A- Anti-

(ateismo, anticapitalismo)

La mancanza di proprie precise determinazioni – e dunque di perso­nalità e coscienza collettiva [?] – da parte della sinistra si misura dalla frequenza con cui i suoi esponenti ricorrono a definizioni di se stessi e della loro parte concepite prevalentemente in riferimento alle altrui determinazioni: per il tramite di un ridondante uso di prefissi quali l’a privativo o l’anti negativo. Si possono distinguere casi diversi, a seconda che la determinazione posta originariamente dalla classe dominante sia immaginaria o reale, e, in quest’ultimo caso, se già la sola negazione di quella realtà sia o no suscettibi­le di sviluppi contraddittori. L’uno o l’altro dei casi ha anche conseguenze profondamente diverse, che si possono esemplificare.

Ateo vuol dire senza dio – dunque definirsi “ateo” significa comunque riferir­si, sia pure negativamente, a un “dio”, ossia riconoscere la divinità come cate­goria di riferimento. È questo un segno chiarissimo di subordinazione a una de­terminazione del potere – una determinazione puramente ideologica e irreale, e pertanto indeterminata. Basterebbe ricordare l’ironica confutazione dei falsi sofisti scolastici, sulla prova ontologica dell’”esistenza di dio”, da parte dell’insospettabile Hegel [insospettabile per quanti almeno, incomprensibil­mente, attribuiscono significato “divino” al suo idealismo]. Cosicché, in quan­to “l’essere e il nulla son lo stesso”, il theós implica anche l’a-theós, e prender quest’ultima parte significa accettare anche la prima. “In nessun luogo, né in cielo né in terra v’è qualcosa che non contenga in sé tanto l’essere quanto il nulla – dice Hegel. Così perfino in dio la qualità, cioè l’attività, la creazio­ne, la potenza, ecc., contiene essenzialmente la determinazione del negativo. È invece il sedicente senso comune o buon senso, quello che, giacché rigetta l’inseparabilità dell’essere e del nulla, potrebbe essere invitato a scoprire un esempio in cui si trovino separati (separato p.es. qualcosa dal suo termine o limite, oppur l’infinito, dio – come dianzi fu detto, dall’attività). Non si può aver in mente di ovviar da ogni parte alle confusioni, in cui s’imbatte la co­scienza ordinaria a proposito di cotesta proposizione logica. Sono infatti ine­sauribili”.

Perciò un comunista [?] che non voglia cadere nella trappola della subordinazio­ne all’ideologia dominante, anche in un caso come questo, non ha che da evi­tare ogni “procedimento estrinseco e negativo, che non appartenga alla cosa stessa, ma abbia la sua radice nella semplice vanità, come smania soggettiva che conduca a nient’altro che a proclamare la vanità dell’oggetto trattato dia­letticamente”. Per non rimanere nella medesima vuota identità concettuale del “divino”, affidandosi a un semplice prefisso privativo, è sufficiente porre di­rettamente la propria entità positiva, di materialista innanzitutto e – per non essere bloccato in una fissità predeterminata del dato rozzo (tipica del mate­rialismo volgare e dell’empirismo immobile) – di dialettico, in una determina­zione storica del processo in divenire: con il che ogni possibile riferimento all’ideologia del “divino” è esclusa per definizione. [Per estensione, si consi­derino gli equivoci e i danni provocati da quanti, servi del potere, si sbraccia­no a propagandare la “bellezza” dell’a-politico, a-partitico, e via privando, fi­no alle pretese di in-dipendenza; tanto da far evocare, qui, il buffo omino di Altan che chiede candidamente: indipendente da chi?]. In un certo senso è da ricomprendere in questa medesima rubrica anche la ri­cerca dell’utopia: tutti i sognatori del “luogo che non c’è”, in ogni tempo, hanno di fatto sempre cercato la perfezione del luogo – il topos – in cui erano immersi, negandone con quella “u” solo le malefatte; praticamente mai, pro­prio perché “utopisti”, essi sono stati capaci di formulare una concezione del­la società fondata positivamente su basi materialmente nuove, mai hanno messo in discussione il modo di produzione – i rapporti di proprietà – ma han­no sempre fatto riferimento implicito (negativo) alla società esistente, criti­candone al più alcuni contenuti secondari della produzione se non solo della distribuzione, per stigmatizzare in astratto le “ingiustizie” di quella società.

