interna, per gratificarla, in cambio, di una nuova era di guerre [Crimea, Austria, Cina, Indocina, Siria, Messico e infine Germania]. Il periodo delle rivoluzioni dal basso era, intanto, chiuso; seguì un periodo di rivoluzioni dal­l’alto. Il ritorno all’impero del 1851 forni una nuova prova dell’im­maturità delle aspirazioni proletarie di quel tempo. Ma quel ritorno stesso doveva creare le condizioni nelle quali queste aspirazioni dovevano ma­turare. La tranquillità all’interno assicurò un pieno sviluppo al nuovo slancio dell’industria; la necessità di dare un’occupazione all’esercito e di distrarre con questioni di politica estera le correnti rivoluzionarie, generò le guerre in cui Bonaparte, col pretesto di far valere il “principio di nazionalità”, cercò di arraffare delle annessioni per la Francia. Il suo imitatore, Bismarck, seguì la stessa politica per la Prussia; fece nel 1866 il suo “colpo di stato”, la sua “rivoluzione dall’alto” contro la Confederazione tedesca e l’Austria, non meno che contro la Konfliktskammer prussiana. Ma l’Europa era troppo piccola per due Bonaparte. Così l’ironia della storia volle che Bismarck abbattesse Bonaparte (1870-1871)

Il periodo viene chiuso, però, dalla Comune di Parigi. Un tentativo sornione di Thiers di rubare alla Guardia nazionale di Parigi i suoi cannoni provocò un’insurrezione vittoriosa. Apparve ancora una volta che a Parigi non è più possibile nessun’altra rivoluzione, che non sia una rivoluzione proletaria. Dopo la vittoria il potere cadde nelle mani della classe operaia da sé, senza la minima opposizione. E ancora una volta apparve quanto questo potere della classe operaia fosse impossibile anche allora, venti anni dopo. La Comune si consumò nella infeconda controversia dei due partiti che la dividevano, dei blanquisti (maggioranza) e dei proudhoniani (minoranza) ignari ambedue del da farsi. Con la Comune di Parigi si credette di aver definitivamente sepolto il proletariato combattente. Ma tutt’al contrario dalla Comune e dalla guerra franco-tedesca data la sua ascesa più poderosa. E l’anniversario della Comune di Parigi divenne il primo giorno di festa generale di tutto il proletariato.                         

[f.e.]

 

 

Comunicazione neocorporativa

Il livello della comunicazione sociale è il livello integrativo di base dell’or­ganismo sociale in quanto universo delle relazioni e interazioni. Comunica­zione neocorporativa intendiamo che sia, invece, l’universo delle tecniche, dei modelli, dei mezzi e dei rapporti della comunicazione sociale, governati e condizionati dalle necessità e dagli interessi e dalle ideologie di dominio so­ciale del capitale [<=] [formalmente democratico nella fase attuale generale, di ti­po neocorporativo [<=] per il carattere della gestione dei conflitti sociali da parte della triade stato-industriali-sindacati]. La comunicazione è il livello privilegiato del “controllo sociale” e dunque dell’unificazione sociale attorno allo stesso capitale democratico neocorpora­tivo. Specificamente, essa può intendersi come, approssimativamente, il “cir­colo”, l’integrazione e lo “scambio” dei messaggi tra le diverse componenti e i diversi gruppi dell’organismo sociale. Ora, essendo le tecniche i modelli e i mezzi della comunicazione governati dagli interessi del capitale, ne ricaviamo che allora il “circolo” dei messaggi avviene tramite la mediazione [<=] materiale e ideologica di esso.

In questo senso la comunicazione neocorporativa (i suoi modelli, mezzi e rapporti) è funzione del potere sociale capitalistico. Alla notazione di quanti affermano che “oggi un paese appartiene a chi controlla le comunicazioni”, noi aggiungiamo – per precisazione senza la quale l’asserzione diventa generica e indeterminata – che le comunicazioni in un organismo sociale le controlla chi controlla i mez­zi ed i rapporti economici di produzione, cioè, nel nostro organismo, il capita­le democratico neocorporativo, nella sua forma finanziaria transnazionale. Infatti, in realtà, i mezzi di produzione economica finiscono con l’essere an­che i mezzi di produzione della comunicazione, e i rapporti sociali di comuni­cazione sono – in quanto fondati sulla proprietà capitalistica dei mezzi di pro­duzione della comunicazione – omologhi e interni ai rapporti economici di produzione. Diciamo più precisamente, allora, che i rapporti di comunicazio­ne hanno la peculiarità di essere rapporti economico-sociali di produzione e circolazione della comunicazione. Ed è in questo senso determinato che la comunicazione neocorporativa è funzione storico-sociale del capitale. I punti chiave, quindi, di ogni discorso sulla comunicazione, sono: a) la “proprietà privata” (capitalistica) dei mezzi di produzione e circolazione della comuni­cazione; b) l’essere, la comunicazione neocorporativa, una funzione del capi­tale, in quanto livello privilegiato del controllo sociale e della organizzazione-manipolazione del consenso. 

[n.g.]

 

 

Comunicazione postmoderna

“Comunico dunque sono”. In una semplice proposizione potremmo racchiu­dere l’ontologia dell’essere sociale contemporaneo, o “postmoderno” come al­tri amano specificare, nella società cosiddetta dello spettacolo. Di fronte a ciò, se a destra predomina il tono apologetico, “asinistra” – ci riferiamo più che altro agli “intellettuali” – si racconta, suggerendo così una presunta insuffi­cienza o vecchiezza del metodo conoscitivo e critico materialista, che oramai domina l’astrazione della funzione comunicativa ed i legami sociali si sono “dematerializzati”. “Bisogna ridefinire le categorie interpretative”, così dico­no... Il tema della comunicazione può in qualche modo essere qui assunto come punto di partenza analitico, con la specificazione che, parafrasando il linguag­gio [<=] degli apostoli del postmodernismo, al livello delle comunicazioni di mas­sa la funzione comunicativa oggi eccede la determinazione e l’applicazione del criterio di verità, avendo l’effetto spettacolare e la semplificazione del ragionamento azzerato, fino al non sense, la qualità del valore d’uso, in termi­ni di conoscenza, della comunicazione stessa. Agli utenti dei cosiddetti mass media viene offerta un’immane accumulazione di immagini e di informazioni legate insieme da codici interpretativi preconfezionati che di un processo co­noscitivo reale non offrono che surrogati pubblicitari o propagandistici. Qui di seguito si esaminano aspetti legati al primo dei due “surrogati”.

Non è solo la modalità d’uso di quell’attrezzo comunicativo che si chiama te­levisione la causa dei guai sopraggiunti nell’ambito della comunicazione. È che tutti gli ambiti del vivere sociale sono stati pervasi dal sistema organizza­tivo che i tecnici del modo di produzione capitalistico hanno modellato per comprimere i tempi ed elevare l’intensità di funzionamento del circuito produzione-circolazione-consumo delle merci, onde abbassare i costi di pro­duzione in termini di tempo di lavoro, di giacenza delle merci, di mediazione tra produzione e consumo, di intensità d’uso degli strumenti di produzione. Sistema organizzativo con il quale i tecnici sopracitati tentano di lenire gli ef­fetti della crisi [<=] della produzione standardizzata di massa. Tale sistema necessita, per espandersi e riprodursi, di abbeverarsi, dalla fonte dei produttori / consumatori di merci, di integrazione, partecipazione [<=], flessi­bilità [<=], consenso [<=], la cui coercizione è esplicata nelle formule con cui si indica l’alienazione di qualsivoglia coscienza di sé e per sé dei soggetti sociali inte­grati, partecipanti, flessibilizzati e consenzienti, degradati al ruolo socialmen­te decerebrato di “capitale umano”, “capitale di fiducia”, “risorse umane” e via elencando tutta la nomenclatura e l’aggettivazione in uso per indicare, oc­cultandolo con formule linguistiche tecnicamente neutre, il pieno controllo materiale ed intellettuale sui tempi di lavoro e di non lavoro delle classi subal­terne da parte del capitale.

I circuiti dell’informazione sono parte centrale di questo meccanismo produt­tivo e riproduttivo, in quanto veicolano in tempo reale modelli comportamen­tali e ideali funzionali agli standard di adeguamento alle modalità di produ­zione e di consumo che il ciclo dell’accumulazione capitalistica di volta in volta richiede. E siccome il ciclo per rigenerarsi ed espandersi necessita del rapido e continuo superamento degli standard esistenti, i ritmi si fanno sem­pre più serrati. Questi ritmi di produzione, circolazione e consumo delle mer­ci e delle informazioni sono i ritmi dei soggetti reali nella società contempo­ranea. Al tempo sempre più intenso del lavoro – “sessanta minuti di pieno la­voro per ogni ora di ogni lavoratore”, per dirla con le parole dei manager del­la qualità totale giapponese, sì da cogliere immediatamente dove risiede la “qualità” – succede senza soluzione di continuità il tempo sempre più vortico­so del consumo.

La forma di merce [<=] e le esigenze del processo di valorizzazio­ne del capitale cui essa è funzionale pervadono ogni anfratto del vivere socia­le. Niente pare essere in grado di resistere alla performatività del sistema, si­stema caratterizzato dalla mercificazione totale, ciò che altrimenti è detto “consumismo”. Definizione, quest’ultima, alquanto ideologica: sostituendo arbitrariamente la produzione per il consumo alla produzione per il profitto, essa pone in evidenza l’ambito del mercato [<=], cui tutti afferiscono come acqui­renti (fatte salve le differenze quantitative dell’afferire stesso), laddove la pa­rola profitto richiama immediatamente all’asimmetria sociale che sta dietro il mercato, il dominio e lo sfruttamento di una parte sociale ad opera di un’altra. Eppure sono proprio la natura e le ragioni di questa pervasività del manife­starsi del processo di accumulazione capitalistica ciò di cui gli intellettuali “postmoderni” non ci narrano, presi come sono dall’indagine sui meccanismi ed i circuiti della comunicazione. Il filosofo postmoderno Gianni Vattimo, tanto per fare un esempio illustre, parlando di queste cose nel suo celebre li­bro La società trasparente ha avuto modo di esprimersi come segue: “il pote­re economico è ancora nelle mani del grande capitale. Sarà – non voglio qui allargare troppo la discussione su questo terreno; il fatto è però che la stessa logica del mercato dell’informazione richiede una continua dilatazione di questo mercato, ed esige di conseguenza che tutto diventi in qualche modo oggetto di comunicazione. Questa moltiplicazione vertiginosa della comuni­cazione ... determina il passaggio della nostra società alla postmodernità”.

“Sarà”...?!?

Occorre dunque specificare ulteriormente e cogliere i nessi di causa-effetto di tutto ciò in senso più preciso. Senza di che, come i teorici postmoderni (e molti dei loro antagonisti, che spesso finiscono invischiati nelle trame del proprio obiettivo polemico), ci limiteremmo al senno del post, ovvero all’occultamen­to del “perché” e del “come” si è determinata la situazione che ci troviamo a registrare. Prendiamo l’esempio dell’automobile. Nel momento in cui per lanciare i nuovi modelli “Bravo” e “Brava” la Fiat organizza una kermesse che prevede il riarredo urbano di Torino (36.500 piante fiorite, 6.000 metri di moquette co­lorata, nuovo maquillage a vetrine, autobus, strade, taxi e bottiglie d’acqua minerale servite in bar e ristoranti ...), eventi massmediatici ed un convegno internazionale su “I colori della vita” a cui partecipano studiosi e scienziati provenienti da tutto il mondo e dai più svariati ambiti disciplinari – costo dell’operazione 10 miliardi – ci troviamo in pieno postmoderno, l’àmbito economico diviene tutt’uno con il circuito informativo-spettacolare e la quali­tà del valore d’uso comunicativo si tramuta direttamente in quantità di valore di scambio economico. Insomma, si tratta di vendere automobili e di recla­mizzare il fatto che sono colorate, altro che “i colori della vita”.

Ciò rappresenta però l’esatto contrario del dominio dell’astrazione [<=] della fun­zione comunicativa e dell’immateriale che l’ideologia postmoderna propa­ganda, essendo il verificarsi di questo processo una determinazione prodotta dall’attuale stadio dello sviluppo del modo di produzione capitalistico (non “sarà”...). Durante la fase espansiva del ciclo di accumulazione capitalistica legato alla produzione di automobili Mr. Ford poteva permettersi di dire, a proposito del suo famoso modello T, “possono senz’altro chiederla di qualsia­si colore, purché sia nero”. Paolo Cantarella, amministratore delegato di Fiat Auto, presentando i nuovi modelli “Bravo” e “Brava” ha altresì spiegato che la Fiat “ha abbandonato i grigi topo o fumo di Londra, che poi erano la stessa cosa, perché un auto deve corrispondere il più possibile al carattere di chi la possiede”.

Quello che è importante mettere in luce è che la comparazione tra le due di­chiarazioni – quella di Cantarella e quella di Mr. Ford – riconduce al passag­gio che vi è stato con la saturazione dei mercati conseguente alla crisi [<=], per cui Henry Ford poteva ancora permettersi di riporre la propria fiducia nello svi­luppo progressivo, in termini quantitativi, della produzione e del consumo standardizzati di massa, mentre Cantarella ha per le mani il problema di dover “sfondare” in un settore di mercato – quello che sta tra l’utilitaria e l’auto di lusso – già largamente saturato da Volkswagen, Opel, Audi, ecc.. Ciò che si rende necessario al gruppo Fiat in vista dell’inevitabile esaurirsi della spinta propulsiva di Uno, Y10 e Punto nel settore delle utilitarie. È a questa base materiale che si rende funzionale l’immaterialità della comunicazione spetta­colarizzata, quella targata Fiat nel caso in questione e successivamente gene­ralizzando. Ecco dunque che se la “teoria” la riconduciamo ai “fatti” abbiamo delle speci­ficazioni, dei nessi di causa-effetto ed una comprensione sistematica. In que­sto caso la materialità della crisi di sovraproduzione capitalistica ed i tentativi di risposta che il capitale ad essa dà. 

[pp.f.]

 

 

Comunismo # 1

(ringraziamento per “comunismo ricevuto”)

Non potendo ancora dirne nulla, dato il suo momentaneo rinvio nei prossimi secoli a venire, dovremmo tacerne. Precipitosi però come siamo, per l’urgere emotivo che ci attanaglia pressappoco da un secolo e mezzo, ci buttiamo nella mischia dei sognatori, dei definitori, degli affossatori, dei riaffondatori ecc., che di comunismo se ne intendono, per dire anche noi la nostra. Cos’è il co­munismo? Rivolto a chi lo può intendere, ovvero, a chi non fa lo sfruttatore, una risposta l’ha già data Bertolt Brecht in una lode poetica: “È la semplicità che è difficile a farsi”. Sentimentalmente confortati da questa ragionevole semplicità, il difficile del farsi continua così ad impegnare le forze esistenti, ora potenzialmente sempre più numerose. Innanzitutto è indispensabile eliminare quel sapore impastoiato di “idea rice­vuta” (come direbbe Gustave Flaubert nel Dizionario delle idee comuni). Quel che di “senso comune” affidato all’abitudine di un uso tanto indiscutibi­le quanto “credibile”, proprio come se si trattasse di una verità accettata dalle masse che avrebbero da sempre, invece, dovuto sostanziarla con le loro lotte, altrimenti dette coscienza [<=] storica. Al posto di una dignitosa anche se eterna­mente provvisoria conventio omnium (accordo generale), scopriremmo al con­trario che il “comunismo - ricevuto” è sempre stato (almeno dall’ultimo dopo­guerra in poi) un precotto con gli “avanzi” di ragionamento, disgustosamente appiccicato sulle bandiere scolorite di una storia ridotta a sola etichetta; oppu­re un passe-partout per ogni genere di transazione, una cedola in premio all’i­nerzia, alla convenzionalità gratuita e al compromesso come pratica. L’abuso nominalistico come vacua sonorità (“comunismo, socialismo dal volto uma­no”, ecc.) ha provveduto così alla fessa cristallizzazione del suo concetto, abilmente tramutato in precetto per l’omologazione e il sopimento delle co­scienze che, gaudenti delle progressive semplificazioni, non si avvedevano di dover custodire solo gli spiccioli di un patrimonio che altri avevano già scip­pato, anche nelle traslucide trasparenze.

Il comunismo ha quindi cominciato ad assumere una funzione “gastronomica” nella diffusione comunicativa. Pasto quotidiano da smembrare (vedi “crisi del marxismo, crisi del comunismo, crisi dei paesi dell’est”, ecc.) e far riassimila­re nei brandelli controllabili conditi di trovate ed effetti speciali (“tutto e sùbi­to, riforme di struttura”, ecc.), è servito a richiamare alla tavola dei padroni le nuove forchette, gli ingordi travestiti e trasformisti d’ogni appetito (lèggi: Lama, Trentin, Napolitano, Occhetto, D’Alema ... ma risparmiamo le righe ora). Nella danza multimediale ogni progetto è stato velato da pragmatici pas­si che calcavano il luogo comune (“efficienza, democrazia, ecc.”), ogni idea si è inchinata allo stereotipo che nell’abbraccio mortale la triturava in mito, cliché, slogan, citazione eclettica o collezione per amatori (“pagherete caro pagherete tutto; è ora è ora potere a chi lavora; compromesso storico; rivolu­zione copernicana; zoccolo duro; questione morale”; ecc.). La sempre rinnovabile miseria del comunismo, allora, consiste nel non liqui­dare mai del tutto ciò che le alternate potenze d’occupazione (fascisti doc, “al­leati americani”, Dc, clerico-socialisti o craxiani, tecnici al governo, ecc.) pre­tendono sistematicamente distrutto. Il manierismo socialista, che poi ha nutri­to le fauci della cosca rivale detta “Mani Pulite”, è servito appunto a deviare dalla presa di possesso dei mezzi di produzione un proletariato ampliato (e co­scienzialmente diviso), da consegnare in toto ai vincitori. La guerra del capi­tale contro il comunismo, calda o fredda che fosse, si è così servita prima del concorso delle proprie vittime, poi del loro consenso [<=]. Mentre infatti la guerra [<=] di sterminio procurava prima ambìti posti di lavoro, la sorpresa venne poi quando, in tutto odore di continuità, quella delle “missioni di pace” o della “qualità totale” (ormai anche questa in ribasso) prese ad eliminare quanti po­sti lavorativi voleva. E vuole; sempre di più, per difetto congenito, strutturale – si diceva – del sistema.

Il compianto stereo dei sindacati hi-fi (contratti di “solidarietà”, ecc.) è oggi indispensabile alla tregua. Parte di quella miseria è stata trasformata in “cultura”. Attraverso queste lenti diventa ancor più difficile scorgere la propria morale come deriva di quella che propaganda la “produttività” [<=] e che troneggia incontrastata – con l’obietti­vo di sviluppare in massimo grado l’operosità di “tutti” per “il bene comune” (dei profitti) – solo ed in quanto riuscirà ad inibire la resistenza (si veda l’auto/etero-regolamentazione dello sciopero raggrinzito a “diritto” [<=]) da opporre allo sfruttamento, quest’ultimo sì in costante estensione. La miseria del comunismo “residuale” è quindi non cogliere la coerenza capi­talistica per cui: al crescere del lavoro non pagato crescono i profitti, e, inver­samente, al crescere del consenso sociale cresce solo la forza per abolire il comunismo. La lotta contro l’accaparramento del plusvalore è solo “caos, violenza, terrorismo, ecc.” nell’Olimpo pluralista e bellicoso dei capitali, con­cordi solo su questo. La miseria del “comunismo - ricevuto”, infine, consiste nel saper svendere le proprie forze, perché il prezzo da pagare sembra troppo alto. Le masse, tanto, hanno da sempre l’abitudine di pagare per tutti. Chi sottrae la ricchezza co­mune ha giocato le sue carte per contrabbandare la conoscenza della transi­zione, e quindi la relativa organizzazione politica, con il comunismo della mi­seria. Anche all’interno della sparsa sinistra neocorporativa, la nostra identità nel lottare contro questa miseria diventa sempre di più un identikit.