Anticapitalistico si dice, in politica, di tutto ciò che presuma di opporsi al ca­pitalismo, in quanto modo di produzione e di vita, sistema economico sociale. Dunque, anche qui si tratta di una determinazione in negativo, che assume come punto di riferimento qualcosa posto da altri. Tuttavia, a differenza dell’“ateismo”, che pone al suo centro una parola – dio – più vuota di senso dello stesso suono che produce, l’“anticapitalismo” si riferisce pur sempre al­la “cosa” più corposa e consistente di tutta la storia moderna, fondata sul rap­porto di capitale [?]. Ma, purtroppo, la differenza è tutta qui e qui finisce. Al di là delle buone intenzioni di quanti, dichiarandosi “anticapitalisti”, ritengano di opporsi allo “stato di cose presente”, la mera posizione “anti” corrisponde, sì, a un encomiabile moto dell’animo, un’attitudine, un atteggiamento un com­portamento e un’idea, ma nulla più. Ciò può pertanto servire solo come ban­diera ideologica – rischiando peraltro di ridursi a retorica dichiarazione di “va­lori” [?] – ma senza essere capace di aggiungere neppure un’ette alla critica dell’economia politica del capitale.

È soltanto codesta critica [?], infatti, che – come base minima – serve a conoscere, analizzare e rivelare, in tutte le sue contraddizioni, il reale funzionamento pratico del modo di produzione capitalistico. Ma già si è, qui, a un livello di scientificità tale per cui la mera anti-nomia si eleva nello sviluppo di forme antitetiche la cui dialettica non si cristallizza in semplice negazione negativa. Non è di certo un caso che mai Marx proponga il concetto di “anticapitali­smo” (e verosimilmente neppure ne usi il termine), come mera opposizione radicale a qualcosa di interamente definito dalla parte avversa – e in larga par­te, generalmente, sconosciuto. Per Marx la critica del capitale serve a indivi­duare – questo è il socialismo scientifico – le forme antitetiche della sua unità sociale. In tal modo questa antitesi del capitale – che è tutt’altro dall’“anticapitalismo” – si pone oggettivamente come processo il cui svolgi­mento conduce alla conservazione e al toglimento, all’elevazione ossia al su­peramento dialettico [aufhebung] di entrambi i termini della contraddizione, nessuno dei quali può sussistere e permanere in quanto tale indipendentemen­te dall’altro. Già a questo livello, l’antitesi del capitale mostra ben altra po­tenza rispetto all’anticapitalismo, generando oggettivamente un antagonismo soggettivo altrimenti fondato, i cui stessi fini non possono prescindere dalla loro eterogenesi.

Ma, ancora di più, la critica scientifica al rapporto di capitale – pur senza tra­scendere in una fuga utopica al di là della finitezza dei limiti posti da quel rapporto stesso – già intravvede, occultate nella società esistente, le nuove for­me a venire. Non si tratta, cioè, di definire il “comunismo” [?], e neppure di par­larne come un qualcosa di onirico, di là da venire. Ma è in questione – sempli­cemente, ed è difficile a farsi – la transizione socialista in tutte le sue fasi di maturità, in tutti suoi termini medi , la sua mediazione [?]. E per un qualsiasi pro­gramma minimo di transizione il semplice “anticapitalismo” non solo non è di aiuto, ma può perfino essere fuorviante in quanto illusorio. [Tutto ciò che è stato detto e fatto in nome di anti-imperialismo, anti-fascismo, anti-nazismo, anti-razzismo – e via così con altre anti-patie, fino alla suprema ambiguità dell’anti-sistema – correda compiutamente l’esemplifica­zione della dipendenza proprio da quelle medesime “patìe”: si dichiara antim­perialista anche Saddam Hussein, antifascista la Dc che fu, antinazista qual­siasi sionista, antirazzista perfino Bossi; tanto che lo stesso nazismo si presen­tò come un movimento “antisistema”, con buona pace, oggi, per Wallerstein & co. e manifestolibri.