[c.f.]

 

 

Comunismo # 2

(processo di trasformazione)

Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il punto di vi­sta del materialismo nuovo è la società umana o l’umanità sociale. La dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione dimen­tica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l’una è sollevata al di sopra della società. La coincidenza del va­riare delle circostanze dell’attività, o auto-trasformazione, può essere conce­pita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria. In realtà, per il materialista pratico, per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esi­stente, di mettere mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo. Nell’àmbito della società borghese fondata sul valore di scambio si generano rapporti sia di produzione che commerciali, i quali sono altrettante mine per farla saltare: una massa di forme antitetiche dell’unità sociale, il cui carattere antitetico, tuttavia, non può essere mai fatto saltare attraverso una pacifica metamorfosi. D’altra parte se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è, le condizioni materiali della produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi, tutti i tentativi di farla sal­tare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi.

Le contraddizioni e gli antagonismi della forma capitalistica del processo di produzione preparano gli elementi di formazione di una società nuova e gli elementi di rivoluzionamento della società vecchia. Il furto del tempo di lavo­ro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta allora come base mi­serabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Solo quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata vien lasciata cadere e cede il posto a un’altra più elevata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi [<=] quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica deter­minata dei rapporti di produzione a essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttiva e sviluppo dei loro fattori, dall’altro. Subentra allora un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale. Così non si può pensare a una realizzazione immediata del comunismo (in una prima fase deve andare al potere la borghesia). In generale, il passaggio dei mezzi di lavoro in proprietà sociale comune è certamente il grande obiet­tivo del movimento, e noi diciamo che questo sarà il risultato finale del movi­mento. Ma realizzarlo sarà una questione di tempo, di educazione, di creazio­ne di forme di società più elevate. Il comunismo per noi non è uno stato di co­se che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose pre­sente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esi­stente.

 Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria, come una potenza estranea posta al di fuori di essi, e che segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire. Affinché questa potenza estranea diventi un potere “insostenibile”, cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto “priva di proprietà”, e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni pratiche che presuppongono un grande incremento della forza pro­duttiva, un alto grado del suo sviluppo, in cui è già implicita l’esistenza empi­rica degli uomini sul piano della storia universale. D’altra parte, questo è un presupposto pratico assolutamente necessario, anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria, e quindi col bisogno ricomincerebbe an­che il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia mer­da. Solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi re­lazioni universali tra gli uomini, ciò che produce il fenomeno della massa “priva di proprietà” contemporaneamente in tutti i popoli e fa dipendere cia­scuno di essi dalle rivoluzioni degli altri. Senza di che: i. il comunismo po­trebbe esistere solo come fenomeno locale; ii. le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insoste­nibili, e sarebbero rimaste “circostanze” relegate nella superstizione domesti­ca; iii. ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale.

Il comunismo è possibile empiricamente solo come un’azione dei popoli do­minati tutti in una volta e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica. Mentre noi diciamo ai lavoratori: “Dovete affrontare quindici, venti, cinquant’anni di guerra civile per cambiare i rapporti, per diventare capaci di esercitare il potere”, al posto di queste affermazioni è stato detto: “Dobbiamo impadronirci immediatamente del potere, o se no possiamo anche metterci il cuore in pace”. Come i democratici si riempiono la bocca della parola “popo­lo”, così si è adoperata la parola “lavoratori” come una frase vuota. Per poter mettere in pratica quella frase, si è dovuto dichiarare lavoratore ogni piccolo borghese, e quindi assumere di fatto la rappresentanza dei piccoli borghesi al posto di quella dei proletari. Al posto del processo rivoluzionario reale si è dovuta mettere la “frase” della rivoluzione. In diretto contrasto col Manifesto, vi è chi [alcuni membri della minoranza del comitato centrale della Lega dei comunisti] al posto del punto di vista uni­versale del Manifesto ha sbandierato quello nazionale. Al posto del punto di vista materialistico del Manifesto è stato adottato un punto di vista idealistico. Al posto dei rapporti reali si è sbandierata la volontà come elemento decisivo della rivoluzione. Nell’organizzazione comunista non ci sono elementi di po­sitivismo, nemmeno per idea. Ci sono dei positivisti nelle nostre file, come ci sono dei positivisti che non ne fanno parte, ma che tuttavia si dànno da fare. Ma ciò non è affatto merito della loro filosofia, che non vuol aver nulla di comune con il potere del popolo, come noi lo intendiamo. La loro filosofia mira soltanto a sostituire la vecchia gerarchia con una nuova. Invece, la nostra guerra contro il capitale, per esempio, non potrebbe mai riuscire vittoriosa, se facessimo derivare la nostra tattica dall’economia politica radicale borghese.

Noi entriamo nella vita pubblica soltanto per contribuire al trionfo della clas­se operaia, cui spetta la missione storica di istituire il comunismo, appena sia giunta alla direzione politica ed economica della società, così come fu missio­ne della borghesia giunta al potere spezzare le catene feudali che inceppavano lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria, stabilire il libero traffico dei pro­dotti e degli uomini, il libero contratto tra imprenditori e operai, centralizzare i mezzi di produzione e di scambio e approntare, senza accorgersene, gli ele­menti materiali e intellettuali per la futura società comunista. Tuttavia, è ot­timistico pensare che (a es., in Inghilterra) la soluzione sperata possa essere raggiunta senza i mezzi violenti della rivoluzione, ritenendo che il metodo in­glese di condurre l’agitazione nelle assemblee e sulla stampa, finché la mino­ranza diventa maggioranza, sembri un segno che lascia ben sperare. La bor­ghesia inglese si è sempre dimostrata pronta ad accettare il verdetto della maggioranza finché ha posseduto il monopolio elettorale. Ma si può esser cer­ti che, non appena si vedrà messa in minoranza su questioni ritenute d’impor­tanza vitale, ci troveremo di fronte a una nuova guerra per la conservazione della schiavitù.

Bisogna perciò aborrire i parolai dalle frasi forbite. Guai a chi si perde nei vuoti giri di parole: bisogna essere inesorabili con i phraseurs. Bisogna con­durre un’epurazione nelle file del partito comunista. Essa può essere attuata criticando pubblicamente chi non è degno di farne parte. Questa epurazione è ora la cosa più importante che possa essere intrapresa nell’interesse del comu­nismo. Bisogna combattere il “comunismo degli artigiani” e il “comunismo fi­losofico”; il sentimento deve essere deriso, perché è soltanto fantasticheria; ogni propaganda orale, ogni costituzione di nuclei di propaganda deve essere sospesa; non si dovrà più neppure usare la parola “propaganda”, nemmeno in futuro. Se il proletariato andasse ora al potere, non adotterebbe misure realmente pro­letarie ma piccolo-borghesi. Il nostro partito potrà andare al governo soltanto quando i rapporti reali permetteranno di realizzare le sue concezioni. Quando si arriva troppo presto al potere, i proletari non andrebbero da soli al potere ma insieme ai contadini e ai piccoli borghesi, e sarebbero costretti a realizzare non le proprie misure ma le loro. Non c’è bisogno di essere al governo per realizzare qualcosa. Diversi membri della Lega hanno tacciato di “reazionari” i difensori del Manifesto. In tal modo si è cercato di renderli impopolari, cosa che del resto è loro del tutto indifferente, poiché i comunisti non cercano la popolarità.

[k.m.]

 

 

Comunismo # 3

Il combattimento per il comunismo è già il comunismo [<= #1,2]. È la possibilità (quin­di scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri “umani” – e, in prospettiva, la loro totalità – pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Ricono­scere e promuovere la lotta delle classi [<=] è condizione perché ogni singola vit­toria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fron­te, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti. Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita.

Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illu­sione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro “libertà” [<=] non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria.

Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vi­ta incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli op­pressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speran­za di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Mi­gliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.

Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che pas­sa anche attraverso errori, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fi­ne che sempre più dovrà coincidere con loro stessi. Ma chi dalla lotta sia co­stretto ad usare altri uomini come mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato così) mai potrà concedersi buona coscienza [<=] o scarico di respon­sabilità sulle spalle della necessità o della storia. Chi quella lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce, di quel fine, nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e compagni e di se stesso; perché non darà requie né a sé medesimo né a loro, per strappare essi e se stesso agli inganni della dimenti­canza, delle apparenze e del sempre uguale. Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini; egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’Illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustia­na della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presen­te anche in Marx e in Lenin, e oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale [<=]. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario inten­dere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è rifiutare anche ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi.

Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale di gruppo e internazionale, dell’esi­stenza (con i suoi insuperabili nessi di libertà e necessità, di certezza e ri­schio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana e quindi della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). Quella umana è una spe­cie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé. In essa, identificarsi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno. Il comunismo è il processo materiale che vuol rendere sensibile e intellettua­le la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sot­to la sovranità del tempo; e interpretarvi le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia.

[f.f.]

 

 

Concezione materialistica

(dialettica della storia)

I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi. Sono presupposti reali, dai quali si può a­strarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la stessa loro vita materiale. Individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici.

L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determina­te for­me sociali della coscienza [<=]. La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è direttamente intrecciata al­l’attività materiale degli uomini, linguaggio della vita reale [<=]. Finora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee, essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare un’epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. D’al­tronde è del tutto in­differente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo: questi tre momenti – la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza – possono e debbono entrare in contraddizione tra di loro.

 Questi presupposti sono constatabili, dunque, per via puramente empirica. Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne discosta per un solo istante: i suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo fissati e isolati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo reale. Con gente priva di presupposti dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esi­stenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini.

Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori. La produzione reale della vita appare co­me qualcosa di preistorico. Il punto più alto cui giunge il “mate­rialismo intuitivo” – cioè il materialismo che non intende la sensibilità come attività pratica – è l’“intuizione” degli individui singoli e della società borghese. Questa dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uo­mini e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l’una è sollevata al di sopra della società. Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l’umanità sociale. Il rapporto dell’uo­mo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’anta­go­ni­smo tra natura e storia (questa concezione quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi, di stati e lotte religiose e in genere teoriche). In ogni epoca essa ha dovuto condividere l’illusione dell’e­poca stessa.

La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una par­te continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata. È un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente. Per questa via la storia riceve i suoi scopi speciali e ciò che vien designato come “scopo”, “idea” della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva.

A mano a mano che nel corso di questo sviluppo si allargano le singo­le sfere che agiscono l’una sul­l’al­tra, la storia diventa sempre più storia universale. Da ciò segue che questa trasformazione della storia in storia universale è non già un semplice fatto astratto di qualche fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale, dimostrabile empiricamente, un fatto di cui ciascun individuo dà prova nell’andare e venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi.

Dalla concezione della storia che abbiamo svolto otteniamo i seguenti risultati:

1. Nello sviluppo delle forze produt­tive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione (rapporti sociali) che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive.

2. Le condizioni entro le quali possono essere impiegate determinate forze produttive sono le condizioni del dominio di una data classe della società, la cui potenza sociale scaturisce dal possesso di quelle forze.

3. In tutte le rivoluzioni finora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, mentre la rivoluzione comunista [<=] si rivolge contro il modo del­l’attività che si è avuto finora e abolisce il dominio di tutte le classi [<=] insieme alle classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi.

4. Per la produzione in massa di questa coscienza comunista è necessaria una trasformazione in massa de­gli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione.

Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso individuale, ma di un antagonismo che sorge dalle condizioni di vita sociali degli individui. E allora subentra u­n’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura, in una parola le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.

Questa concezione della storia si fon­da dunque su questi due punti:

- spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata;

- assumere come fondamento di tut­ta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata.

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti: cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tem­po la sua potenza spirituale dominante.

[k.m.]

[da Ideologia tedesca (1846), I, passim, e da Prefazione a “per la critica dell’economia politica” (1859)]

 

 

Conflittualità intercapitalistica

(anarchia della produzione)

Un segno distintivo e caratteristico del modo di produzione capitalistico è dato dalla molteplicità dei capitali in reciproca conflittualità. Senza tale molteplicità conflittuale – come un’illusoria compatta unicità – esso neppu­re sarebbe concepibile. Da codeste contraddizioni promana la caducità, sia ricorrente che tendenziale, del siste­ma e lo stesso antagonismo di classe tra borghesia e proletariato che è l’altro, e il più esteriore e apparente, segno distintivo. Con lo sviluppo del mercato mondiale – nell’epoca dell’imperialismo [<=] – il capitale (che Marx definiva “indu­striale” in generale) si presenta in misura crescente “fuso” con la sua forma monetaria (e pure con la sua forma merce [<=]) nella figura di capitale finanziario [<=]. Per tale motivo, sempre più compiutamente il capitale complessivo sociale è determinato duplicemente e contraddittoriamente, nel senso anzidetto: da un lato, di contro al proleta­riato, esso deve essere concepito come classe [<=], come capitale collettivo, entità unica e intera; ma dall’altro, en­tro la formazione economica sociale capitalistica in tutta la sua complessità e articolazione, esso non può che essere costituito dalle  singole individualità dei molteplici capitali [<=] particolari, tra loro contrapposti nelle diver­se forme funzionali. Questo duplicità contraddittoria caratterizza l’anarchia del modo di produzione capitalisti­co, fondato appunto sulla molteplicità e individualità dei capitali.

La divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci indipendenti l’uno dall’altro, e ciò permane e si accresce anche con il passaggio al capitalismo monopolistico finanziario su scala mondiale. La distribuzione tra le differenti attività sociali di lavoro di codesti produttori capitalistici di merci e dei loro mezzi di produzione è piuttosto arbitraria e casuale, e acuisce le difficoltà del sistema ogni volta che tale casualità moltiplica le interruzioni del ciclo complessivo del capitale. Perciò, pro­prio contro questa dispersione del capitale complessivo sociale in molti capitali individuali agisce l’attrazione di questi ultimi, la concentrazione di capitali già formati – il processo di fusioni e acquisizioni – che cerca di su­perare la loro autonomia individuale. Codesta è una vera lotta attraverso l’espropriazione del capitalista da par­te del capitalista, la trasformazione di molti capitali minori in molti capitali più grossi, la centralizzazione [<=] del capitali.

I differenti settori della produzione cercano costantemente di mettersi in equilibrio. Ma questa tendenza costan­te della produzione a equilibrarsi si attua soltanto come reazione contro la costante distruzione di questo equili­brio. La regola opera soltanto a posteriori nella divisione del lavoro all’interno della società, come necessità naturale interiore, muta – sostiene Marx – percepibile negli sbalzi dei prezzi del mercato, che sopraffà l’arbitrio sregolato dei produttori di merci. La divisione sociale del lavoro contrappone gli uni agli altri i capitalisti in quanto produttori indipendenti di merci, i quali non riconoscono altra autorità che quella della concorrenza, cioè la costrizione esercitata su di essi dalla pressione dei loro interessi reciproci: “come anche nel regno ani­male il bellum omnium contra omnes preserva più o meno le condizioni di esistenza di tutte le specie” [Marx].

Ma le semplici metamorfosi della circolazione [<=] delle merci, che i processi della circolazione del capitale hanno in comune con ogni altra circolazione delle merci, non spiegano come le differenti parti costitutive del capitale sociale complessivo – di cui i singoli capitali sono soltanto parti costitutive che operano in modo autonomo – si sostituiscano reciprocamente nel processo di circolazione specificamente capitalistico. Poiché l’accumulazione di capitale e la concentrazione che a essa corrisponde sono disseminate su molti punti, l’aumento dei capitali operanti [<=] s’incrocia con la formazione di capitali nuovi e con la scissione di capitali vecchi. Se quindi da un lato l’accumulazione si presenta appunto come concentrazione crescente dei mezzi di produzione e del comando sul lavoro, dall’altro si presenta come repulsione reciproca dei capitali molteplici individuali. Ogni capi­tale particolare, infatti, conformemente all’essenza della produzione capitalistica, non è condizionato primaria­mente dalla necessità di soddisfare la domanda (ordinazioni produttive o bisogno privato), ma innanzitutto dal­la tendenza a realizzare il lavoro, e quindi il pluslavoro, più grande possibile e a fornire con un capitale dato la maggior massa possibile  di merci. Ogni singolo capitale cerca così di occupare sul mercato il posto più grande possibile e di eliminare, di scaccia­re i suoi concorrenti. La conflittualità tra i capitali implica la separazione individualistica dei capitali (l’esisten­za di capitali individuali realmente separati) e la contrapposizione essenziale, immanente, tra loro nelle rispetti­ve sfere di influenza sul mercato mondiale, Sono i “fratelli nemici” della massoneria del capitale – afferma Marx – ossia quei capitalisti che si comportano come dei falsi fratelli quando si fanno concorrenza, anche se costituiscono una “vera massoneria” nei confronti della classe operaia nel suo complesso.

L’intera questione – con le parole di Marx – è posta in questi termini. “Il capitale non include solo dei rapporti di classe – un determinato carattere sociale che si fonda sull’esistenza del lavoro come lavoro salariato – ma è un movimento, un processo ciclico attraverso stadi differenti; perciò può essere concepito soltanto come movi­mento e non come cosa in riposo. Coloro che considerano questo autonomizzarsi del valore come pura e sem­plice astrazione [<=], dimenticano che il movimento del capitale industriale è questa astrazione in atto. Il valore per­corre qui forme differenti, differenti movimenti, nei quali si conserva e contemporaneamente si valorizza, si ingrandisce. Nonostante tutte le rivoluzioni di valore, la produzione capitalistica esiste e può continuare a esistere soltanto finché il valore capitale venga valorizzato, cioè finché le rivoluzioni di valore in un modo qualsiasi vengono superate e composte. I movimenti del capitale appaiono come azioni del singolo capitalista industriale. Se il va­lore capitale sociale subisce una rivoluzione di valore, può avvenire che il suo capitale individuale le soccom­ba e perisca, poiché non può adempiere le condizioni di questo movimento di valore. Quanto più acute e frequenti diventano le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore autonomizza­to, automatico, operante con la violenza di un processo elementare di natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più il corso della produzione normale viene ad assoggettarsi alla specu­lazione [<=] anormale, tanto più grande diviene il pericolo per l’esistenza dei capitali singoli.

Il processo continua del tutto normalmente solo finché le perturbazioni nella ripetizione del ciclo si compensa­no; quanto maggiori sono le perturbazioni, tanto maggiore capitale monetario deve possedere il capitalista in­dustriale per essere in grado di attendere la compensazione; poiché col procedere della produzione capitalistica si allarga la scala di ogni processo individuale di produzione e con essa la grandezza minima del capitale da an­ticipare, quella circostanza si aggiunge alle altre che sempre più trasformano la funzione del capitalista indu­striale in un monopolio di grandi capitalisti monetari, isolati o associati. L’esistenza del mercato [<=] come merca­to mondiale contrassegna il processo di circolazione del capitale industriale”. Le premesse marxiane per l’affermazione del capitale monopolistico finanziario dell’imperialismo sono chia­rissime, così come ne sono evidenti le cause e le forme della crisi. Nella considerazione congiunta del processo complessivo di produzione e circolazione, Marx opera infatti con la coppia anarchia del capitale / crisi da so­vraproduzione.