[gf.p.]

 

 

Accumulazione

(imperialismo e guerra)

La speranza in un’evoluzione pacifica dell’accumulazione del capitale, in un “commercio e in un’industria fiorenti nella pace”, insomma l’intera ideologia manchesteriana dell’armo­nia di interessi tra le nazioni commerciali del mondo – altra faccia del­l’armonia di interessi fra capitale e lavoro, nata nel periodo di Sturm und Drang dell’economia politica classica – parve trovare conferma pratica nel breve periodo di libero scambio [?] in Europa fra il 1860 e il 1880. Sua base è il falso dogma della scuola liberoscambista inglese, secondo cui lo scambio delle merci è la premessa e condizione unica dell’accumulazione del capitale, e questa fa tutt’uno con l’economia mercantile. Il puro punto di vista dello scambio delle merci [?], dal quale si originò l’illusione liberoscam­bista dell’armonia d’interessi sul mercato mondiale [?], è stato abbandonato non appena il grande capitale industriale [?] ebbe preso talmente piede nei principali paesi del continente europeo, da porre con urgenza il problema delle condizioni della sua accumulazione. E queste dovevano far passare in primo piano, contro la reciprocità d’interessi fra gli Stati capitalistici, il loro antagonismo, la loro concorrenza nella lotta, mentre il libero commercio, la politica di apertura dei mercati diveniva la forma specifica dell’impotenza degli Stati non capitalistici di fronte al capitale internazionale e dell’equilibrio fra i capitali concorrenti, il preambolo all’occupazione parziale o totale delle colonie o delle sfere d’interessi.

L’accumulazione capitalistica presa nel suo insieme, come concreto processo storico, ha dunque due lati diversi. Il primo si compie nei luoghi di produzione del plusvalore [?] – la fabbrica, la miniera, l’azienda agricola – e sul mercato. Sotto questo aspetto, l’accumulazione è un processo puramente economico, la cui fase più importante si svolge fra capitalista e salariato, ma che in entrambe le fasi – la fabbrica e il mercato – si muove entro i limiti dello scambio di merci, dello scambio di equivalenti. Pace, proprietà [?], uguaglianza regnano qui come forma, e occorreva la tagliente dialettica di una analisi scien­tifica per svelare come nell’ac­cumulazione il diritto di proprietà si converta in appropriazione della proprietà altrui, lo scambio delle merci in spoliazione, l’uguaglianza in supremazia di classe.

L’altro aspetto dell’accumulazione del capitale ha per arena la scena mondiale, per protagonisti il capitale e le forme di produzione non capitalistiche. Dominano qui come metodi la politica coloniale, il sistema dei prestiti internazionali, la politica delle sfere di interesse, le guerre. Appaiono qui apertamente e senza veli la violenza, la frode, l’oppressione, la rapina, la guerra [?], e costa fatica identificare sotto questo groviglio di atti politici di forza e di violenza esplicita le leggi ferree del processo economico.

La teoria liberalborghese vede solo una delle due facce: il dominio della “concorrenza pacifica”, dei miracoli tecnici, del puro scambio delle merci, e separa nettamente dal dominio economico del capitale il campo dei chiassosi gesti di forza del capitale come più o meno accidentali manifestazioni della “politica estera”. In realtà, la violenza politica non è qui se non il veicolo del processo economico, le due facce dell’accumu­lazione del capitale sono legate organicamente l’una all’altra dalle condizioni della riproduzione e solo in questo loro stretto rapporto il ciclo storico del capitale si compie. Il capitale non soltanto nasce “sudando da tutti i pori sangue e fango”, ma s’im­pone gradatamente come tale in tutto il mondo e così prepara, fra convulsioni sempre più violente, il proprio sfacelo.