La molteplicità dei capitali si manifesta compiutamente nel passaggio dalla produzione alla cir­colazione. Mentre per l’analisi della produzione si può provvisoriamente partire dalla considerazione di un uni­co capitale opposto a un’unica forza-lavoro [<=], per la circolazione è essenziale che un capitale intrattenga rapporti di compera e vendita con un altro capitale almeno (molteplicità dei produttori capitalistici). Né la produzione da sola (incapace di verificare la realizzazione del plusvalore [<=]), né la circolazione da sola (incapace di spiegare da dove provenga quel plusvalore, ossia la sua origine) permettono di comprendere la crisi. Per questa ragione la crisi non è mai posta, se non incidentalmente, da Marx con riguardo al capitale collettivo come intero. Dunque, è solo la conflittualità tra i capitali molteplici che pone la crisi da sovraproduzione [<=]. Senonché, per es­serci tale conflittualità tra capitali occorre, ma non basta, che vi siano capitali individuali realmente separati (ossia la molteplicità dei capitali); occorre altresì che oltre alla semplice separazione tra le singole individuali­tà indipendenti, si consideri anche la ricordata loro essenziale conflittualità, come  contrapposizione immanen­te. La stessa interpretazione delle crisi – e tanto più ciò vale per le lunghe crisi irrisolte dell’imperialismo – di­pende da questa determinazione centrale del modo di produzione capitalistico, ossia dal suo carattere anarchico fondato sulla molteplicità e individualità dei capitali contrapposti.

[gf.p.]

(i testi, integrali e riferiti, di Marx sono tratti principalmente dal Capitale, I.23, II.3 e 4, oltre pochi altri punti da C.III e TP.II)

 

 

Consenso

Delle mie istruzioni non hai omesso nulla in quello che dovevi dire: così,

con grande naturalezza e rara diligenza, i miei spiriti minori hanno eseguito le loro parti.

I miei potenti incantesimi operano, e questi miei nemici sono tutti irretiti

nel loro delirio: sono ora in mio potere. [Shakespeare]

È una disgrazia essere un lavoratore produttivo [<=] – afferma Marx. Un lavorato­re produttivo è un lavoratore che produce ricchezza per altri. La pratica del consenso tende a fornire le opportune condizioni affinché tale plusvalore [<=] con­tinui ad essere prodotto non per i lavoratori stessi (in qualità di pluslavoro a disposizione della società complessiva) ma per i proprietari delle condizioni di produzione. È certo che l’attuale fase di crisi pone con urgenza il problema della costru­zione della collaborazione dei diversi soggetti sociali al processo della produ­zione e al più complessivo funzionamento dell’organismo sociale su di essa modellato: il problema, cioè, del consenso.

La centralità del consenso si presenta celata sotto forma di “comunicazione” [<=], all’interno di un codice ampio di comportamenti linguistici [<=] vòlti a favorire, nelle loro conseguenze ultime, l’accettazione, senza possibilità di intervento, delle modalità comportamentali funzionali alla salvaguardia dell’organismo sociale. La centralità del consenso emerge ove si consideri che le dimensioni della cri­si in atto porteranno masse di lavoratori, e sia pure negli iniziali limiti definiti da un generico “sacrifici uguali per tutti”, ad una prassi autonoma dal mecca­nismo di controllo neocorporativo [<=], e dunque il consenso, pur di impedire la polarizzazione dello scontro, reimposta i termini comunicativi in funzione del riavvicinamento degli “scontenti” alle modalità dell’organismo sociale. Pos­siamo osservare come, da questa base, si perverrà ad un affinamento delle di­verse funzioni del consenso e quindi a una sua organizzazione più precisa, la qual comporta, oltre all’attrezzatura ideologica, pertinenti “carote” materiali (concessioni minime, mutamenti parziali di rotta nelle manovre economiche, ecc.), e, visti i limitati margini concreti per assolvere finanziariamente e rifor­misticamente a tali “contentini”, un aumento nell’uso del “bastone” repressi­vo.

La vita sociale rende necessario subordinare il comportamento dell’individuo alle esigenze poste dall’or­ganismo sociale e crea con ciò complessi sistemi di segnalazione, i mezzi di comunicazione, che dirigono e regolano la formazio­ne dei nessi condizionati nel cervello del singolo uomo. L’educazione è lo strumento migliore di cui l’autorità si può servire per indi­care e imprimere nelle coscienze dei singoli individui quel modello. Attraver­so la formazione, l’autorità tende a “costruire” gli individui nel modo che le risulta più congeniale ai fini del funzionamento dell’organismo sociale. L’au­torità, se ricompensa e promuove coloro i quali dimostrano di condividere gli obiettivi dell’organismo sociale, punisce gli oppositori in modo da regolare il comportamento e mantenere il controllo. Con la dialettica promozione/repressione indica automaticamente a tutti gli altri qual è il modello di comportamento gradito.

[n.g.]

 

 

Contratto di lavoro

Sempre più spesso, anche tra “comu­nisti” e sindacalisti, si ha l’impres­sione di uno sbandamento che fa ri­piombare indietro nei secoli, in un’e­poca prescientifica (e premarxista), nella quale la confusione sul salario della forza-lavoro [<=] è tale da far reputare il salario quale un semplice “nome” (come già faceva il proudhoniano Rossi prima dei marginalisti, di Key­nes e di Sraffa). Tale nome sarebbe quello dato al pagamento, in forma di reddito, del “capitale umano” e della “capacità lavorativa”.

Si compie così, anche nelle scompo­ste file “disinistra”, la grande scoper­ta che il salario è dato dall’equi­librio tra domanda e offerta (una grande novità di cui bisogna avvertire mar­ginalisti e keynesiani!). Il salario stesso non è più, da molti, compreso come sussistenza sociale, globale per l’intera classe [<=] lavoratrice al li­vello storico del mercato mondiale, solo perché, costoro dicono, anche i lavoratori risparmiano (in tal manie­ra confondendo decisamente nella ambigua e vuota categoria “rispar­mio” [<=] il reddi­to non consumato dei proletari col capitale accumulato dei borghesi). Tale confusione è di chi non com­prende la trasformazione del denaro, che è valore, in capitale, che è un rapporto sociale (ossia di chi non capisce neppure il significato del consumo differito di classe, in quan­to salario sociale non individuale).

Travisando Marx in questa maniera, che offende non tanto il marxismo (trattandosi di un’interpretazione scientifica della realtà) ma la realtà stessa, allora, è ovvio che quegli sbandati predichino la necessità del “superamento dell’ideologia del lavoro-merce”. Ideologia? [sic!]. Nemmeno di forza-lavoro riescono a parlare, giacché di essa disconosco­no la peculiare identità e determina­zione scoperta da Marx.

La mina messa per far saltare l’inte­ra costruzione marxista del “sociali­smo scientifico” consiste dunque nella bella (ri)scoperta (pre)anti-marxista che il “lavoro” non è mer­ce: che gran novità! (D’altronde, al pari di diversi male avventati sogna­tori “disinistra”, anche il papa predi­ca tale sciocchezza, pur continuando a parlare, come gli altri, di “mercato del lavoro”: un mercato senza merce - misteri della fede!). Soppressa la forza-lavoro e il suo concetto speci­fico, sparisce così la sua stessa du­plicità contraddittoria: lo scambio equo che pone e presuppone il suo uso iniquo, su precise basi economi­che, non è più riconosciuto perché non più riconoscibile. Il plusvalore è cancellato pertanto con un colpo di spugna. Cacciato dai luoghi della scienza, lo sfruttamento può felice­mente tornare ad albergare nei meandri dell’etica, come sempre hanno preteso i socialisti borghesi e Proudhon, riformisti, revisionisti, e le anime belle del liberalismo, anche “lab” e “disi­nistra”.

Ergo, dice da sempre il pensiero dominante nell’epoca del capitale, non si dà nessuno scambio, ma sem­plicemente e direttamente un rappor­to di prestazione, un contratto d’ob­bligo stabilito su basi istituzionali: solo a questo si ridurrebbe infine il “contratto di lavoro”. Siccome tale contratto, si prosegue, è il risultato di un “rap­porto di forza” (immediata e primigenia, diceva Dühring, prestan­do tale sua scoperta alla gaia congre­gazione di Keynes, Sraffa & co.), è in esso che si dovrebbero vedere as­sommati tutti i mali del capitalismo.

Lo sfruttamento ci sarebbe solo perché è cattivo il contratto, median­te il quale si avrebbe direttamente la “a­lienazione” [<=] della libertà. Perché mai ciò dovrebbe avvenire, in un contesto in cui però non si riconosce l’alie­na­zione - ossia la vendita ad al­tri - della forza-lavoro come merce, laddove gli “altri” non sono più con­siderati in quanto caratterizzati dalla proprietà, rimane un mistero scienti­ficamente inspiegabile.

Il mitico “compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!”, esclamato da Brecht rivolto ai deboli pensatori in­tellettuali dei suoi tempi bui, risuona ancora alto come allora, ma come al­lora vano per chi, bellamente, non al­la separazione tra proprietari e non proprietari, ma ad arbitrio e sopruso che sopraffanno giustizia e bontà, at­tribuisce le condizioni di vita del proletariato (o dei “cittadini poveri”, come essi preferiscono supporre).

Se per costoro lo sfruttamento deriva esclusivamente dal rapporto giuridi­co (senza che sia dato il bene di sa­pere da che cosa derivi a sua volta tale rapporto giuridico), il trucco è svelato: basta sostituire un “contratto d’opera” al posto di un “contratto di lavoro” vero e proprio, e il salario (già di per sé così rattrappito in mera retribuzione diretta individuale) con “buoni di lavoro” (come ha loro inse­gnato Proudhon). Ma non si accorgo­no che proprio questo è ciò che, sot­to gli scudi del neocorporativismo, già fanno i padroni?

Non occorrono certo i loro suggeri­menti “disinistra” per deregolamen­tare anche il mercato del lavoro. Si­curamente Romiti non ha aspettato nessuna loro imbeccata per rivendi­care la necessità di farla finita con l’“obsoleta” contrattazione collettiva di lavoro, rimandando tutto il rappor­to al potere aziendale. Oggi, col la­voro irregolare, una tale prospettiva è portata avanti quale sperimentazio­ne per tutto il lavoro salariato. Do­mani (e ormai è letteralmente “do­mani”), legalizzando l’illegalità, lo scambio di forza-lavoro contro capi­tale, il vero e proprio “contratto di lavoro” svanisce, così da dissimulare il lavoro dipendente (che dipende dal capitale) definitivamente come il suo opposto, ovverosia una forma parite­tica e partecipata di relazionalità for­malmente indipendente, racchiuso solo in “regole” istituzionalistiche? Bella prospettiva!              

[gf.p.]

 

 

Cooperative

Sia i successi che i fallimenti condu­cono alla centralizzazione del capita­le, e quindi all’espropriazione su una scala enorme, che si estende dai pro­duttori diretti agli stessi capitalisti piccoli e medi. Tale espropriazione costituisce il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, e allo stesso tempo il suo scopo, che è, in ultima analisi, quello di espropria­re i singoli individui dei mezzi di produzione, che con lo sviluppo del­la produzione sociale cessano di es­sere mezzi della produzione privata e prodotti della produzione privata, e che possono essere ancora soltanto mezzi di produzione nelle mani dei produttori associati, quindi loro pro­prietà sociale, così come sono loro prodotto sociale.

Ma nel sistema capitalistico questa espropriazione riveste l’aspetto op­posto, si presenta come appropria­zione della proprietà sociale da parte di pochi individui, e il credito [<=] attri­buisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Che “l’anima del nostro sistema industriale” non siano i capi­talisti industriali, ma i managers in­dustriali, è già stato messo in rilievo dal sig. Ure. Il lavoro di sovrinten­denza e di direzione, in quanto sca­turisce dal carattere antagonistico, dal dominio che ha il capitale sul la­vo­ro, è comune a tutti i modi di pro­duzione, oltre a quello capitalistico, che si fondano sull’antagonismo di classe, e anche nel sistema capitali­stico è collegato direttamente ed in­dissolubilmente con le funzioni pro­duttive che ogni lavoro sociale com­binato impone a singoli individui come lavoro particolare; è completa­mente distinto dal profitto e assume anche la forma di salario per lavoro qualificato, non appena l’impresa è esercitata su una scala sufficiente­mente grande per pagare un tale diri­gente (manager) [<=], quantunque i nostri capitalisti industriali siano ben lungi dall’“occuparsi di affari di stato o di filosofia”. La confusione tra guada­gno d’imprenditore e salario di sor­veglianza o di amministrazione [<=] è de­rivata originariamente dalla forma an­tagonistica che assume, rispetto all’interesse, l’eccedenza del profitto sull’interesse [<=].

Essa è stata in seguito sviluppata nella apologetica intenzione di rap­presentare il profitto non come plu­svalore, ossia come lavoro non paga­to, ma come salario del capitalista stesso per il lavoro reso. Al che allo­ra si contrapponeva, da parte dei so­cialisti, la rivendicazione che il pro­fitto venisse ridotto in pratica a ciò che esso pretendeva di essere in teo­ria, cioè al semplice salario di sor­veglianza. E questa rivendicazione veniva a contrapporsi alle belle frasi teoriche in modo tanto più spiacevo­le, in quanto, da un lato, questo sala­rio di sorveglianza, come qualsiasi altro salario, era determinato nel suo livello e nel suo prezzo di mercato dalla formazione di una classe nu­merosa di managers industriali e commerciali, e, d’altro lato, esso diminuiva tanto più, come ogni sala­rio per il lavoro qualificato, con lo sviluppo generale che riduce il costo di produzione della forza-lavoro par­ticolarmente specializzata.

Il capitalista scompare dal processo di produzione come personaggio su­perfluo e rimane unicamente il fun­zionario. Dopo ogni crisi [<=] si può ve­dere un buon numero di ex fabbri­canti che sovrintendono per un sala­rio moderato le fabbriche di cui essi erano precedentemente proprietari in veste di direttori dei nuovi proprieta­ri, che sono spesso i loro creditori. Il capitalista industriale [<=] è, rispetto al capitalista monetario [<=], un lavoratore, ma un lavoratore in quanto capitali­sta, ossia in quanto sfruttatore di la­voro altrui.

Dire che questo lavoro è necessario come lavoro capitalistico, come fun­zione del capitalista, non significa che l’economista volgare non può rappresentarsi le forme che si sono sviluppate in seno al modo di produ­zione capitalistico, quando esse si sono separate e liberate dal loro ca­rattere capitalistico antagonistico. Con lo sviluppo delle cooperative da parte dei lavoratori, e delle società per azioni da parte della borghesia, viene meno anche l’ultimo pretesto per confondere il profitto d’impresa col salario di direzione. La produzio­ne capitalistica stessa ha fatto sì che il lavoro di direzione, completamen­te distinto dalla proprietà di capitale, vada per conto suo. È diventato dun­que inutile che questo lavoro di dire­zione venga esercitato dal capitali­sta. Un direttore d’orchestra non ha affatto bisogno di essere proprietario degli strumenti dell’orchestra, come pure non appartiene alla sua funzio­ne di direttore di occuparsi in qual­siasi modo del salario degli altri mu­sicisti.

Le fabbriche cooperative forniscono la prova che il capitalista, in quanto funzionario della produzione, è di­ventato superfluo, proprio come egli stesso, pervenuto al grado più eleva­to della sua cultura, stima superfluo il proprietario terriero. In quanto il lavoro del capitalista non proviene dal processo della produzione inteso come puramente capitalistico, dun­que non cessa col capitale stesso; in quanto esso non si limita alla funzio­ne di sfruttare il lavoro altrui; in quanto esso proviene dalla forma del lavoro come lavoro sociale, dalla combinazione e dalla cooperazione di molti in vista di un risultato co­mune, esso è del tutto indipendente dal capitale, proprio come questa forma stessa, non appena essa spezzi l’involucro capitalistico.

Il salario di amministrazione, sia per il dirigente commerciale che per quello industriale, appare completa­mente distinto dal guadagno d’im­prenditore, tanto nelle fabbriche coo­perative appartenenti ai lavoratori, quanto nelle società per azioni capi­talistiche. Nelle fabbriche cooperati­ve il carattere antagonistico del lavo­ro di sorveglianza è soppresso, perché il dirigente è pagato dai lavo­ratori, invece di rappresentare, di fronte ad essi, il capitale. L’antago­nismo tra capitale e lavoro è abolito all’interno di esse, anche se dappri­ma soltanto nel senso che i lavorato­ri, come associazione, sono capitali­sti di se stessi, cioè impiegano i mezzi di produzione per la valoriz­zazione del proprio lavoro.

Queste fabbriche cooperative dimo­strano come, a un certo grado di svi­luppo delle forze produttive materia­li e delle forme di produzione sociale ad esse corrispondenti, si forma e si sviluppa naturalmente da un modo di produzione [<=] un nuovo modo di produ­zione. Senza il sistema di fabbrica, che nasce dal modo di produzione capitalistico, e così pure senza il si­stema creditizio, che nasce dallo stesso modo di produzione, non si potrebbe sviluppare la fabbrica coo­perativa. Il sistema creditizio, come forma la base principale per la gra­duale trasformazione delle imprese private capitalistiche in società per azioni capitalistiche, così offre il mezzo per la graduale estensione delle imprese cooperative su scala più o meno nazionale.

Dai rendiconti pubblicati dalle fab­briche cooperative si vede che - de­tratto il salario del dirigente, che co­stituisce una parte del capitale varia­bile speso, proprio come il salario degli altri lavoratori - il profitto era più elevato del profitto medio, seb­bene queste società pagassero talvol­ta un interesse più elevato dei fabbri­canti privati. La causa del profitto più elevato era in tutti questi casi una maggiore economia nell’impie­go del capitale costante. Poiché il profitto qui era maggiore del profitto medio, anche il guadagno d’impren­ditore era maggiore del solito. Le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi, al pari delle fabbriche cooperative, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con la unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo. Le fabbriche coope­rative degli stessi lavoratori sono, entro la vecchia forma, il primo se­gno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e deb­bano riflettere, nella loro organizza­zione effettiva, tutti i difetti del siste­ma vigente.

[k.m.]

 

Cooperative # 2

(produzione associata)

Nel mercato mondiale [<=] capitalistico prevale il conflitto tra grande capitale monopolistico finanziario e il resto dell’apparato economico (capitale minore, separato o artigianale, cooperative, ecc.). Il sistema delle cooperative [<= # 1] – e più specificamente delle cooperative di produzione, non quello ridotto (riformista) delle cooperative di consumo, concettualmente non antagonistiche – assume un significato differente in un contesto non più dominato dal modo di produzione capitalistico, in particolare nella transizione socialista. La differenza contestuale fa cambiare completamente l’impostazione del problema e la portata delle sue conseguenze. La prospettiva della produzione associata nelle cooperative muta completamente se deve o non deve fare i conti con il predominio del mercato (mondiale) dei capitali. È determinante la differenza specifica che può e deve svolgere il cooperativismo nella semplice prospettiva di rimanere entro il modo di produzione capitalistico o in quella, assai più complicata, di capovolgerlo. Evidente è perciò la funzione che non possono non avere le cooperative nella lotta di classe [<=], ben oltre quella solo prefigurante della produzione materiale.

Anche il credito [<=] che è fondamentale per gli sviluppi di entrambe le strutture – imprese capitalistiche, soprattutto nella forma delle spa [<=] e cooperative – ha destinazioni quasi opposte. Se le cooperative hanno a che fare con il sistema bancario, col capitale monetario e delle merci, rimangono schiacciate e, da sole, non sono in grado di rovesciare il sistema dominante. “Il sistema creditizio – sostiene Marx a proposito della funzione del credito – come forma la base principale per la graduale trasformazione delle imprese private capitalistiche in società per azioni [<=] capitalistiche, così offre il mezzo per la graduale estensione delle imprese cooperative su scala più o meno nazionale”. E osserva quanto ripetutamente espresso sulla differenza tra spa e cooperative: “le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi, al pari delle fabbriche cooperative, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con l’unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo”.