L’accumulazione del capitale avanza e si estende a un ritmo sempre più rapido. Tendenza generale e risultato ultimo di questo processo è la dominazione mondiale esclusiva della pro­duzione capitalistica. L’attuale imperialismo [?] è l’ultimo capitolo del suo processo storico di espansione; è il periodo della lotta generale e acutizzata di concorrenza fra gli Stati capitalistici nel mondo. La catastrofe eco­nomica e politica è, in questa fase conclusiva, elemento di vita, forma normale di esistenza del capitale, come lo fu nell’“accumula­zione originaria” della sua fase iniziale. Come la scoperta dell’America e della via d’acqua per l’India fu non soltanto un’opera prometeica del genio umano e della civiltà quale appare nella leggenda liberale, ma, inseparabilmente, una serie di massacri perpetrati sui popoli primitivi del Nuovo Mondo e di grandiosi commerci di schiavi coi popoli d’Africa e d’Asia, così nella fase finale imperialistica l’espansione economica del capitale è inseparabile dalla serie di conquiste coloniali e di guerre mondiali, che oggi viviamo.

Il segno caratteristico dell’imperiali­smo come estrema lotta di concorrenza per la dominazione mondiale capitalistica non è soltanto la particolare energia e multilateralità dell’e­span­sione, ma – sintomo specifico che il cerchio dell’evoluzione comincia a chiudersi! – il rifluire della lotta decisiva per l’espansione dai territori che ne formano l’oggetto sui luoghi d’ori­gine.                                                                                            

[r.l.]

(da L’accumulazione del capitale)

 

 

Acronimi

Il linguaggio [?] dominante degli economisti (e non solo) tende sempre di più a usare sigle e acronimi (molti di derivazione anglosassone), di cui si danno qui a le prime più importanti definizioni (in ordine alfabetico).

Abi [Associazione bancaria italiana].

B2B [Business to business] è il settore delle net company (società che da attività nella rete Internet ricavano più del 50% del fatturato) che vendono prodotti o servizi tecnologici ad altre società, e non ai consumatori.

B2C [Business to consumer] è il settore delle net company (vedi sopra) che vendono prodotti o servizi direttamente ai consumatori.

Bcc [Banche di credito cooperativo (già casse rurali ed artigiane)].

Bce [Banca centrale europea, Ecb - European central bank] ha competenza esclusiva per  l’emis­sione della moneta all’interno dei paesi aderenti, anche se questa è materialmente eseguita dalle singole banche centrali, e per la fissazione del tasso d’interesse.

Bei [Banca europea per gli investimenti].

Bm [Banca mondiale, Wb - World bank] è parte della Birs (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, Ibrd - International bank for research and development, dato che in questa, accanto alla Bm, c’è anche la sezione dell’Ida - International development agency, Agenzia internazionale per lo sviluppo) con il compito di promuovere gli investimenti di capitale per la ricostruzione e lo sviluppo dei paesi membri, effettuando prestiti o incanalando fondi privati, e con l’assistenza ai paesi impegnati nella lotta contro la povertà; in particolare con l’iniziativa relativa ai “paesi poveri fortemente indebitati” [Hipc - High indebted poor countries]. Il diritto di voto dipende, anche qui, dalle quote di partecipazione

Bot [Buoni ordinari del tesoro].

Bri [Banca dei regolamenti internazionali, Bis - Bank for international settings] nacque nel 1930 con l’ini­ziale scopo di coordinare le banche centrali nazionali, specialmente per le operazioni di incasso e pagamento relative alle riparazioni di guerra tedesche. Successivamente ha operato come “banca delle banche centrali”. Il suo capitale è sottoscritto dalle banche centrali dei 55 paesi partecipanti con diritto di voto proporzionale alle rispettive quote.

Cedu [Convenzione europea sui diritti dell’uomo].

Cee [Comunità economica europea] è nata con il “trattato di Roma” del 1957; al suo fianco, la Ceca, comunità europea del carbone e dell’accia­io, e dell’Euratom o Ceea, comunità europea dell’energia atomica.

Cepal [Commissione economica per l’America latina e i Caraibi, in inglese Eclac] è una delle cinque commissioni regionali dell’Onu creata per contribuire allo sviluppo economico di America latina e Caraibi, promovendo anche lo sviluppo sociale.

Djia [Dow Jones industrial average (spesso abbreviato in Dj)] è il principale indice della borsa di New York.

Dsp [Diritti speciali di prelievo, Sdr - Special drawing rights] rappresentano una moneta fittizia (alternativa all’idea o­riginaria di Keynes, Bancor) con garanzia aurea che consiste in una scrit­turazione dei conti del paese con il Fmi, con importi corrispondenti alla loro quota di partecipazione.

Euribor [Euro interbank offered ra­te] è il tasso di interesse a cui le banche dei paesi aderenti all’Unione monetaria sono disposte a prestare de­naro alle altre banche (è determinato da quarantasette banche europee).

Fao [Food and agricultural organization, organizzazione agricola e alimentare], entro l’Onu, sviluppa la cooperazione e i progetti per la lotta contro l’ine­dia, i settori agricolo e ittico, fornendo assistenza logistica e finanziando progetti ad hoc.

Fed [Federal reserve system – sistema della riserva federale; in breve Federal reserve] è il sistema bancario centrale degli Usa, basato su 12 banche di riserva regionali operanti come banche centrali per i loro membri e 24 filiali poste sotto il controllo di un consiglio federale con il compito di determinare il tasso ufficiale di scon­to [vedi dopo Tus] e gli altri tassi di interesse, oltre a controllare il funzionamento del sistema creditizio sta­tunitense.

Fei [Fondo europeo per gli investimenti].

Fes [Fondo europeo di sviluppo].

Fmi [Fondo monetario internazionale, Imf - International monetary fund] fu istituito, insieme ad altre organizzazioni internazionali (vedi dopo) nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods, a séguito della prevalenza mondiale Usa alla fine della II guerra; suoi scopi dichiarati erano promozione della cooperazione monetaria internazionale, stabilità dei cambi valutari, crescita e occupazione, oltre all’assistenza finanziaria in caso di squilibri della bilancia dei pagamenti. Le possibilità di ottenere prestiti e i diritti di voto sono stabiliti in relazione alla quota. In base a essa, gli Usa da soli col 17% e la Ue insieme possono di fatto esercitare il diritto di veto (15%); i paesi che coprono l’assoluta maggioranza delle quote sono Stati Uniti, Giappone, Germania, Inghilterra, Francia.

Ide [Investimenti diretti esteri, FdiForeign direct investment] relativi ad attività produttive, da non confondere con gli investimenti di portafoglio (speculativi).

Ifad [International fund for agricultural development, fondo internazionale per lo sviluppo agricolo], dovrebbe dare ai poveri delle campagne le capacità di superare la loro indigenza.

Libor [London interbank offered ra­te] è il tasso di interesse praticato sul mercato interbancario londinese a uno, due, tre e sei mesi, che viene utilizzato per l’indicizzazione dei tassi variabili (in Italia equivale alla media dei tassi quotidiani di cinque importanti banche).

Lombard era il tasso d’interesse in origine applicato in Germania dalla Bundesbank [Banca centrale tedesca] per i finanziamenti garantiti da titoli.

Lbo [Leverage buy out] si dice del­l’acquisto d titoli mediante leva speculativa con denaro preso a prestito.  

Nasdaq [National association of securities dealers automatic quotation] è l’indice a quotazione automatica dell’associazione nazionale Usa degli agenti di cambio, ossia in pratica l’indice dei titoli tecnologici.

Nyse [New York stock exchange] è il mercato azionario di New York.

Ocse [Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica, Oecd - Organization for economic cooperation and development]. Nasce anch’essa al termine del secondo conflitto mondiale imperialistico sotto la sigla Oece (Organizzazione europea per la cooperazione economica) per attuare il piano Mar­shall, predisposto dagli Usa con il compito specifico di favorire la massima espansione della crescita economica dei paesi membri, contribuendo così anche all’espansio­ne del commercio mondiale.

Oil [Organizzazione internazionale del lavoro, Ilo – International labour organization], creata nel 1919 con il trattato di Versailles da lla Società delle Nazioni, è diventata un’agenzia dell’Onu specializzata nella promozione della giustizia sociale e del riconoscimento internazionale dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori.