Nel sistema capitalistico – e in misura crescente via via che si sviluppano le spa – l’espropriazione della maggioranza (i lavoratori produttori) si presenta come appropria­zione (in forma privata) della proprietà sociale da parte di pochi individui. È bene sottolineare che la produzione, come nelle spa, anche nelle fabbriche cooperative conserva la propria forma privata: ma, in entrambi i casi, codesta forma “privata” non è più “individuale” ma collettiva, di classe (borghese la prima, proletaria la seconda, ed è ciò che qui interessa). Essa, infatti, implica una connotazione “sociale” che, come tale, anticipa – ma prepara soltanto – il superamento del modo di produzione capitalistico stesso. Se non muta il modo di produzione, è perciò prima o poi impossibile, anche per la cooperative, non diventare imprese come le altre. Era opinione anche di Lenin che il pieno funzionamento della produzione e dello scambio futuri possa essere appena preparato dalle cooperative, ma effettualmente “potrà aver luogo solo dopo l’espropria­zione dei capitalisti”.

Le cooperative dei lavoratori, perciò, come detto in “positivo” – precisa ancora Marx – “sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene esse dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Ma l’antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all’interno di esse, anche se dapprima soltanto nel senso che i lavoratori, come associazione, sono capitalisti di loro stessi, cioè impiegano i mezzi di produzione per la valorizzazione del proprio lavoro”. È così che le cooperative di produzione “dimostrano” – e non possono far altro che dimostrare – come sia possibile che, “a un certo grado di sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme sociali a esse corrispondenti, si formi e si sviluppi naturalmente da un modo di produzione un nuovo modo di produzione”.

Come altrove spiegato, in tutte le condizioni “sociali” della produzione il capitalista in quanto tale può scomparire dal processo di produzione come personaggio su­perfluo; rimane unicamente il dirigente [<=] come “fun­zionario” (del resto, lo stesso borghese, raggiunto il sufficiente sviluppo storico e culturale – la coscienza [<=] della propria classe – aveva considerato “superfluo” il proprietario terriero). Così, con lo sviluppo delle cooperative da parte dei lavoratori, al pari (ma all’opposto) di quello delle società per azioni da parte della borghesia, viene meno anche l’ultimo pretesto per confondere il profitto d’impresa – che l’economia tenta di commisurare all’attività e non alla proprietà – col salario di direzione, poiché è inutile che questo lavoro di direzione venga esercitato dal capitalista.

La classe proletaria, pervenendo alla produzione associata, svela così il carattere di oggettiva socializzazione nascosto anche nella produzione capitalistica. Ma non può mai farlo assurgere a forma dominante (in ogni variante, dal volontariato alla solidarietà, dall’utilità immediata a qualsivoglia fuoriuscita dal mercato) finché rimanga entro il sistema mondiale del capitale. Antonio Gramsci, nel 1921, ammoniva che “i riformisti portano come "esemplare" il socialismo reggiano” perché “vorrebbero far credere che l’Italia e tutto il mondo può diventare una sola grande Reggio Emilia”, dove, appunto, l’esperienza mutualistica di quel “socialismo”, se guardata con occhi disincantati, mostrava già tutti i segni del fallimento, ossia del suo pieno inserimento nel si­stema capitalistico. Lenin metteva “in guardia contro le illusioni cooperativistiche”, poiché, le cooperative non essendo affatto organizzazioni di classe, se non se spiega bene il carattere di proprietà privata (che permane sempre, seppure collettiva), è inevitabile prendere una strada sbagliata.   

[gf.p.]

 

 

Coscienza

(i proprietari della coscienza)

I proprietari della coscienza riescono continuamente a sostituire il “discorso comune”, di chi ricerca la comunanza di oggetti e di argomenti al di là della mistificazione indotta dalla falsa democrazia culturale, con il “senso comune” di chi invece è ormai portatore e veicolo di quest’ultima. “Comunismo” [<=], ad esempio, è indicato nel senso comune che proviene dalla parte che non si è scelta come propria, bensì come quella una volta nemica. Mai come il percor­so per giungere a costruire l’obiettività di un reale, in cui è possibile una comunicazione e scambio tra ruoli sociali, liberi dall’imposizione necessaria del denaro. La coscienza professionale o di successo ha sostituito la coscienza di classe, collettiva [<=]. Permette di usare il linguaggio [<=] o le tematiche una volta socialiste per i còmpi­ti delle alte dirigenze industriali. [In occasione dello stato di crisi dell’Olivetti, le di­chiarazioni televisive di D’Antoni – concertato con governo e industria, cui vendere flessibilità [<=] lavorativa altrui in cambio di privato potere sindacale – dànno conto del canone ideologico unico, nell’identità di sviluppo del capitale eternizzato]. Oppure gli scambi continui di persone (dal Pci a Forza Italia) e di parole d’ordine (“lavorare meno, lavorare tutti”), l’assorbimento della stampa della “sinistra” cosiddetta, o degli intellettuali in genere, innestati nella Demo­crazia Circolare e Generalizzata, unitamente al drappeggio progressista dei coristi del mondo letterario e artistico, sono la carretta di quella “buona co­scienza" progressista (al Pds va di moda il “buonismo”), di cui le forze eco­nomicamente dominanti hanno continuamente bisogno per reiterare libertà il­lusorie.

Se la lotta per il comunismo può essere esclusa per questa via, privata di con­traddittorietà, è compito del marxista schernire almeno le nobili angosce del mercato [<=] competitivo mascherate di ottimismo, di persuasione per avercela fatta ad assicurare al paese progresso e democrazia. Se distinguere è ormai difficile, forse non si deve far nulla per distinguere l’ideologia di un funziona­rio dell’Olivetti da quella di uno del Pds (lèggasi pure De Benedetti e D’Ale­ma). Che l’evidenza si spieghi nella sua completezza, può essere, nell’og­get­tiva confusione, germe di una coscienza più resistente alle sirene dell’affida­mento ai leaders. Tolleranza diffusa, in particolare sulle cose del sesso, decisa scelta della ba­nalità, ritardo della cultura dei sentimenti o delle passioni sulla cultura dell’informazione e dell’intelligenza, ecc., sono gli ingredienti che forniscono certezza sull’efficacia democratica dei tabù che contano: quelli economico-sociali. Così, la dirigenza sindacale “cosciente” si avvale oggi della stabilità della sua canonizzazione istituzionale per inscenare pièces di ribellismo pro­tetto, soprattutto verbale o di parata. Lo sciopero, in tal senso, funge già da tempo o da oggetto di demonizzazione, come guerra tra poveri (principio di autoregolazione sociale per la neutralità delle autorità democratiche) o d’in­flazione, come dispersione controllata delle forze di massa (si pensi a quello per le pensioni dell’ottobre ‘94). Arma trasformata in potere sindacale, viene agitata per riaffermare il diritto, da un lato, di rappresentanza fondato sull’il­lusione della delega, dall’altro, di affrontare a pari titolo con le aziende i pro­blemi produttivi e i programmi di ristrutturazione, per veicolarne l’attuazione consensuata.

All’integrazione di ogni antagonismo occorre infine la scuola, solo ad hoc ammodernata. La preselezione della mano d’opera richiede un’istruzione [<=] e una pedagogia, di classe [<=], per consumatori disciplinati. La “cultura d’impresa”, già introdotta nelle aule di stato, è solo un’appendice di quella “fabbrica della coscienza” che, fino all’università e oltre, regola reclutamenti e selezioni in modo da ga­rantire solo certi esiti. L’uso reazionario dell’indistinzione culturale, tanto de­stinata al consumatore di subcultura quanto all’élite, avrebbe dovuto produrre obbedienza, integrazione, identità sociale assoluta. Ma solo a seconda del suo innesto in un determinato contesto di valori [<=] ciò risulterà possibile. Altrimenti svelerà la sua incoerenza rinviando perciò stesso ad altro da sé. Prima si sole­va pensare a quest’alterità in termini di rivoluzione [<=] socialista. L’inizio di que­sta – così come il suo attuale arresto – richiede una coscienza (sociale) che in primo luogo sappia di essere usata come riflesso di un ordine contraddittorio della realtà, i cui strumenti di rilevazione suggeriti non consentono verifiche.  

[c.f.]

(il testo qui proposto per la definizione di una coscienza, oggi diffusamente compiuta ma ancora al di sotto della consapevolezza sociale, consiste sempli­cemente in un collage come riscrittura tratta da Franco Fortini, Verifica dei poteri, Einaudi, Torino 1956)

 

 

Coscienza collettiva

Cosa sia la coscienza [<=] è già di per sé cosa difficile. Collettiva, per giunta, ri­schia di rimanere incomprensibile, proprio a coloro che del “collettivo” do­vrebbero essere costituenti attivi. Incomprensibile, così, si è fatta diventare e con la massima estensione possibile (quella dettata dal mercato), secondo l’intento dei nostri avvicendati governanti occupati, full immersion, nel gover­no della “governabilità”. A ricordo di cosa fosse stata la coscienza, o nell’analisi di cosa sarà, è utile ripercorrere alcune argomentazioni a partire dal piano giuridico [cfr. Ugo Re­scigno, A proposito di prima e seconda repubblica, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, n.103, 1994, di cui qui si riporta, tra l’altro, una sinte­si mirata]. Se innanzitutto si dovesse considerare questo presente come “prima” o “se­conda repubblica”, sarebbe almeno necessario notare un cambiamento: coloro che una volta dichiaravano di opporsi alla “seconda”, se ancora esistono, non sono più visibili. Dato che i mutamenti ad altro ordinamento, stato o sistema, sono caratterizzati da:

a) un primo elemento sostanziale (coperto da un tempo più o meno lungo);

b) un secondo elemento  formale, derivato (per sua natura istantaneo, comprensibile so­lo come fatto unitario).

La continuità ed estinzione dello stato, del sistema e del diritto dipende da in­terazioni di questi ordini di problemi, che però rimangono distinti e ricevo­no soluzioni indipendenti. La rottura, infatti, dell’ordinamento precedente non dipende da un singolo at­to illegittimo, “se viene attivato il rimedio contro l’illegittimità, previsto dal regolamento”, ma dipende al contrario dai livelli di “consapevolezza” e dal significato che i protagonisti attribuiscono agli avvenimenti. In altre parole, la permanenza o meno di una Costituzione (del diritto in genere), non dipende da decisioni o “fatti” – per quanto ripetuti possano essere nella stessa direzio­nalità – bensì dai rapporti di forza [<=] ed equilibri politici e sociali principali. Il loro venir meno o riprendere il sopravvento – determinati dalla coscienza collettiva (di quelli manifestazione interna, ma anche emancipazione soggetti­va e relazione unitaria in divenire tra sapere e realtà) – fanno sì che l’ammissi­bilità della revisione costituzionale alla luce della costituzione vigente, o al contrario, polarizzazioni con opposti obiettivi, costituiscano i termini di solu­zioni giuridiche altrimenti imponderabili. Tra questi due casi estremi, poi, so­no da ipotizzare tanti casi intermedi quanti ne sono possibili, per i quali non esistono regole. Al contrario, sono queste che discendono dall’esito determi­nato proprio dai suddetti rapporti di forza. Sul piano storico, politico, sociale e psicologico sono da fare valutazioni che non riguardano solo il fatto oggettivo del mutamento complessivo, avvenuto e più o meno radicale, ma la sua durata (modificazioni avvenute in maniera im­percettibile, non avvertite come rottura col passato), e con la durata, la perce­zione collettiva di esso.

Solo nel caso in cui il mutamento non sia stato lento, molecolare, progressivo, ma anzi rapido, concentrato, tumultuoso la collettività percepisce il mutamen­to e lo vive, sentendolo come rottura sostanziale tra vecchio e nuovo. Le con­vinzioni collettive sono quindi elemento determinante per argomentare e giu­dicare – anche in merito al diritto [<=] costituzionale – se un fenomeno è da consi­derarsi e da trattarsi in modo unitario o meno. Una rottura sul piano formale può, ad esempio, non corrispondere su quello contenutistico, nella successio­ne dei singoli atti fondamentali, e viceversa. Non solo il reale nel suo oggettivo determinarsi, dunque, ma il percepito nella psichizzazione del vissuto, come modalità di unificazione o valorizzazione degli eventi, quindi di capacità di lotta, è da tempo il fulcro di una colonizza­zione, senza esclusione di colpi, da parte della classe dominante all’attacco. E l’attacco emerge dall’abbandono dei contenuti, princìpi e valori della Costi­tuzione del 1948 – e non solo – oltreché dal “progressivo disfarsi, sul piano anche formale, della pratica costituzionale”. Il partito dell’etere di un Berlu­sconi, di chiaro stampo americano, è la conferma della contrapposizione all’art.49, e della sua vanificazione nei programmi, stili di vita e soprattutto nelle forme di costruzione di una coscienza comune, gestita sempre più dai mezzi di comunicazione di massa. Che monopoli privati dell’informazione siano stati favoriti nel loro sorgere di fatto – senza base legale – per poi trovare, a posteriori, ratifica nella “legge Mammì”, dà conto della subalternità coscienziale sia del Parlamento (anch’esso riconosciuto, a posteriori, intriso di ladri e corrotti), sia della Cor­te Costituzionale immersa nel “silenzio-assenso”, che direziona politicamente l’inerzia apparentemente neutrale del sempre valido laissez passer.

Le nuove leggi elettorali, “imposte politicamente dal referendum [<=] del 18 aprile 1993, hanno dato il definitivo colpo di piccone, anche sul piano formale, alla Costituzione del 1948”. “Culmine di un processo di crisi e degenerazione”, il referendum costituisce il punto formale di svolta, l’apertura del periodo di transizione in cui ormai ogni soluzione è aperta. Insediatesi nel vecchio alveo dei partiti smantellati, solo quando già erano au­tonomamente marciti, le nuove forze dominanti appaiono incapaci di muta­mento, nel presentarsi dietro le insegne del “nuovo”.  E le “novità” – già tutte realizzate negli Usa sin dagli anni ‘60 – pongono a pila­stro della loro realizzazione: l’ignoranza dei fatti reali, la cristallizzazione dei conflitti sociali, la socializzazione dell’ego secondo l’immagine forgiata dal sistema (restituito pure come istinto collettivo); il divario tra desiderio e realtà (in cui scelte e motivazioni al consumo, quale rattrappimento del cittadino, non hanno nulla a che fare con i processi di razionalizzazione); la scoperta e il ritorno ad un “privato” eterodiretto, o tout court perdita del “privato” nella vi­stosità del “collettivo” (azienda Italia, clubs, volontariato, ecc.), sostituito in tutte le forme di un’esistenza biologica, o coscienzialmente direzionata in una socializzazione come sola chiave d’accesso al Nuovo Ordine (si pensi alla “solidarietà”, coercitivamente suggerita, senza alternative concrete alla sua praticabilità, ad esclusione delle forme culturalmente conquistate per la lotta di classe [<=] o la difesa dei diritti); il linguaggio [<=] accessibile/persuasivo per intro­durre l’ideologia del miracolo; ecc.  La coscienza collettiva, deformata e ristretta in coscienza comune, è così an­corata alle fonde dell’immediatezza o dell’appetito, con l’unico scopo dell’a­dattamento all’esistente. Spezzare siffatta tirannia è còmpito del sapere, che appartiene alla ragione. Ma “la realizzazione del sapere è l’appropriarsi della ragione” (Hegel). 

[c.f.]

 

 

Corporativismo

Il corporativismo storico - È una dottrina politica elaborata dai teorici dello stato fascista o nazionalsocia­lista, e costituisce il fondamento ideologico di quella parte del diritto [<=] pubblico che, in queste forme totalitarie di stato, prevede una disciplina organica delle forze produttive. L’ideologia corporativa fascista e nazionalsocialista assume le forze produtti­ve come entità omogenee sotto il profilo sociale e merceologico e in ordine al supremo interesse della potenza nazionale. Il diritto corporativo fascista o na­zionalsocialista disciplina le forze produttive in quanto corpora, corpi, corpo­razioni cui si attribuiscono funzioni costituzionali di carattere normativo, con­sultivo, conciliativo, e i cui millantati ascendenti sono i collegia romani e le corporazioni medievali. La corporazione nazifascista associa, per rimozione ideologica della realtà storica della lotta fra le classi [<=], e per coazione giuridico-militare, lavoratori e proprietari all’interno di ciascun settore della produzione.

Nell’Italia fascista i sindacati corporativi (che organizzano in linee verticali di continuità padroni e lavoratori) dettano i contratti collettivi di lavoro [<=], la Ma­gistratura del lavoro previene o risolve i conflitti di lavoro, il Consiglio nazio­nale delle corporazioni ha funzioni consultive e normative in materia di poli­tica e diritto del lavoro. Il divieto di sciopero, sanzione giuridica necessaria di una violenza effettiva contro un’attività sociale reale, è ideologicamente pareggiato dal divieto di serrata, sanzione giuridica superflua di una contromisura padronale resa non necessaria dalla diretta repressione statale dello sciopero. Fine politico del corporativismo è la potenza della nazione [<=], cioè la potenza dei proprietari e funzionari del capitale e dei loro commessi politici. Nel diritto pubblico corporativo: a) la funzione normativa attribuita agli or­gani corporativi costituzionalmente rilevanti fornisce una base giuridica al pieno e arbitrario comando dei proprietari e funzionari del capitale sulla for­za-lavoro [<=]; b) la funzione consultiva è il risvolto dello spionaggio sociale su scala allargata, avente come scopo la prevenzione delle iniziative delle classi subalterne; c) la funzione conciliativa attua una delle modalità di repressio­ne, sul nascere o in itinere, di ogni tentativo collettivo o individuale di resi­stenza all’arbitrio padronale.

Il corporativismo secondo l’attuale sindacalismo confederale - In una prima fase – che si esaurisce intorno alla metà degli anni Ottanta e nel­la quale il sindacalismo triconfederale esprime ancora in qualche misura, sia pure decrescente, le rivendicazioni economiche dei lavoratori – gli apparati confederali e di categoria definiscono “corporative” quelle lotte per il salario [<=] che i lavoratori di determinate categorie, settori, aziende conducono o tentano di condurre al di fuori del controllo che gli apparati stessi esercitano su ob­biettivi, tempi, forme delle rivendicazioni.

Dalla metà degli anni Ottanta a oggi, il sindacalismo triconfederale riconduce alla nozione di “corporativismo” la lotta economica, tout court, dei lavoratori (i quali possono condurla con qualche credibilità e utilità di obbiettivi, tempi, forme solo a condizione di mettersi al di fuori del controllo degli apparti con­federali e di categoria, dal momento che il sindacalismo triconfederale non è stato nemmeno in grado di resistere alle piattaforme rivendicative presentate dal padronato sulla “scala mobile” e sugli altri aspetti del “costo del lavoro”, né di liberare i lavoratori dai lacci e lacciuoli che il padronato ha imposto alla con­trattazione collettiva nazionale e a quella integrativa – ridotta la prima a mar­ginale copertura di un rito, la seconda a nulla). Questa nozione triconfederale di “corporativismo” non ha riscontro né nella storia politica né in quella della letteratura teorica, e dunque fa violenza non solo e non tanto ai lavoratori – cosa non grave, dato che i lavoratori non sono la principale preoccupazione dei soprastanti politici e sindacali – ma anche e sopratutto all’epistème, altro nome della scienza cara ai moderni o antifilo­sofi dolci e forti, ai teorici dell’economia politica, ai loro apprendisti stregoni e a tutti i tardivi parvenus dell’imperante scientismo dei contabili.