Omc [Organizzazione mondiale del commercio, Wto - World trade organization] dal 1° gennaio 1995 attualizza la nuova realtà del com­mercio internazionale. Le decisioni sono finora prese all’unanimi­tà da rappresentanti dei paesi membri. Avrebbe dovuto essere, a Bretton Woods, preceduta dall’Oic [Organizzazione internazionale del commercio, Ito - International commerce organization] preposta a governare la liberalizzazione dello scambio di merci sul mer­cato mondiale; non raggiunta l’intesa, si procedette alla creazione di un più modesto “accordo generale su tariffe e commercio”, Gatt (General agreement on tariffs and trade).

Oms [Organizzazione mondiale del­la sanità, Who - World health organization]si occupa della promozione della salute fisica, mentale e sociale.

Onu [Organizzazione delle nazioni unite], oltre all’assemblea generale e al consiglio di sicurezza, comprende alcune agenzie specifiche (vedi sotto).

Opa [Offerta pubblica di acquisto] si ha quando un gruppo che vuole acquisire il controllo di una società, anziché comprarne i titoli in borsa, può dichiarare pubblicamente di essere di­sposto ad acquistarne le azioni a un certo prezzo superiore alla quotazione per stimolare i proprietari alla vendita.

Opec [Organization of the petroleum exporting countries, Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio] è il cartello che raggruppa undici paesi esportatori di petrolio “definiti” in via di sviluppo.

Opv [Offerta pubblica di vendita] è riferita a un pacchetto di azioni (generalmente una quota di minoranza) da parte del gruppo di controllo. Il completo successo dell’operazione è di norma garantito dalla costituzione di un apposito consorzio fra banche e società finanziarie.

Per [Price earnings ratio] indica il rapporto tra il prezzo delle azioni e il valore della società quotata. Il rapporto è dato dal prezzo delle azioni di una società diviso per gli utili per azione prodotti dalla società su base annua. Il Per rappresenta il prezzo che gli investitori sono disposti a pagare per ogni euro di utile indicato dalla società; maggiore è il rapporto prezzo/utile, maggiori sono le aspettative degli investitori sulle prospettive di crescita di una società.

Pil [Prodotto interno lordo, gdp - gross domestic product] è definito come flusso complessivo del­la produzione di beni e servizi effettuata sul territorio nazionale ottenuto combinando “fattori produttivi” di proprietà di residenti e di non residenti in un certo arco di tempo; può essere misurato operativamente in due modi differenti. Quando non ven­gono apportate rettifiche per tener conto delle imposte dirette o dei sussidi, la misura qui definita viene indicata più propriamente come Pil ai prezzi di mercato, cioè come valore della produzione totale di nuovi beni e servizi finali dell’economia in un determinato arco di tempo, aumentata delle imposte indirette sulle importazioni e al netto dei consumi e dei prodotti (beni o servizi) intermedi. Misurando il Pil al costo dei fattori, si considera la somma delle remunerazioni di tutti i fattori produttivi impiegati nel processo produttivo in un paese in un certo arco di tempo. Ma i redditi corrisposti ai fattori produttivi impiegati non coincide con il valore dei beni prodotti in quanto è il ricavo che le imprese ottengono al netto del­le imposte indirette che viene distribuito come reddito attribuito ai fattori. Quindi il Pil al costo dei fattori (che corrisponde all’ammontare dei redditi pagati ai fattori) si ottiene sottraendo le imposte indirette e aggiungendo i sussidi. Il Pil è stato ideato nel 1940 per valutare la possibilità per l’econo­mia americana di sostenere le spese belliche relative all’intervento con­tro la Germania nazista.uroere confrontabili più coerentementew cambio ufficiale.tere d’determina in questa manieral paese B; una volta ottenuto questo

Pin [Prodotto interno netto] corrisponde al Pil meno gli ammortamenti.

Pmi [Piccole e medie imprese].