Il corporativismo secondo noi - Il corporativismo è una forma di repressione del conflitto sociale sul versante dei dominati. Il conflitto fra le classi esclude il corporativismo, come il due esclude l’uno. Vice versa: il corporativismo, forma di lotta dei dominanti contro i dominati – ridotti questi, coattivamente o suasivamente, all’inerzia – esclude il conflitto fra le classi, come l’uno esclude il due. Questa vicenda rovesciata che è la lotta corporativa (e dunque unilaterale) di una classe contro l’altra, dei dominanti contro i dominati, mira ad assicurare ai primi l’uso discrezionale del lavoro dei secondi, del quale si vuole determi­nare, appunto unilateralmente, il prezzo, la quantità, l’organizzazione. Il corporativismo storico (fascista e nazista) raggiunge questi risultati attra­verso la forza armata dei corpi militari e paramilitari dello stato e della classe dominante, sotto la copertura del diritto corporativo che a sua volta ha trovato nella violenza di quei corpi la sua fonte storica. Il corporativismo contemporaneo, o “neocorporativismo” [<=], persegue gli stessi scopi del corporativismo storico, ma se ne differenzia sotto il triplice profilo della giustificazione ideologica, delle forme di repressione, dell’organizzazio­ne del lavoro.

Ideologia. Al punto di vista della potenza della nazione subentra il punto di vista dell’economia nazionale; all’ideologia del mercato [<=] nazionale subentra lo scientismo del modo capitalistico di produzione in epoca di formazione del mercato mondiale.

Repressione. Alla forza militare subentra l’imposizione politica, istituzionale, burocratica di un concerto preventivo sulla politica economica fra proprietari e centrali sindacali, con la mediazione del governo. Il dissenso e la resistenza dei dominati sono impediti o ostacolati per tre vie: burocrazia sindacale e iso­lamento dei lavoratori all’interno di settori, aziende, reparti; monopolio isti­tuzionale delle libertà sindacali e del diritto di sciopero; inibizione di fatto dell’esercizio di questo diritto anche attraverso la sua limitazione legislativa.

Organizzazione del lavoro. Il tipo di organizzazione del lavoro in regime neo­corporativo tende a sostituire alla solidarietà di classe l’appartenenza di cor­po, dove il corpo è l’individuo, la squadra, l’impresa (concentriche matrjoske a loro volta contenute in altre di dimensioni via via crescenti: il settore, l’eco­nomia nazionale, il mercato mondiale, il modo capitalistico di produzione come categoria dello spirito). Tra i fattori che, dal punto di vista dell’organiz­zazione del lavoro, concorrono a costituire l’appartenenza di corpo, tre sono più importanti degli altri:

- la nuova professionalità [<=] di massa rapidamente differenziabile mediante ad­destramento, donde la sostituzione del residuale principio di competenza con il prevalente principio di vigilanza nella formazione delle carriere e della ge­rarchia aziendale;

- la tendenza a estendere la parte variabile della retribuzione a danno di quella fissa e in dipendenza da indici di redditività, e insomma a trasformare la retri­buzione oraria in retribuzione a cottimo [<=], e il cottimo individuale in un cotti­mismo collettivo che stimola nei lavoratori la concorrenza e il controllo reci­proci;

- la sottomissione diretta anche del lavoro mentale (in aggiunta a quello mu­scolare) al ciclo produttivo, grazie soprattutto all’introduzione dei sistemi elettronici e informatici che fra l’altro, accrescendo l’isolamento tra le man­sioni divise, accentuano vocazioni di responsabilità e di promozione indivi­duali.

Nel corporativismo storico il lavoro fa corpo col capitale per forza senza amore. Nel neocorporativismo il lavoro fa corpo col capitale per amore e per forza: l’amore del diritto e della politica tende a diventare forza della burocrazia e poi forza della provocazione e della “strategia della tensione” a mano a mano che il costo sociale delle politiche neocorporative supera la soglia della tolle­rabilità e del consenso popolari. Di qui si può regredire al corporativismo fa­scista.

[gf.c.]

 

 

Cottimo

Alla superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare quale prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che viene pagata per una determinata quantità di lavoro. In realtà, sul mercato delle merci si pre­senta direttamente al possessore del denaro non il lavoro ma il lavoratore. Ciò che vende quest’ultimo è la propria forza-lavoro [<=]. Il lavoro stesso non ha valore. Nell’espressione “valore del lavoro” il concetto di valore non solo è del tutto obliterato, ma è rovesciato nel suo opposto. Tuttavia queste espres­sioni immaginarie derivano dagli stessi rapporti di produzione. Sono catego­rie di forme fenomeniche di rapporti sostanziali. L’economia politica ha mu­tuato dalla vita di tutti i giorni, senza sottoporla a nessuna critica, la categoria “prezzo del lavoro”. E “prezzo del lavoro” è parimenti irrazionale come un logaritmo giallo. Ma soltanto ora l’economista volgare è completamente sod­disfatto, poiché egli è pervenuto alla profonda intuizione del borghese, il qua­le è convinto di pagare denaro in cambio del lavoro. Quindi quel che egli chiama valore (e prezzo) del lavoro è in realtà il valore (e prezzo) della forza-lavoro, la quale esiste nella personalità del lavoratore ed è differente dalla sua funzione, il lavoro. Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di sa­lario [<=], ossia in valore e prezzo del lavoro stesso. Su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistifi­cazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla liber­tà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare.

Il salario assume a sua volta forme svariatissime, circostanza che non si può conoscere nei compendi di economia, i quali, brutalmente interessati alla ma­teria, trascurano ogni differenza di forma. La vendita della forza-lavoro ha luogo sempre per periodi determinati di tempo. La forma mutata in cui si pre­sentano immediatamente il valore giornaliero, il valore settimanale, ecc., della forza-lavoro è quindi la forma del salario a tempo. Il salario a cottimo non è altro che una forma mutata del salario a tempo. A prima vista pare nel salario a cottimo che il valore d’uso venduto dall’operaio non sia il funzionamento della sua forza-lavoro, il lavoro vivente, ma lavoro già oggettivato nel prodot­to, e che il prezzo di questo lavoro non sia determinato come nel salario a tempo, ma dalla capacità di rendimento del produttore. Ma è chiaro in sé e per sé che la differenza nella forma del pagamento del salario non muta nulla alla sua natura, benché una forma possa essere più favorevole di un’altra allo sviluppo della produzione capitalistica. Il salario a cottimo è la forma di sala­rio che più corrisponde al modo di produzione capitalistico. Esso serve di leva per il prolungamento del tempo di lavoro e per la riduzione del salario. Nelle fabbriche il salario a cottimo diventa regola generale perché in esse il capitale non può estendere la giornata lavorativa [<=] altro che aumentando l’intensità del lavoro. La forma del salario a cottimo è irrazionale come quella del salario a tempo. In realtà il salario a cottimo non esprime immediatamente alcun rap­porto di valore. Non si tratta di misurare il valore dell’articolo mediante il tempo di lavoro in esso incorporato, ma, viceversa, di misurare il lavoro speso dall’operaio mediante il numero dei pezzi da lui prodotti.

Il salario a cottimo offre al capitalista una misura ben definita dell’intensità del lavoro. Soltanto il tempo di lavoro che si incorpora in una quantità di mer­ce determinata in precedenza, e stabilita secondo esperienza, è considerato tempo di lavoro socialmente necessario e viene pagato come tale. Dato il sa­lario a cottimo è naturalmente interesse personale del lavoratore impegnare la propria forza-lavoro con la maggiore intensità possibile, il che facilita al capi­talista un aumento del grado normale dell’intensità. Ed è allo stesso modo nell’interesse personale del lavpratore prolungare la giornata lavorativa, perché così cresce il suo salario giornaliero o settimanale. Nel salario a cotti­mo il prezzo del tempo di lavoro è bensì misurato mediante una determinata quantità di prodotti, ma il salario giornaliero o settimanale varia con la diffe­renza individuale dei lavoratori. Qui si verificano dunque grandi differenze nel­le entrate reali dei lavoratori a seconda della diversa abilità, forza, energia, per­severanza, ecc., dei lavoratori individuali. Il maggior campo d’azione che il sa­lario a cottimo offre all’individualità tende, da un lato, a sviluppare l’indivi­dualità e con ciò il sentimento della libertà, l’autonomia e l’autocontrollo de­i lavoratori, dall’altro, a sviluppare la concorrenza fra di loro, degli uni contro gli altri. Esso ha perciò la tendenza ad abbassare il livello medio dei salari mediante l’aumento dei salari individuali al di sopra del livello stesso.

La qualità del lavoro è qui controllata dall’opera stessa, la quale deve posse­dere bontà media, se il prezzo a cottimo dev’essere pagato in pieno. Il salario a cottimo diventa da questo lato fonte fecondissima di detrazioni sul salario e di truffe capitalistiche. Siccome qui la qualità e l’intensità del lavoro sono controllati dalla forma dello stesso salario, si rende superflua buona parte del­la sorveglianza del lavoro. Questa forma costituisce quindi la base tanto del moderno lavoro a domicilio quanto di un sistema di sfruttamento e di oppres­sione gerarchicamente articolato. Quest’ultimo ha due forme fondamentali. Da una parte, il salario a cottimo facilita l’inserimento di parassiti fra capita­lista e lavoratore salariato, cioè il subaffitto del lavoro [lavoro interinale o in leasing]. Il guadagno degli intermediari deriva esclusivamente dalla differenza fra il prezzo del lavoro pagato dal capitalista e quella parte di questo prezzo che essi lasciano realmente pervenire al lavoratore [lavoro in affitto, sistema del caporalato]. Dall’altra parte, il salario a cottimo permette al capitalista di concludere con il capo-operaio un contratto per tanti e tanti articoli a un prezzo, per il quale il capo-operaio stesso si assume l’arruolamento e il pagamento dei suoi operai ausiliari. Lo sfruttamento dei lavoratpri da parte del capitale si attua qui me­diante lo sfruttamento del lavoratore da parte del lavoratore. Se il lavoratore non possiede la capacità media di rendimento, se quindi non è in grado di fornire un determinato minimo di opera giornaliera, lo si licenzia.

[k.m.]

 

 

Cottimo corporativo

Alla superficie della società corporativa il compenso dei lavoratori appare come partecipazione [<=] di costoro ai profitti, ai risultati dell’impresa e all’“economia” nel suo complesso. L’unico senso in cui i lavoratori “parteci­pano” ai risultati dell’impresa è che essi sono sicuri solo di una parte minore del salario diretto [<=] in busta paga, e che per ottenere il salario pieno devono sostenere lo sforzo produttivo massimo: altrimenti l’altra parte, quella maggiore e oscillante, si contrae. Qui sta l’imbroglio della “partecipazione agli utili” o peggio ai “pro­fitti”. Molti studiosi (sull’esempio giapponese) riconoscono che l’interesse a non metter in difficoltà l’impresa è soltanto dovuto all’alta flessibilità  sala­riale e lavorativa cui sono sottomessi i lavoratori. Più che di partecipazione, si tratta di una economia del ricatto. L’intera classe [<=] lavoratrice deve sottostare a una forma istituzionalizzata di ciò che si può appunto definire cottimo corporativo. La parvenza del coinvol­gimento dei lavoratori si mostra nel conferire ai lavoratori mansioni in cui appaia l’espressione della loro “creatività” nel controllo del processo di lavo­ro e della qualità di prodotti e macchinari. Ma tale parvenza è subito smenti­ta. L’organizzazione e l’orario di lavoro sono già pianificati con una normale misurazione tempi e metodi. Solo i tempi e i carichi di lavoro effettivi non so­no predeterminati, ma affidati al gruppo. Si noti bene che proprio su codeste basi si determinano poi le forti differenze di salario individuale.

Questa caratteristica, perciò, non implica affatto una reale delega delle deci­sioni strategiche. Ciò è anzi predisposto in vista di dare grande elasticità ed efficienza all’esecuzione dei compiti di produzione. Gli studiosi del fenome­no avvertono, infatti, che ciò non ha niente a che vedere con il concetto occi­dentale di democrazia [<=]: al contrario, la gerarchia e il rispetto dei ruoli sono ancora più rigidi, come in un esercito o in un ordine religioso. Ecco perché non si può parlare di consenso, se non in forma intrinsecamente coercitiva. Questa è la forma storica del neo-corporativismo [<=] di cui il sindacalismo giallo è massimamente responsabile nella sua subalternità. E queste sono le ragioni per cui Taiichi Ohno ha potuto sostenere che “il successo sta nel pieno con­trollo dell’impresa sul sindacato”. Il processo di produzione così riorganizzato si avvale completamente dei van­taggi di maggiore efficienza arrecati dal lavoro di gruppo. Si tratta appunto di ciò che Marx indicava come appropriazione gratuita dei risultati del lavoro combinato, collettivo, da parte del capitale. Nelle condizioni già raggiunte dall’esperienza giapponese si è riusciti ad attuare questa determinazione eco­nomica al massimo grado, grazie alla flessibilità [<=] del processo – dovuta innan­zitutto alla flessibilità della forza-lavoro, che ha reso possibile al capitale di avvalersi della flessibilità delle macchine [nella figura di multifunzionalità di lavoro e macchine].

La coesione del gruppo di lavoro, lungi dall’esser determinata dall’unità di classe, è sostenuta unicamente dalla concorrenza tra i lavoratori stessi, co­stretti a ciò dai caratteri oggettivi della multifunzionalità e della flessibilità della forza-lavoro (caratteri, si è detto, da cui soltanto può derivare la corri­spondente flessibilità del salario). Ciò implica solo una maggiore quantità di lavoro estorta alla classe dei “conduttori” del processo di lavoro, costretta a flettersi per non spezzarsi. Come esclamò un dirigente Kawasaki: “gli abbia­mo messo proprio il fuoco al culo!”. Quel simulacro di “partecipazione”, che i sindacati triangolari gialli di casa nostra non osano chiamare col vero nome di cottimo corporativo, viene da essi invocato, in barba alla rigidità del lavoro, per l’abbattimento di ogni “rigidità per il sistema delle imprese” per dar loro “cer­tezze nella determinazione della crescita dei costi”: per concludere, confede­ralmente e concertativamente, che “oggi siamo qui a parlare in maniera non antagonistica, grazie all’impegno del sindacato, che non può caratterizzarsi né come opposizione né come forza di governo, alla ricerca di un sistema di rela­zioni sindacali, con uno scambio equo e leale di certezze nei reciproci com­portamenti; oggi è possibile una convergenza tra l’interesse dei lavoratori e gli obiettivi dell’impresa”.

L’universalizzazione della forma di cottimo – non importa quale sia il nome: partecipazione, qualità totale, professionalità, produttività, e via post-modernamente mistificando – sotto la sua ampliata forma corporativa rinnova l’eterna “fonte fecondissima di detrazioni sul salario e di truffe capitalistiche” e il suo stesso occultamento. Non solo il capitalista può far credere che paghi direttamente la “capacità di rendimento” del lavora­tore [Marx si esprimeva così, laddove i triangolari parlano di “salario di pro­duttività”], ma così può proliferare quel sistema di sfruttamento e di oppres­sione gerarchicamente articolato che consiste nel richiedere e ottenere la pro­duzione del numero di pezzi strettamente necessario, nel facilitare l’inseri­mento di attività di sub-fornitura e sub-appalto, e nel ricreare la base del mo­derno lavoro a domicilio. E non basta, giacché col cottimo corporativo la “partecipazione” dei lavoratori è spinta fino all’economia nazionale, subordi­nando il loro compenso e il loro reddito alle sorti dei conti economici pubbli­ci, erosi e bucati da ogni altra parte. Il paralogismo mistificatorio ha così la sua epitome nell’imbroglio del “sistema-paese” (di cui il “farsi carico” delle sorti dell’Azienda-Italia è esemplare). Solo dopo un paio di secoli, dunque, la borghesia capitalistica – col sincero concorso sindacal-corporativo – è riuscita a inverare praticamente, sul merca­to mondiale, la propria felice profonda e falsa intuizione di “pagare denaro in cambio di lavoro”. Il logaritmo giallo metafora del prezzo-del-lavoro, an­corché irrazionale, è divenuto realtà operante. Il reale è irrazionale.

[gf.p.]

 

 

Credito # 1

(origini storiche)

La merce che funziona come misura del valore e quindi anche come mezzo di circolazione, è denaro.

a) [Questo] perpetuum mobile della circolazione viene immobilizzato, da moneta diventa denaro, appena la serie delle metamorfosi viene interrotta, e la vendita non è integrata da una compera successiva. Il denaro si pietrifica in tesoro e il venditore di merci diventa tesaurizzatore.

b) Il denaro funziona come mezzo ideale di compera. La figura di valore della merce, il denaro, diventa ora fine a sé stesso della vendita, per una necessità sociale che sgorga dalle condizioni stesse del processo di produzione.

La moneta di credito proviene immediatamente dalla funzione del denaro come mezzo di pagamento; con l’estendersi del credito si estende la funzione del denaro come mezzo di pagamento. Come tale, esso riceve forme proprie di esistenza, con le quali inabita nella sfera delle grandi transazioni commerciali.

Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto.

La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale. Le condizioni storiche d’esistenza per il capitale non sono affatto date di per sé stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale. Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di produzione.

Con la produzione capitalistica si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, che ai suoi inizi s’insinua furtivamente come modesto ausilio dell’accumulazione, attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari, disseminati in masse maggiori o minori alla superficie della società, nelle mani di capitalisti individuali o associati, diventando però ben presto un’arma nuova e terribile nella lotta della concorrenza e trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali. Nella misura in cui si sviluppano la produzione e l’accumulazione capitalistica, si sviluppano la concorrenza e il credito, le due leve più potenti della centralizzazione.

Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è ... il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. il credito pubblico diventa il credo del capitale.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia avuto bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche astrazion fatta dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene così creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.

Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o quel popolo. Parecchi capitali che oggi si presentano negli Stati Uniti senza fede di nascita sono sangue di bambini che solo ieri è stato capitalizzato in Inghilterra.

Il credito è una forma di circolazione creata direttamente dal capitale – che scaturisce in maniera specifica dalla natura del capitale. Indicare la differentia specifica costituisce sia uno sviluppo logico che una chiave per la comprensione di quello storico. Noi troviamo anche storicamente, in Inghilterra per esempio, (ed anche in Francia), [tentativi] di sostituire il denaro con titoli, d’altra parte di conferire al capitale, finché esiste nella forma del valore, una forma creata puramente da esso stesso, e infine tentativi di fondazione del credito nel momento stesso della comparsa del capitale. “Il banchiere ... differisce dal vecchio usuraio... per il fatto che egli presta al ricco e raramente o mai al povero. Quindi nel prestare egli rischia di meno, e può permettersi di farlo alle condizioni più vantaggiose; e, per entrambi i motivi, egli evita l’odio popolare che colpisce l’usuraio” [F.W. Newmann, Lectures on Political Economy, London 1851].

La forma del tesoro è soltanto la forma di denaro che non si trova in circolazione, di denaro la cui circolazione è interrotta e che perciò viene conservato nella sua forma di denaro. Quanto allo stesso processo di tesaurizzazione, esso è comune a tutta la produzione di merci, e come fine a sé stesso ha una sua parte soltanto nelle forme precapitalistiche non sviluppate di essa. Ma qui il tesoro appare come forma del capitale monetario e la tesaurizzazione come un processo che accompagna temporaneamente l’accumulazione del capitale, perché e in quanto il denaro figura qui come capitale monetario latente; perché la tesaurizzazione, lo stato di tesoro del plusvalore che è presente in forma di denaro, è uno stadio preparatorio procedente al di fuori del ciclo del capitale, funzionalmente determinato, per la trasformazione del plusvalore in capitale realmente operante.

Ma finché permane in stato di tesoro, esso non opera ancora come capitale monetario, è ancora capitale monetario che giace ozioso; non come prima, interrotto nella sua funzione, bensì non ancora idoneo alla sua funzione. Noi prendiamo qui l’accumulazione monetaria nella sua forma originaria reale, come effettivo tesoro in denaro. Essa può esistere anche nella forma di semplice avere, di crediti del capitalista che ha venduto M’ [capitale-merce]. Quanto alle altre forme, nelle quali questo capitale monetario latente nel frattempo esiste anche in figura di denaro che genera denaro, ad esempio come deposito fruttifero in una banca, in cambiali o in carte-valori di qualsiasi specie, esse non rientrano qui. Nella prima epoca della produzione capitalistica la moneta di credito ha una parte nulla o insignificante: questo è il corso della storia.

Sono state contrapposte l’una all’altra economia naturale, economia monetaria ed economia creditizia, come le tre caratteristiche forme economiche di movimento della produzione sociale. Queste tre forme non rappresentano fasi di sviluppo equivalenti. La cosiddetta economia creditizia non è altro che una forma dell’economia monetaria, in quanto ambedue le definizioni esprimono funzioni o modi di circolazione tra i produttori stessi. Nella produzione capitalistica sviluppata, l’economia monetaria appare ormai soltanto come fondamento dell’eco­nomia creditizia.

Economia monetaria e economia creditizia corrispondono così soltanto a differenti gradi di sviluppo della produzione capitalistica, ma non sono per nulla forme differenti e autonome di circolazione, di fronte all’economia naturale. Appartiene al credito il fatto che il capitalista, ad es., depositi in conto corrente fruttifero, presso una banca, il denaro che via via si accumula.

Per mezzo del fondo di ammortamento, nel quale secondo la misura del logorìo del capitale fisso il valore di questo rifluisce al suo punto di partenza, una parte del denaro circolante forma di nuovo tesoro – per un tempo più o meno lungo – nelle mani dello stesso capitalista, il cui tesoro all’acquisto del capitale fisso si era trasformato in mezzo di circolazione e allontanato da lui. È una ripartizione, che varia costantemente, del tesoro esistente nella società, il quale opera alternativamente come mezzo di circolazione e poi di nuovo viene separato come tesoro dalla massa del denaro circolante.

Con lo sviluppo del credito, che procede di necessità parallelamente allo sviluppo della grande industria e della produzione capitalistica, questo denaro non opera come tesoro ma come capitale, ma non nelle mani del suo proprietario bensì in quelle di altri capitalisti a disposizione dei quali è posto. Il sistema creditizio, come il capitale commerciale, modifica la rotazione (ciclo riproduttivo del capitale, non come fatto isolato ma come processo periodico) per il singolo capitalista. Su scala sociale, la modifica solo in quanto accelera non soltanto la produzione ma anche il consumo. In quanto il credito media, accelera e aumenta la concentrazione del capitale in una sola mano, esso contribuisce ad abbreviare il periodo di lavoro e quindi il tempo di rotazione.                    

[k.m.]

(da Il capitale, I, II; Lineamenti, II)

 

Credito # 2

(ricchezza sociale)

In che cosa si distinguono l’oro e l’argento dalle altre forme di ricchezza? Non per la grandezza del valore, tale grandezza essendo determinata dalla quantità di lavoro che vi si trova oggettivato. Ma come incarnazioni autonome, espressioni del carattere sociale della ricchezza. [La ricchezza della società esiste soltanto come ricchezza dei singoli, che ne sono i proprietari privati. Essa si presenta come sociale solo per il fatto che questi singoli individui, al fine di soddisfare i loro bisogni, si scambiano fra di loro valori d’uso qualitativamente diversi. Nella produzione capitalistica essi possono farlo soltanto per mezzo del denaro. Così, soltanto per mezzo del denaro la ricchezza del singolo viene realizzata come ricchezza sociale; in questa cosa che è il denaro, è materializzata la natura sociale di questa ricchezza. – f.e.].

Questa sua essenza sociale appare come qualcosa al di fuori, come cosa, oggetto, merce, accanto e al di fuori degli elementi effettivi della ricchezza sociale. Fino a che la produzione è in movimento, questo aspetto viene dimenticato. Il credito, anch’esso forma sociale della ricchezza, soppianta il denaro e ne usurpa il posto. È la fiducia nel carattere sociale della produzione, che fa apparire la forma monetaria dei prodotti esclusivamente come qualcosa di passeggero e ideale, come semplice rappresentazione. Ma, non appena il credito viene scosso – e questa fase si presenta immancabilmente nel ciclo dell’industria moderna – qualsiasi ricchezza reale deve essere trasformata concretamente e improvvisamente in denaro, in oro e in argento, una pretesa assurda che deriva però necessariamente dal sistema stesso.

La crescente concentrazione [di capitale] provoca, non appena abbia raggiunto un certo livello, una diminuzione del saggio di profitto [saggio di plusvalore calcolato in rapporto al capitale complessivo, costante e variabile]. La massa dei piccoli capitali frantumati viene così trascinata sulla via delle avventure; speculazione imbrogli creditizi ed azionari, crisi.

Quando si parla di pletora di capitale ci si riferisce sempre o quasi sempre, in sostanza, alla pletora di capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è compensata dalla sua massa – e questo avviene sempre nel caso di nuovi capitali di formazione derivata – od alla pletora che questi capitali, incapaci di operare per proprio conto, mettono, sotto forma di credito, a disposizione dei dirigenti delle grandi imprese. Questa pletora di capitale è determinata dalle medesime circostanze che provocano una sovrappopolazione relativa e ne costituisce quindi una manifestazione complementare, quantunque i due fenomeni si trovino ai poli opposti, capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall’altra. “Si sono venuti creando estesi crediti fittizi in conseguenza delle cambiali di comodo e del credito in bianco, fenomeno questo che è stato molto facilitato dal comportamento delle banche per azioni di provincia, che scontavano tali cambiali e poi le lasciavano riscontare dai bill brokers sul mercato londinese; in tale transazione, ciò che contava era unicamente il cre-dito della banca, mentre la qualità della cambiale veniva completamente trascurata” [Bank committee, 1858].

Il depositante rurale crede di affidare i suoi depositi semplicemente al suo banchiere e pensa inoltre che il banchiere, se concede dei prestiti, lo faccia soltanto a privati di sua conoscenza. Egli non immagina neppure lontanamente che il banchiere pone il suo deposito a disposizione di un bill broker londinese, sulle cui operazioni né lui né il depositante possono esercitare alcun controllo.

Funzione del credito nella produzione capitalistica

I. Formazione necessaria del credito come mezzo per attuare il livellamento del saggio di profitto, oppure il movimento di questo livellamento, su cui si fonda l’intera produzione capitalistica.

II. Riduzione dei costi di circolazione.

1. Uno dei principali costi di circolazione è rappresentato dal denaro stesso, come valore in sé: Esso viene economizzato, mediante il credito, in triplice maniera. A. viene completamente reso superfluo in una gran parte delle transazioni. B. Perché si accelera la circolazione del medio circolante. C. Sostituzione della moneta aurea con la carta.

2. Il credito accelera le diverse fasi della circolazione o della metamorfosi delle merci, ossia della metamorfosi del capitale e quindi accelera il processo della riproduzione in generale.

III. Formazione di società per azioni. Donde:

1. Ampliamento enorme della scala della produzione... [trasformazione delle] imprese governative [in] sociali.

2. Il capitale... acquista qui direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capitale privato. È la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione stesso.

3. Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari.

Il credito permette al singolo capitalista di disporre completamente, entro certi limiti, del capitale e della proprietà altrui, e per conseguenza del lavoro altrui. La possibilità di disporre del capitale sociale che non gli appartiene gli permette di disporre del lavoro sociale. Se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio, ciò avviene soltanto perché il processo di produzione, che per sua natura è elastico, viene qui spinto al suo estremo limite, e vi viene spinto proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono proprietari, i quali, quando operano personalmente, hanno paura di superare i limiti del proprio canale privato. Da ciò risulta chiaro soltanto che la valorizzazione del capitale, fondata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica, permette l’effettivo libero sviluppo soltanto fino a un certo punto, quindi costituisce di fatto una catena e un limite immanente della produzione, che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio. Il sistema creditizio affretta dunque lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione.

Ecco i due caratteri immanenti al credito: da un lato esso sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; dall’altro lato esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione. È questo duplice carattere che fa di ognuno dei principali araldi del credito, da Law fino a Isaac Pereire, uno strano miscuglio tra il ciarlatano e il profeta.

Il sistema creditizio che ha come centro le pretese banche nazionali e i potenti prestatori di denaro, e gli usurai che pullulano attorno ad essi, rappresenta un accentramento enorme e assicura a questa classe di parassiti una forza favolosa, tale non solo da decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche da intervenire nel modo più pericoloso nella produzione effettiva – e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa.

Chiunque ancora mettesse in dubbio che questi rispettabili banditi sfruttano la produzione nazionale e internazionale soltanto nell’interesse della produzione e degli sfruttati stessi, costui sarà certamente un po’ meglio istruito dal seguente sermone sull’alta dignità morale del banchiere: “Gli istituti bancari sono istituzioni religiose e morali. Quante volte la paura di essere visti dall’occhio attento e ammonitore del suo banchiere non ha distolto il giovane commerciante dalla compagnia di amici agitati e dissoluti? Quanto si preoccupa di godere buona reputazione presso il banchiere, di apparirgli sempre ineccepibile? Un aggrottamento di ciglia del banchiere ha su di lui un effetto maggiore delle prediche morali dei suoi amici; non trema egli al pensiero di poter essere sospettato colpevole di un inganno o della più piccola affermazione inesatta, per timore che ciò possa provocare diffidenza e quindi una restrizione o una sospensione del suo credito bancario? Il consiglio del banchiere è per lui più importante di quello del sacerdote” [G.M. Bell, direttore di banca scozzese: The philosophy of joint stock banking, Londra 1840].

[k.m.]

(da Il capitale, III, 1, 2)

 

 

Crisi

(sovraproduzione)

Le tre caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica sono:

1. La concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione, che cessano perciò di apparire come proprietà dei lavoratori diretti e si trasformano in potenze sociali della produzione, anche se in un primo tempo nella forma di proprietà privata.

2. L’organizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione, la divisione del lavoro e l’unione del lavoro con le scienze naturali. In seguito alla concentrazione dei mezzi di produzione ed alla organizzazione sociale del lavoro, il modo capitalistico di produzione sopprime, sia pure in forme contrastanti, e la proprietà individuale e il lavoro privato.

3. La creazione del mercato mondiale. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e, nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, un’interdipendenza universale fra le nazioni [<=]. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci [<=] sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.

La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà [<=] e della popolazione [<=]. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Durante il suo dominio di classe [<=] appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese.

Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovraproduzione. La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.

La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo: la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione (vale a dire l’accrescimento accelerato di questo valore). Per la sua intrinseca natura essa tende a considerare il valore-capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione possibile di questo valore. Fra i metodi di cui si serve per ottenere questo scopo sono inclusi: la diminuzione del tasso del profitto, il deprezzamento del capitale esistente, lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte.

L’accumulazione di capitale, per quanto riguarda il valore, è rallentata dalla diminuzione del tasso del profitto al fine di accelerare ancora l’accumulazione del valore d’uso, mentre questa a sua volta accelera l’accumulazione, per quanto riguarda il valore. Il periodico deprezzamento del capitale esistente, che è un mezzo immanente del modo capitalistico di produzione per arrestare la diminuzione del profitto ed accelerare l’accumulazione del valore-capitale mediante la formazione di nuovo capitale, turba le condizioni date in cui si compie il processo di circolazione [<=] e di riproduzione del capitale, e provoca di conseguenza degli arresti improvvisi e delle crisi del processo di produzione. L’enorme forza produttiva in relazione alla popolazione, quale si sviluppa in seno al modo capitalistico di produzione e, quantunque non nella stessa misura, l’aumento dei valori-capitali (non solo dei loro elementi materiali) che si accrescono molto più rapidamente della popolazione, si trovano in contrasto e con la base per cui lavora questa enorme forza produttiva, che relativamente all’accrescimento della ricchezza diventa sempre più angusta, e con le condizioni di valorizzazione di questo capitale crescente. Da questo contrasto hanno origine le crisi. L’azione di queste influenze contraddittorie si manifesta tanto simultaneamente nello spazio, quanto successivamente nel tempo; periodicamente il conflitto fra le forze contrastanti erompe in crisi, le quali sono sempre solo delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscano momentaneamente l’equilibrio turbato.

Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale [<=] e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda sulla espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono. 

Il modo capitalistico di produzione trova nello sviluppo delle forze produttive un limite il quale non ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza come tale; e questo particolare limite attesta il carattere ristretto, semplicemente storico, passeggero del modo capitalistico di produzione; prova che esso non rappresenta affatto l’unico modo di produzione che possa produrre la ricchezza, ma al contrario, giunto a una certa fase, entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo. La produzione capitalistica tende continuamente a superare questi limiti immanenti, ma riesce a superarli con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.  L’enorme capacità che il sistema della fabbrica possiede di espandersi a balzi e la sua dipendenza dal mercato mondiale, generano di necessità una produzione febbrile e un conseguente sovraccarico dei mercati, con la contrazione dei quali sopravviene una paralisi. La vita dell’industria si trasforma in una serie di periodi di vitalità media di prosperità, sovraproduzione, crisi e stagnazione. Detratti i tempi di prosperità, infuria fra i capitalisti una lotta accanita per la loro individuale parte di spazio sul mercato [<=]. La cosa che più incisivamente fa sentire al borghese, uomo pratico, il movimento contraddittorio della società capitalistica sono le alterne vicende del ciclo periodico percorso dall’industria moderna, e il punto culminante di quelle vicende: la crisi generale. Essa è di nuovo in marcia, benché ancora sia agli stadi preliminari.

[f.e.- k.m.]

 

 

 

Crisi del lavoro

(forza-lavoro e salario sociale)

La fase critica del capitalismo che è emersa con prepotenza già alla fine del 2008 ha portato con sé un evidente peggioramento del salario sociale reale [cfr. quiproquo 43], ossia delle condizioni generali dei lavoratori di ogni parte del mondo. Il salario reale è una misura determinata, diceva Marx, che “esprime il prezzo del lavoro in rapporto col prezzo delle altre merci; il salario relativo è, invece, il prezzo del lavoro immediato, in confronto col prezzo del lavoro accumulato, il valore relativo di lavoro salariato e capitale, il valore reciproco di capitalisti e lavoratori. Esso è determinato dal suo rapporto col guadagno, col profitto del capitalista. Il salario reale può restare immutato, anzi può anche aumentare, e ciononostante il salario relativo può diminuire”. Esso è naturalmente di classe, e, dunque, è sociale in quanto “vale non per il singolo individuo ma per la specie” e, pertanto, il lavoratore “non appartiene a questo o quel borghese ma alla classe borghese”.

Proprio questa sua caratterizzazione generale, di classe, implica che a momentanei miglioramenti salariali (diretti o indiretti) di una particolare branca produttiva o dei lavoratori di una determinata area geografica tenderà a corrispondere un peggioramento in altri settori o paesi, nel­l’ipotesi che le condizioni di accumulazione o di lotta economica (sindacale) non abbiano recuperato terreno a livello globale. La divisione internazionale del lavoro, e l’alta mobilità del capitale, da questo punto di vista, viene ideologicamente utilizzata dalla classe dominante per alimentare le condizioni di attrito tra lavoratori non coscienti, sulla base di immaginarie contrapposizioni etniche o religiose.

Pertanto, in una condizione come quella attuale, lo strumento della concorrenza tra i lavoratori [cfr. voce successiva] viene così ad essere esasperato anche perché è una delle leve che permette al capitale di non subire una crisi verticale, ossia di non precipitare drasticamente; la riduzione del salario al di sotto del suo valore è dunque frutto di tale fenomeno e consente al saggio generale di profitto di non cadere verticalmente, ma in maniera tendenziale. Accanto all’aumen­­to del grado di sfruttamento del lavoro, alla riduzione del prezzo degli elementi del capitale costante, alla sovrappopolazione relativa, al commercio estero e all’accre­sci­mento del capitale azionario, tale contrazione “rap­presenta per altro una delle cause più importanti che frenano la tendenza alla caduta del saggio del profitto”.

“La finzione economica scambia le leggi che regolano il movimento generale del salario ossia il rapporto fra classe operaia, cioè forza-lavoro complessiva, e capitale complessivo sociale, con le leggi che distribuiscono la popolazione operaia fra le sfere particolari della produzione. Se per esempio a causa di una congiuntura favorevole l’accumulazione è particolarmente forte in una data sfera di produzione, i profitti sono maggiori di quelli medi e il capitale addizionale preme per entrarvi, la domanda di lavoro e il salario saliranno naturalmente. Il salario più elevato attira nella sfera favorita una parte maggiore della popolazione operaia, finché la sfera sarà satura di forza-lavoro, e finché a lungo andare il salario riscenderà al suo livello medio anteriore o al di sotto di questo, qualora la calca fosse stata troppo grande. Allora l’immigrazione di operai nel ramo d’industria in questione non solo finisce, ma cede addirittura il suo posto alla loro emigrazione.

L’esercito industriale di riserva pre­me durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni. La sovrappopolazione relativa è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e dell’offerta del lavoro. Essa costringe il campo d’azione di questa legge entro i limiti assolutamente convenienti alla brama di sfruttamento e alla smania di dominio del capitale” [cfr. quiproquo 62].

Dunque, in una fase come quella attuale, caratterizzata da una potente contrazione nelle possibilità di accumulazione del capitale e, conseguentemente, una formidabile liberazione di forza lavoro, naturalmente la dinamica del salario sociale, dunque inteso come un unicum, tende al ribasso. Non c’è dunque da rimanere stupiti se i lavoratori dei paesi più arretrati ed indebitati dell’Unione europea, i cosiddetti piigs, vedano quotidianamente, ed inesorabilmente, peggiorare le proprie condizioni di vita: i margini di tale tendenza al ribasso sono, pertanto, ancora sufficientemente ampi giacché, il livello salariale medio percepito dalla classe lavoratrice nei cosiddetti paesi avanzati si è attestato a lungo al di sopra di quello sociale (mondiale medio complessivo di classe). Il fenomeno a cui si sta assistendo è ascrivibile alla eutanasia della middle class europea: dopo aver giovato, per decenni, delle “briciole” trasferite dallo sfruttamento dei lavoratori dei paesi dominati dal capitale imperialistico – quelle che Lenin definiva come briciole dei privilegi derivanti dalla posizione di “grande potenza” della “propria” nazione – la tendenza è oramai inarrestabile e dovuta alle ragioni di cui si è detto in precedenza.

Del resto, il processo di precarizzazione dei contratti di lavoro ha ripreso il suo corso – dopo essere stato alla base dell’accumulazione capitalistica almeno fino alla prima metà del secolo xx – proprio in coincidenza dell’emersione più grave della crisi che ha trovato la sua manifestazione più estrema dopo il fallimento forzato di Lehman Brothers. Da tale momento storico, dunque, le condizioni dei lavoratori, seguendo l’andamento generale dall’accumulazione intermittente del capitale mondiale, hanno subito, nell’occidente, un drastico peggioramento e, le follie accademiche, del tutto morali, che si pongono dinanzi a tale fenomeno (decrescita in primis) assumono un ruolo del tutto anacronistico e mistificatorio.

“Si capisce quindi la follia di quella sapienza economica che predica agli operai di adeguare il loro numero ai bisogni di valorizzazione del capitale. Il meccanismo della produzione e dell’accumulazione capitalistica adegua questo numero costantemente a questi bisogni di valorizzazione. Prima parola di questo adeguamento è la creazione di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva, ultima parola la miseria di strati sempre crescenti dell’esercito operaio attivo e il peso morto del pauperismo”.

Proprio per la natura fenomenica della riduzione del salario in molti dei cosiddetti piigs, è del tutto vano o legato a puri impeti volontaristici sperare in un movimento indistinto di ribellione che possa permettere un avanzamento sul terreno della lotta contro il capitale in putrescenza. In assenza di una valida organizzazione dei lavoratori (sindacato o pure partito), realmente egemone della piazza, che possa porre sul piano della lotta di classe eventuali rivendicazioni, ogni tentativo appare del tutto velleitario.

Ricordava Engels [cfr. dopo] come anche i sindacati siano “una necessità per le classi lavoratrici nella loro battaglia contro il capitale. Il saggio medio di salario è pari alla quantità di denaro sufficiente a riprodurre la specie degli operai in un certo paese, secondo lo standard di vita abituale di quel paese. Lo standard di vita può essere assai differente per diverse classi di lavoratori. Il grande merito dei sindacati, nella loro battaglia per alzare il saggio salariale e per ridurre l’orario di lavoro, è che essi tendono a far salire lo standard di vita. Una potente organizzazione permette agli uni di mantenere un relativamente alto standard di vita; mentre gli altri, disorganizzati e privi di potere, devono sottomettersi non solo all’inevita­bile, ma anche all’arbitraria usurpazione di coloro che li impiegano: il loro standard di vita viene gradualmente ridotto, essi imparano a vivere con salari sempre più bassi, ed i loro salari cadono naturalmente a quel livello che essi stessi hanno imparato ad accettare come sufficiente”.    

[f.s.]

 

 

Crisi e guerre # 1

(crollo del capitalismo)

Il capitalismo moderno è un capitalismo mondiale. Questo significa che i rapporti di produzione capitalistici dominano nel mondo intero, e che tutte le parti del nostro pianeta sono legate fra loro da un solido vincolo economico. L’economia mondiale è un’unità reale esistente. La con­nes­sione e interdipendenza gene­rale dei singoli stati capitalistici tra lo­ro li rende parti integranti di un sistema generale, mondiale. Le tendenze verso l’organizzazione superano i limiti del singolo stato [<=]. Di conseguenza il processo di organizzazione ha trovato [ottant’anni fa] in questi tentativi del mondo capitalistico la sua più alta espressione. Gli accordi monopolistici, le associazioni di imprese e le penetrazioni del capitale bancario nel­l’industria hanno creato un nuovo tipo di rap­porti di produzione; è subentrato un nesso organico attraverso il “con­trollo dei pacchetti azionari”, la “partecipazione” e il “finanzia­men­to”, che trovano la loro personale espressione nei “dirigenti” comuni delle banche e delle industrie, dei gruppi e dei grandi complessi monopolistico-finanziari.

Esistono legàmi anche tra singoli imprenditori capitalisti di differenti “paesi” e la natura di questi legàmi può in qualche caso concreto essere direttamen­te contrapposta al modo in cui questi “paesi” sono collegati tra loro. Tali capitalisti, posti l’uno di fronte all’altro, non soltanto si contrappongono come unità che producono la medesima “merce mondiale”, ma anche come parti del lavoro sociale ripartito su scala mondiale, che si completano reci­pro­camente sul piano economico. Nell’àmbito dei rapporti di produzione esistono anelli della catena, strati della scala gerarchica tecnico sociale, dissociati. Presso gli anelli superiori della catena si consolida sempre più la mentalità della lotta allo scopo di mantenere il sistema. Di conseguenza, la lotta si realizza contemporaneamente su diversi piani.

Il frazionamento della produzione capitalistica [<=], il suo essere anarchico, tuttavia, va ben oltre i limiti della divisione sociale del lavoro [<=]. Sotto il concetto di “divisione sociale del lavoro” si intende la ripartizione del lavoro tra i diversi imprenditori capitalisti “indipendenti” l’uno dall’al­tro; tuttavia essi devono ricorrere l’u­no all’altro, poiché l’uno fornisce le materie prime e le risorse all’altro. In conseguenza della reciproca dipen­denza di ogni parte dell’economia, anche gli imprenditori eterogenei sono in lotta tra loro. Questa generale tendenza viene accelerata da quella, tra le tendenze del capitalismo finanziario, che va nella direzione di più alti tipi di or­ganizzazione, che producono uno stabile raggruppamento tec­nico pro­duttivo. Il processo organizzativo non occorre che cominci dal lato tecnico produttivo; lo scopo soggettivo del suo supporto può anche non essere l’organizzazione ma il puro calcolo economico, e nonostante ciò l’obiettivo risultato finale può essere la creazione di nuovi com­plessi tecnico produttivi.

Il limite di questa tendenza è dato dalla trasformazione dell’intera economia in un grande monopolio finanziario combinato, nel quale tutte le rimanenti “imprese” abbiano smesso di essere tali e si siano trasformate in singoli laboratori, in filiali di questo complesso. L’intera economia corrisponde al raggrupparsi della borghesia mondiale. La lotta concorrenziale, cioè la lotta tra imprenditori capitalisti, può anche essere condotta all’e­sterno del mercato, nel senso proprio del termine, come la lotta per l’in­vestimento di capitale, cioè per l’e­stendersi del processo di produzione.

In questo caso è chiaro che devono essere applicati altri metodi di lotta rispetto al caso “classico” della concorrenza tradizionale. Il mercato diviene effettivamente mercato mondiale [<=], e cessa di essere “nazio­nale”. Come avviene all’interno di un gruppo imprenditoriale, derivante dalla fusione di più imprenditori, i prodotti rappresentano merci soltanto in quan­to vengono gettate sul merca­to dal­l’intero complesso articolato. All’in­terno di un paese, un prodotto è merce solo perché collegato con l’esi­sten­za del mercato mondiale. La differenza con l’economia “nazionale” sta semplicemente nell’estensione del sistema economico e nel carattere delle parti costitutive di tale sistema.

 La lotta per la ripartizione del plu­svalore [<=] si fa più complessa con la formazione di tutti i possibili monopoli capitalistici. La centralizzazione [<=] del capitale distrugge la concorrenza, però d’altra parte la riproduce incessantemente su una base più allargata. Essa annienta l’anarchia delle piccole unità produttive, inasprisce però i rapporti anarchici tra le grandi componenti produttive; essi si trasformano in attriti tra le parti fondamentali del grande meccanismo mondiale.

Gli “attriti” del sistema economico scom­paiono in alcuni ambiti soltanto per riaffiorare in più grandi dimensioni altrove: essi si trasformano in contrasti tra le parti fondamentali del grande sistema mondiale. E le opposizioni tra le singole parti di questa economia si pongono su due piani principali: su quello del mutuo “anar­chico” rapporto tra imprenditori e su quello della costruzione “anarchica” della società come società di classi [<=].

Nell’economia mondiale la centralizzazione del capitale trova la sua espressione nelle annessioni imperialistiche che si distinguono nettamente dalle linee fondamentali della lotta concorrenziale. Il passaggio al sistema del capitalismo finanziario rafforza sempre più il processo di trasformazione della concorrenza, anche come manifestazione immediata di potere. Corrispondendo anche la forma della lotta al tipo della concorrenza, ne consegue inevitabilmente sul mercato mondiale un inasprimento dei rapporti. Perciò il sistema del capitale finanziario mondiale richiama inevitabilmente la lotta armata dei concorrenti imperialisti. Qui risiede anche la radice dell’imperialismo [<=].

Qualsiasi fase dello sviluppo storico crea un particolare tipo di rapporti, e innanzitutto rapporti di produzione. Qualsiasi struttura di produzione ha quindi un tipo adeguato di guerra [<=]. Il significato sociale di questo fenomeno è che la guerra è un mezzo di riproduzione di quei rapporti di produzione, sul fondamento dei quali essa si origina. Le cosiddette guerre coloniali erano guerre di stati di capitalismo commerciale. Appena il capitale industriale e le sue organizzazioni statali si gettarono nella lotta per i mercati di sbocco, cominciarono le guerre per sottomettere al dominio del capitale industriale il mondo “ar­retrato”. Da ultimo [era il 1918, quasi un secolo fa], appena il modo di produzione capitalistico prese la forma del capitale finanziario, venne fuori anche un particolare tipo del potere statale, lo stato imperialistico rapinatore con il suo apparato militare centralizzato. Il ruolo sociale della guerra consisteva ora nell’estensione del dominio del capitale finanziario [<=], con i suoi monopoli industriali e cartelli bancari.

Nella società capitalistica la struttura economica conduce in ultima analisi a un’acuta crisi [<=] nella sua formazione politica, che si esprime nello scontro tra le organizzazioni statali del capitale e nelle guerre capitalistiche. La guerra, allora, suscita un raggrupparsi delle forze su una stessa base: la forma del potere statale e il suo contenuto sociale continuano a sussistere. Non si pensi tuttavia che lo stato sia qualcosa che stia al di sopra della società e delle classi. La società non contiene alcun elemento che stia sopra le classi.

D’altra parte, la funzione fondamentale dello stato consiste nel mantenimento, nel consolidamento e nel­l’estensione del processo di sfruttamento, in quanto si tratti del dominio di una minoranza. Come ebbe a scrivere Engels: “lo stato è un’organizza­zione della classe dei proprietari per la difesa contro i non proprietari”. Queste funzioni del potere statale non escludono in alcun modo il loro puro carattere di classe. Accade qui lo stesso che in un’or­ga­nizzazione qualunque della classe do­minante. L’or­ganizzazione statale è la più ampia organizzazione di classe, nella quale si concentra l’intera sua forza, oppressione, coercizione, nella quale la classe dominante è organizzata in quanto classe, non in quanto parte di essa.

La concentrazione della potenza sociale della borghesia nel potere sta­tale, concresciuto con le organizza­zioni economiche del capitale, crea una gigantesca resistenza per il movimento operaio. Tuttavia, la stessa forma capitalistica statale dell’econo­mia nazionale diviene possibile soltan­to con una determinata “maturità” dei rapporti capitalistici in generale. Essa è tanto più solida, quanto più sia elevato lo sviluppo delle forze produttive, l’organizzazione finanziaria capitalistica, l’insieme dei rapporti monopolistici del nuovo capita­lismo. Soltanto sotto queste condizioni si origina un nuovo tipo di potere statuale, il tipo “classico” dello stato imperialista.

A questo punto si origina la questione su quali siano le parti che agiscono coscientemente nell’economia mondiale capitalistica. Teoricamente è concepibile un capitalismo mondia­le come sistema di singoli imprenditori privati. Tuttavia la struttura del capitalismo moderno è di tal genere che le organizzazioni collettive capitalistiche che rappresentano i soggetti di questa economia sono i “capitali monopolistici di stato” [questa è la dizione che Bukharin introdusse nel 1918, a ridosso dell’esito della I guerra mondiale, per parlare dell’im­pe­rialismo “nazionale”, dominante in quella fase, prima di quelle successive fasi, dopo la II guerra mondiale e oltre, ufficialmente denominate rispettivamente “multinazionale” e “transnazionale”].

La distruzione delle forze produttive e il processo della centralizzazione capitalistica acutizzano oltre il consueto le opposizioni tra le classi. Come conseguenza della guerra si osservano i medesimi fenomeni che seguono alle crisi: accanto alla distruzione delle forze produttive, annientamento di piccoli e medi raggruppamenti internazionali e sottomissione di stati “indipendenti” sono all’ori­gine di combinazioni ancora più vaste che accrescono i costi dei gruppi in declino. I “capitali monopolistici di stato”, come parti componenti, formano le “coalizioni di stati” o la “le­ga dei popoli”. I presupposti per queste organizzazioni sono dati dalle associazioni capitalistiche finanziarie, in base alla loro reciproca “partecipa­zione”. La guerra ha rafforzato il processo di questa debole connessione tra “capitali monopolistici di stato”.

La crisi dovuta alla guerra conduce alla crisi dell’intero sistema. Ma negli spazi angusti dei singoli “capitali mo­nopolistici di stato”, il primo stadio della guerra era lo stadio di una riorganizzazione dei rapporti di produzione capitalistici delle parti del sistema in lotta tra loro. La guerra si attua in questa considerazione come una crisi di gigantesche proporzioni. Mentre la massa del plusvalore prodotto decresce, essa si concentra e si accumula nelle più forti unità economiche. Il processo di centralizzazione del capitale è stato straordinariamente accelerato, e questa centralizzazione accelerata ha modellato la “condi­zione negativa” della nuova forma di rapporti capitalistici, mentre quelle “positive” hanno creato i bisogni del­la guerra come un potente processo organizzato. I bisogni di guerra giocano, anche considerando la totalità dei rapporti sociali come rapporti tra le classi, un ruolo centrale, dato che la mobilitazione dei proletari per la guerra, e in nome di essa, è un presupposto necessario tanto per la conduzione della guerra imperialistica quanto per la produzione materiale.

La dimensione della guerra, la sua tecnica, i complessi rapporti interni dell’apparato militare, l’enorme domanda dei prodotti dell’industria militare e delle derrate alimentari, che l’organizzazione del conflitto immediatamente introduce, e infine il significato dell’esito delle operazioni di guerra per la classe al potere, pongono all’ordine del giorno come altamente possibile il superamento del­l’“anarchia” all’interno delle parti in lotta del sistema stesso. Tutto ciò è accentuato dalla mancanza di molti prodotti, in particolare di materie prime, con il deteriorarsi dei rapporti internazionali e che cresce sempre più con il generale esaurimento delle scorte e impoverimento.

È facile comprendere che la classe dei capitalisti (e i rappresentanti del capitale finanziario ne rappresentano l’ele­mento dinamico) nel suo insieme, attraverso questa centralizzazione, gua­dagna fuori dell’ordinario. In quanto non salti l’intero sistema, il modo di produzione capitalistico deve ridurre transitoriamente le forze produttive ed eliminare parzialmente i contrasti tra i singoli elementi del sistema economico; con ciò può ricominciare un ulteriore ciclo del loro sviluppo sotto il medesimo involucro. Questa distruzione delle forze produttive costituisce la conditio sine qua non dello sviluppo capitalistico; sotto questo punto di vista, le crisi rappresentano i costi di concorrenza e le guerre i faux frais (costi improduttivi) [<=] della riproduzione capitalistica.

Per forze produttive si intende la totalità dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro [<=], in natura. Lo sviluppo delle forze produttive è il fondamento dello sviluppo umano in generale, e si accorda col punto di vista della riproduzione. Il loro decrescere trova la sua espressione nel fatto che viene riprodotta una parte sempre più scarsa dei prodotti periodicamente consumati: ci si trova così di fronte a un regresso sociale. Rispetto al processo di produzione reale, invece, con l’intera economia all’insegna del­la guerra, ha luogo una nuova ripartizione delle forze produttive nell’in­teresse dell’industria bellica e in generale del lavoro a favore dell’eser­cito. Ma qui ha luogo, appunto, soltanto una nuova ripartizione del plusvalore, un suo mutamento di forma, nella direzione di quei gruppi capitalistici finanziari. In ciò consiste l’es­senza dell’organizzazione “capi­tali­stica di stato”, in quanto si ha a che fare con le categorie del profitto e della ripartizione del plusvalore. Il lavoro trasformato per i bisogni di guerra è caratterizzato come lavoro improduttivo. Ciò risulta chiaramente indagando la sua influenza sulle condizioni di riproduzione. Infatti, in tali condizioni, i mezzi di produzione sono ogni volta incorporati al sistema del lavoro sociale. La produzione di mezzi di consumo è condizione per la riproduzione, e questi mezzi non scompaiono senza lasciar traccia negli ulteriori cicli del processo di produzione, poiché il processo di consumo è considerato nei suoi fondamenti un caratteristico processo di riproduzione della forza-lavoro. Senza entrambi questi mezzi il processo di riproduzione non può aver luogo.

La produzione di guerra, viceversa, ha tutt’altro significato, e non compare in alcun modo come materiale nel successivo ciclo di produzione. L’ef­fetto economico di questi elementi è una grandezza puramente negativa. Se si considerano i mezzi di consumo, essi non generano qui forze-lavoro, poiché i soldati non figurano nel processo di produzione. Appena la guerra si arresta, i mezzi di consumo servono in gran parte non in quanto mezzi di riproduzione della forza-lavoro, ma come mezzi di produzione della specifica “forza militare”, che non gioca alcun ruolo nel processo di produzione. Ne consegue che il processo di riproduzione assume con la guerra un carattere “defor­mato”, regressivo, negativo: con qualsiasi ciclo produttivo successivo la base reale di produzione diventa sempre più ristretta. La spesa militare non produce, bensì sottrae. Si perviene in questo caso a una doppia perdita sul “fondo di riproduzione”: essa rappresenta il più importante fattore di distruzione; e le più importanti distruzioni belliche devono pure essere considerate sotto l’aspetto di un’intera serie di distruzioni indirette (vie, città, ecc. e anche forza-lavoro). Questa è la guerra, considerata dal punto di vista economico.

Si deve distinguere dal processo materiale la sua capitalistica, arida, feticistica, deformata espressione. Sulla trasposizione di questi due processi – quello materiale e quello formale – riposa la mostruosa teoria degli “effetti positivi” della guerra. Nel processo della guerra, la realizzazione del valore può essere contrassegnata o come distruzione del capitale o come realizzazione della decrescente massa di plusvalore, attraverso la sua nuova ripartizione a favore dei grandi gruppi. Una grande quantità del valore è accumulata in titoli, e costituisce segno di valore, la realizzazione del quale sta nel futuro. La grande inondazione di valori cartacei nelle loro forme più differenti è del tutto incommensurabile al reale processo di lavoro [<=], e sotto i rapporti della struttura capitalistica ciò diviene una nota caratteristica del suo sfacelo. In questa maniera la riproduzione negativa corre parallelamente al­l’aumentare del valore cartaceo.

Senonché, come detto, qualsiasi crisi capitalistica comporta una temporanea distruzione delle forze produttive. In ultima istanza, la crisi estende i settori dell’ulteriore sviluppo del sistema capitalistico. Lo stesso avviene anche in caso di guerra. Con la guerra si ha a che fare con una “cri­si”, anche se in dimensioni e forme mai viste, ma in nessun senso con un “crollo” del sistema capitalistico: dopo che si siano sanate le piaghe, riallacciati i rapporti e ricostruite le parti distrutte del capitale, il modo di produzione capitalistico riceverebbe la possibilità, ma a quale prezzo, di un ulteriore sicuro sviluppo, anche dei rapporti di produzione dati, sì che la loro estensione spaziale diverrebbe sempre più grande.

Ma le forze produttive esistono unite con i rapporti di produzione in un determinato sistema di organizzazione sociale del lavoro. Di conseguenza, la dissoluzione del sistema capitalistico sarebbe inevitabilmente accompagnata da un’ulteriore riduzione delle forze pro­duttive. In tal modo il processo di riproduzione negativa verrebbe estre­mamente accelerato. È altresì chiaro che, in ogni caso, la base reale della produzione sociale si restringe con la rotazione del capitale complessivo. Si ha qui una sempre crescente sottoproduzione: è questo il processo contrassegnato co­me riproduzione negativa.

Il periodo del “crollo”, perciò, non significa un annientamento degli ele­menti, ma un venir meno del nesso tra loro. La questione crisi o crollo dipende dal concreto carattere, profondità e durata, delle scosse riguardanti il sistema capitalistico. Que­st’ultimo potrebbe proseguire dopo un certo ristagno il suo sviluppo nelle forme più complete sul piano organizzativo. L’organizzazione dello sta­to borghese concentra in sé l’intero potere della classe dominante. Questo processo trova la sua espres­sione in due forme: la prima, nell’elimina­zio­ne della forza-lavoro dal processo di produzione; la seconda, nella diminuzione del salario reale del lavoro, nella dequalificazione di quest’ultimo e in ultima istanza nella lacerazione del nesso tra gli elementi inferiori e superiori della gerarchia di produzione.                                                                 

[n.b.]

(da Nikolaj Bukharin, Economia del periodo di trasformazione)

 

 

Crisi e guerre # 2

(svalutazione e spese belliche)

“Ogni nuova invenzione – dice Marx già nella Miseria della filosofia del 1847 – che permetta di produrre in un’ora ciò che finora si produce in due ore, deprezza tutti i prodotti dello stesso genere che si trovino sul mercato. Servendo di misura la valore di scambio, il tempo di lavoro diviene in tal modo la legge di un deprezzamento continuo del lavoro. Di più. Si avrà un deprezzamento non solo per le merci portate sul mercato, ma anche per gli strumenti di produzione e per la fabbrica in tutto il suo complesso”. E Marx – nel Capitale, a proposito delle contraddizioni intrinseche – precisa che “si tratta di una legge per la produzione capitalistica determinata dalle incessanti rivoluzioni nei metodi di produzione e dal deprezzamento continuo del capitale esistente che ne è la conseguenza”. Migliore tecnica significa soltanto che il prodotto viene fabbricato in un tempo più breve, cioè con l’impiego di meno lavoro di prima. Conseguen­temente il valore del prodotto deve scendere. Ma non soltanto il valore del prodotto. Per reazione questa diminuzione di valore si trasferisce sulle merci che si trovano sul mercato e che furono prodotte precedentemente con un maggiore spreco di tempo: esse vengono svalutate. “Per esempio, se in seguito a una nuova invenzione una macchina dello stesso tipo può essere riprodotta con diminuito dispendio di lavoro, la macchina vecchia si svalorizza più o meno, e quindi trasmette corrispondentemente meno valore al prodotto” [Marx, Il capitale, I.6].

La svalutazione [<=] è un fenomeno necessario del meccanismo capitalistico anche nel suo decorso ideale, cioè anche quando lo pensiamo nello stato di equilibrio. Essa è una conseguenza necessaria dell’incessan­te miglioramento della tecnica, del fatto che il tempo di lavoro serve come misura del valore di scambio. In accordo con la realtà, che sta a fondamento degli scemi di riproduzione marxiani, debbono essere considerate le svalutazioni dei valori esistenti. Infatti, “l’aumento della forza produttiva (che va sempre di pari passo con la svalutazione del capitale esistente) può accrescere direttamente il valore del capitale solo se, elevando il tasso del profitto, aumenta la parte di prodotto annuo che deve essere riconvertita in capitale. Questo può accadere unicamente se ciò derivi un accrescimento del plusvalore relativo o una svalutazione del capitale costante, unicamente dunque se si verifichi una diminuzione del prezzo delle merci che entrano nella riproduzione della forza-lavoro oppure negli elementi del capitale costante. Ambedue i casi determinano una diminuzione di valore del capitale esistente, e una riduzione contemporanea del capitale variabile in rapporto al costante; ambedue provocano la diminuzione del tasso di profitto, ma ne rallentano d’altro lato la caduta” [C, III.15,2].

“Caduta del tasso di profitto e accelerazione dell’accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva [<=]. L’accumulazione [<=] determina la caduta del tasso di profitto, in quanto determina una composizione superiore del capitale; d’altro lato, la diminuzione del tasso di profitto [<=] accelera, a sua volta, la concentrazione di capitale e la sua centralizzazione mediante l’espropriazione di piccoli capitalisti” [ivi, 1]. Se si trascura il fenomeno della svalutazione del capitale esistente, si è allora anche incapaci di spiegare il processo di concentrazione e centralizzazione [<=] così caratteristico e fondamentale per il meccanismo capitalistico.

Nel vedere come agisca la svalutazione del vecchio capitale sul processo di riproduzione, ci si limita alla rappresentazione di quegli effetti che sono collegati direttamente col problema dell’accumulazione. Esso trova il suo ultimo limite nell’insuf­fi­ciente valorizzazione. Ciò può essere conseguito, si è detto, soltanto per il fatto che a. il plusvalore relativo si elevi, o b. il valore del capitale costante venga diminuito. “Per la sua intrinseca natura, la produzione capitalistica tende a considerare il valore-capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione di questo valore. Tra i metodi di cui si serve per ottenere questo scopo sono inclusi: la diminuzione del tasso di profitto, il deprezzamento del capitale esistente, lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già prodotte. Il periodico deprezzamento del capitale esistente, che è un mezzo immanente del modo di produzione capitalistico per arrestare la diminuzione del tasso di profitto e accelerare l’accumulazione del valore-capitale mediante la formazione di nuovo capitale, turba le condizioni date in cui si compie il processo di circolazione e riproduzione del capitale e provoca di conseguenza degli arresti improvvisi e delle crisi del processo di produzione” [ivi, 2].

Dove si manifesta l’effetto della svalutazione del capitale? Per comprendere questo fatto non si deve dimenticare che il concetto di composizione organica del capitale sta in strettissimo rapporto con il processo di svalutazione del capitale esistente. La conseguenza della svalutazione si mostra cioè nel fatto che la medesima quantità di mezzi di produzione rappresenta un valore più piccolo. Nel caso in questione gli elementi di produzione prodotti a un dato valore devono essere svalutati in un momento successivo. Dato che il valore del capitale costante è diminuito, è da calcolare su un capitale diminuito la medesima quantità di plusvalore; il tasso di valorizzazione dunque cresce e in questo modo il limite del crollo viene procrastinato in un futuro più lontano.

“Distruzione del capitale dovuta a crisi significa svalorizzazione di masse di valore. Con ciò non vien distrutto alcun valore d’uso. Ciò che perde l’uno, guadagna l’altro. I vecchi capitalisti fanno bancarotta, benché il compratore delle loro merci, a­vendole acquistate sotto al loro prezzo di produzione, può realizzare un profitto. Una grande parte del capitale della società, cioè il valore di scambio del capitale esistente, è distrutto una volta per sempre, sebbene proprio questa distruzione, lasciando intatto il valore d’uso, possa promuovere notevolmente la nuova riproduzione” [Karl Marx, Teorie sul plusvalore, II.17]. Si osservi: per quanto le svalutazioni del capitale esistente che subentrano con le crisi, possano anche colpire i singoli capitalisti, esse tuttavia, per la classe dei capitalisti, per il sistema capitalistico sono una valvola di sicurezza, un mezzo per prolungare la vita del sistema. Gli individui vengono perciò sacrificati nell’interesse della categoria. “Con­temporaneamente alla caduta del tasso del profitto, cresce la masse dei capitali e al tempo stesso si verifica una diminuzione di valore del capitale esistente, che frena questa caduta e tende ad accelerare l’ac­cumulazione del capitale esistente”.

Sotto il concetto di svalutazione è da intendere la vendita delle merci a prezzi di fallimento; resta invece esclusa la svalutazione dei titoli, delle azioni, attraverso la quale l’economia non diventa né più ricca né più povera. Del resto, essa è soltanto di natura transitoria, e alla lunga i titoli crescono perfino di valore, perché con la caduta del tasso di profitto cresce sempre il loro corso. Devono dunque essere valorizzate masse sempre più grandi di capitali.

Le forme nelle quali si esprime la svalutazione del capitale accumulato, all’interno di una data economia, sono molteplici: !. Marx tratta inizialmente il caso “normale”, la svalutazione periodica in conseguenza del miglioramento della tecnica, dove subentra dunque la diminuzione di valore del vecchio capitale, mentre la massa dei mezzi di produzione rimane la stessa; 2. si otterrà pure il medesimo effetto sulla tendenza al crollo, se con le guerre, le rivoluzioni, l’uso prolungato senza temporanea riproduzione, ecc., l’apparato di riproduzione viene consumato o distrutto, non soltanto come valore ma anche come valore d’uso. Per una data economia la svalutazione agisce come se l’accumulazione di capitale si trovasse a un grado più basso dello sviluppo. In questo modo, lo spazio lo spazio di estensione per l’accumulazione di capitale diviene più grande.

Solo partendo da questo punto di vista teorico possiamo concepire la funzione reale delle distruzioni di guerra [<=] all’interno del capitalismo. Ben lontane dall’essere un impedimento per lo sviluppo del capitalismo o una circostanza che accelera il crollo dello stesso, le distruzioni e le svalutazioni di guerra sono piuttosto un mezzo per attenuare il crollo che si fa minaccioso, per dare aria fresca all’accumulazione di capitale. Ognuna delle perdite di capitale, conseguenti alle spese di guerra, alleggerisce la situazione di tensione e apre lo spazio per una nuova espansione. Così agirono soprattutto le colossali per­dite di capitale e le svalutazioni in se­guito alla guerra mondiale. Tale disavanzo enorme fu in parte coperto dall’eccedenza annuale della produzione sul consumo. Tuttavia la ripartizione di ciò sui singoli paesi è del tutto ineguale: con la guerra l’Europa si impoverì, mentre Stati uniti e Giappone si arricchirono più rapidamente che non in tempo di pace.

Ma poiché, nel medesimo tempo, la popolazione degli stati europei, nonostante le perdite di guerra, è cresciuta, è così presente una grande base di valorizzazione nei confronti di un capitale che è divenuto più piccolo, e si è dunque creato un nuovo spazio per l’accumulazione. Tutti i trasferimenti di valore sul piano internazionale agiscono nello stesso senso sui destinatari. I pagamenti di riparazione imposti alla Germania si traducono per essa in un acuirsi della crisi, ma vanno in senso opposto sui mercati degli “alleati”. Dalla teoria marxiana del­l’accumulazione, qui esposta, risulta che la guerra e la svalutazione del capitale, con essa collegata, attenuano la tendenza al crollo: dovevano dare un nuovo impulso all’accu­mu­lazione di capitale, e l’hanno dato. Falsa è però la concezione di Rosa Luxemburg, per cui “anche dal puro punto di vista economico, il militarismo appare al capitale un mezzo di prim’ordine per la realizzazione del plusvalore, cioè come campo dell’ac­cumulazione”. Che la faccenda si possa esporre dal punto di vista del singolo capitale, cosicché le forniture dell’esercito da sempre offrono l’op­portunità per un rapido arricchimento, è cosa nota.

Dal punto di vista del capitale complessivo, però, il militarismo è un settore di consumo improduttivo. Qui i valori vengono sprecati invece di essere “risparmiati”, cioè investiti come capitale produttivo. Ben lontano dall’essere un “settore di accumulazione”, il militarismo rallenta piuttosto l’accumulazione. Gran parte del reddito della classe operaia che potrebbe arrivare nelle mani della classe imprenditoriale viene confiscata dallo stato con le imposte indirette e (in gran parte) speso per scopi improduttivi. Questa è una delle cause del rallentamento della formazione di capitale, e l’impedimento della formazione di capitale si può scorgere nel fatto che l’emissione di valori pubblici aumenta a dismisura.                                                 

[h.g.]

(da Henryk Grossmann, La legge dell’accumulazione e del crollo del capitalismo, III.1,11)

 

 

Crisi monetaria

(definizione generale)

In periodi di depressione la domanda del capitale da prestito, produttivo d’interesse [<=], è domanda di mezzi di pagamento e niente altro; in nessun caso è domanda di denaro come mezzo di acquisto. Il tasso dell’interesse può salire molto in alto, indipendentemente dal fatto che vi sia sovrabbondanza o penuria di capitale reale – capitale produttivo e capitale-merce. La domanda di mezzi di pagamento è una semplice domanda di convertibilità in denaro, quando i commercianti e i produttori possono offrire delle garanzie sufficienti; è una domanda di capitale monetario [<=] quando ciò non si verifica, quando cioè un anticipo di mezzi di pagamento dà loro non solo la forma monetaria, ma l’equivalente che loro manca, sotto una forma o l’altra, per il pagamento. È un principio fondamentale della produzione capitalistica che il denaro si contrappone alla merce [<=] quale forma autonoma del valore, ossia che il valore di scambio deve assumere nel denaro una forma autonoma, e ciò è possibile unicamente quando una merce determinata diventa la materia al cui valore si devono commisurare tutte le altre merci, cosicché proprio perciò diventa la merce universale, la merce par excellence in contrapposizione a tutte le altre merci.

Ciò si deve manifestare – soprattutto presso le nazioni capitalistiche sviluppate, che sostituiscono il denaro in grandi quantità – in due modi: da un lato mediante operazioni di credito, dall’altro mediante moneta di credito. In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore. Di qui la svalorizzazione generale delle merci, la difficoltà, anzi l’impossibilità di trasformarle in denaro, ossia nella loro forma puramente fantastica. In secondo luogo, la moneta di credito stessa è denaro unicamente nella misura in cui rappresenta, in assoluto, nell’importo del suo valore nominale, il denaro effettivo. Con il deflusso dell’oro, la sua convertibilità in denaro, ossia la sua identità con l’oro reale, diventa problematica. Di qui misure coercitive, aumento del tasso dell’interesse ecc. al fine di assicurare le condizioni di questa convertibilità. Ciò può essere più o meno portato a eccessi mediante un’errata legislazione fondata su errate teorie del denaro e imposta alla nazione [<=] nell’interesse di trafficanti di denaro.

Ma la causa prima si trova nel fondamento stesso del sistema di produzione. Una svalorizzazione della moneta di credito (senza parlare dell’eventualità, del resto puramente immaginaria, che essa perda le sue caratteristiche di denaro) scuoterebbe tutti i rapporti esistenti. Il valore delle merci viene quindi sacrificato al fine di salvaguardare l’esistenza immaginaria e indipendente di questo valore del denaro. Come valore in denaro esso in generale è sicuro soltanto fino a che è sicuro il denaro. Per qualche milione in denaro devono essere sacrificati molti milioni di merci. Ciò è inevitabile nella produzione capitalistica e costituisce una delle sue attrattive. Nei modi di produzione precedenti ciò non si verifica perché, data la ristrettezza della base su cui si muovono, non si sviluppa né il credito, né la moneta di credito. Fino al punto in cui il carattere sociale del lavoro appare come l’esistenza monetaria della merce, e quindi come una cosa al di fuori della produzione reale, le crisi monetarie sono inevitabili, indipendentemente dalle crisi reali o come aggravamento di esse. D’altra parte è evidente che, fino a quando il credito di una banca non viene scosso, essa attutisce in tali casi il panico accrescendo la moneta di credito, mentre lo accentua quando invece la ritira. Tutta la storia dell’industria moderna dimostra che in realtà, se la produzione interna fosse organizzata, il denaro sarebbe richiesto soltanto per il saldo del commercio internazionale, ogniqualvolta il suo equilibrio fosse momentaneamente alterato. Che il mercato [<=] interno non abbia ormai più bisogno della moneta metallica, lo dimostra la sospensione dei pagamenti in contanti delle cosiddette banche nazionali, sospensione a cui si ricorre in tutti i casi estremi come all’unico rimedio.

[k.m.]

 

 

Critica

Sappiamo qual è il prezzo di una raccolta abusiva di testi critici marxisti, come quelli incessantemente riproposti su queste pagine: il prezzo del falli­mento. O per lo meno del fallimento momentaneo (dell’oblìo al limite). Nes­suno dei testi così raccolti ambisce al “successo” (terribilmente sfigurante). Ma ad ogni tappa di questo lungo viaggio-processo (mentale), del fallimento abbiamo la preveggente consapevolezza quando noi persistiamo nel confidare nella proposta di una critica al­tra (radicale nel suo farsi e proporsi) e strutturalmente poco attraente nelle forme dell’apparenza. Tuttavia, essendo noi amanti delle locuzioni dialetti­che, ci atteniamo alla constatazione che la “critica” (integrata) odierna è sem­pre favorevole alle strutture attuali (conservatrici), anche se di significato an­ti-democratico [<=], e sempre contraria, nei fatti, alla sperimentazione e alla ricerca di nuove relazioni, anche se di significato apertamente democratico. Le sue esigenze di “costume” e “morale” – come dire? – compartecipanti, annientano tutta l’essenza della critica: la critica integrata, cioè, si illude di produrre nel­la società demente nuove proporzioni umane, e funziona come una Maga Cir­ce al contrario: trasforma le bestie (sociali) in uomini; così facendo, la critica integrata, più che nuove composizioni collettive, riproduce solo la demenza (e se stessa, come complice della demenza). La sua esortazione al “cambiamen­to” è semplicemente spinta da una immensa ambizione alla propria istituzio­nalizzazione.

Se, come la storia suggerisce, ogni società costruisce e tende a codificare un proprio sistema coerente di mistificazione – per riempire il “vuoto” di consen­so che potrebbe aprirsi con l’acuirsi della crisi generale del capitale nella sua forma democratica – le aspettative della critica integrata, e le sue possibilità di successo (nel riempire quel “vuoto”, intendiamoci), crescono. È proprio a par­tire da quel “vuoto” che si rende possibile, per la critica integrata, un suo pos­sibile insediamento (passivo, plaudente) nelle forme immediate (storico-determinate) della comunicazione. È vero, insomma, che le debolezze della critica integrata stanno nei compro­messi (teorici e pratici) con il dominio del capitale democratico, da essa inte­so, ancora, come il migliore dei mondi possibile: servitrice dell’altare, si dan­na l’anima nel tentar, con l’anfora adeguata, di spegner le fiamme del conflit­to confondendo con stereotipi. La stabilità di dimora, del resto, ha sempre in­teressato la critica integrata, e dunque la comunanza con lo stato di cose ha dato alla stessa la possibilità di realizzare l’abbandono dello scomodo dell’u­topia, andando incontro, con incitamenti vocianti ed ambigui, allo spronare, nel “dopo-muro”, di fantasiose “apologie dell’esistente”.

Anche questa volta il nostro è un fallimento non voluto, obbligato; il non far parte, noi, di tale critica, ci vede trascinati nell’odiato mondo del capitalismo senza esserne attratti. Ma la prigionia (sociale) non sprona la nostra immagi­nazione a fuggire verso i territori rigogliosi (e ricchi) dell’integrazione, per quanto allettanti restino quei canti di sirena, né, tanto meno, di ripararci nei territori isolati della “pratica specifica”. E, per colmare la misura del nostro odio (odio di classe, e per ciò fuori moda), intendiamo qui esprimere con chiarezza i fondamenti di una critica non integrata:

- la critica (teorica e pratica, mentale e fisica insieme) è la coscienza [<=] della necessità-possibilità del balzo in avanti; ciò significa: a) essa non è qualcosa per sé (lavoro fine a se stesso, “puro”) ma parte integrante di un processo rea­le, di un “movimento”, più esattamente: di un’azione, l’azione della “classe oppressa”, del “proletariato”; b) è parte peculiare di questo movimento, qual­cosa di particolare all’interno di questo tutto.

- la critica è, secondo il suo contenuto, innanzitutto il prodotto della conside­razione dei conflitti di classe e dell’anarchia della produzione; secondo la sua forma, riferimento (trasformazione, elaborazione) di materiale mentale prece­dentemente trovato.

- la critica è dialettica (e non metafisica) in quanto concepisce il mondo (na­turale, storico e spirituale) come un processo di sviluppo (a salti, per succes­sione non lineare di momenti catastrofici) per il quale non può esserci alcuna verità assoluta.

- la critica è materialistica (e non idealistica), si pone cioè su un “terreno rea­le”, e non considera il divenire come “sviluppo di un’idea che esiste in prece­denza”: è la realtà che determina; dove per realtà intendiamo: a) la produzio­ne materiale come base dell’intero processo della vita sociale; b) la lotta di classe [<=] come forma dello sviluppo storico. [D’altro lato, la critica materialisti­ca racchiude in sé, per così dire, la partiticità, imponendo una valutazione di ogni avvenimento l’accettazione diretta e aperta del punto di vista di un deter­minato gruppo sociale].

I caratteri specifici della critica (da delineare collettivamente nelle sedi oppor­tune, di base in azione e di gruppi di studio) partono dal principio che impe­gna “a subordinare ogni conoscenza teorica al fine dell’azione rivoluzionaria [<=]” secondo lo schema prassi-teoria-prassi. Quando, la critica del guasto, nella sua scoperta e descrizione del Deserto, ol­treché indicare la Barbarie, indica anche la sua negazione (il suo necessario tramonto), essa mostra, ai soggetti sociali “rivoluzionari”, i punti di rottura dove la loro leva può essere applicata nel modo più produttivo. Si tratta, in­somma, di diffondere, tramite la critica non integrata, i processi di crisi [<=] e destabiliz­zazione del capitale.

[n.g.]