Pnl [Prodotto nazionale lordo] è definito come valore complessivo del­la produzione di beni e servizi generata dai fattori produttivi di proprietà dei residenti. Il Pnl (poco usato) corrisponde al Pil a cui vengono sottratti i pagamenti ai “fat­tori della produzione” non residenti (dividendi e interessi corrisposti ai non residenti che detengono attività nel paese e salari corrisposti ai non residenti che lavorano nel paese), più i pagamenti dall’este­ro ai fattori residenti (dividendi e interessi corrisposti ai residenti che detengono attività e­stere e salari corrisposti ai residenti che lavorano al­l’estero). Stesso meccanismo che nel Pil per la differenza tra i prezzi di mercato e al costo dei fattori.

Pnn [Prodotto nazionale netto] è il Pnl meno gli ammortamenti.

Ppa [Parità del potere d’a­cquisto, Ppp - Purchasing power parity] può essere considerata uno strumento come metodo di confronto internazionale fra dati provenienti da paesi, anche molto diversi quanto a strut­tura economica, prescindendo dal­le oscillazioni del cambio. Sostanzialmente viene considerato un paniere di beni (che può essere composto anche da una sola merce, vedi BigMac index calcolato dall’Economist) che si presuppone abbia lo stesso “prezzo” (sic!) nei paesi considerati, detratti i costi di trasporto. In questa maniera, ad esempio, viene rapportato il prezzo del paniere rilevato nel paese A, con quello del paese B, ottenendo così il reale potere d’acquisto della valuta del paese A, che normalmente differirà rispetto da quello indicato dal tasso di cambio ufficiale.

Rn [Reddito nazionale] è il valore in moneta del flusso complessivo di beni e servizi prodotti in un dato sistema economico durante uno specifico periodo di tempo. Si può misurare in tre modi: i. come valore dei prodotti di tutti i beni e servizi del sistema economico, al netto delle imposte indirette e dei sussidi rettificato delle vendite inter-industriali in modo da evitare duplicazioni; ii. come flusso complessivo dei redditi personali corrisposti alle famiglie, in cambio del­l’ottenimento dei servizi produttivi, con l’aggiunta di profitti trattenuti dalle imprese come riserve; iii. come somma della spesa in beni di consumo e di investimento, della spesa del­lo stato [?] e le spese degli stranieri (esportazioni) meno la spesa nazionale per le importazioni. Il reddito nazionale viene definito in modo da includere non soltanto i redditi che sono originati dall’attività produttiva all’interno di un paese, ma anche il reddito che perviene ai residenti da attività esercitate all’estero. Poiché viene calcolato al netto delle imposte indirette, è come il Pnl al costo dei fattori. Con la deduzione di un importo pari all’ammortamento, coincide con il Pnn al costo dei fattori.

Sebc [Sistema europeo delle banche centrali, Escb - European system of central banks], creato con il trattato di Maastricht, e costituito dalla Bce e dalle banche centrali nazionali, è responsabile della politica monetaria dell’unione, guidata dal Consiglio direttivo che comprende il Comitato e­secutivo di sei membri e i governatori delle banche centrali.

Tus [Tasso ufficiale di sconto] è il tasso d’interesse debitorio applicato dalla banca centrale (qui la Banca d’Italia) sui prestiti concessi agli isti­tuti di credito. Fino a qualche anno fa era un tasso particolarmente importante in quanto costituiva la base di determinazione di tutti gli altri tassi di mercato. Oggi questa funzione è assolta dai tassi del mercato interbancario. Dal 1° gennaio 1999 il Tus in Italia è uguale al tasso di sconto stabilito dalla Bce (vedi dopo) per l’euro.

Ue [Unione europea], varata col “trattato di Maastricht” (1992), è un’istituzione che acquisisce personalità giuridica con l’approvazione definitiva della costituzione; è fondata sulle tre Ce (vedi sopra), Pesc (politica estera e di sicurezza comune) e Gai (giustizia e affari interni).

Undp [Development program] è il programma di sviluppo dell’Onu.

Unesco [Education, science and culture organization] è l’organizza­zione Onu per l’educazione la scienza e la cultura.                             

Unfpa [Fund for population assistence, fondo Onu per l’assistenza alla popolazione] si occupa di attivare programmi di assistenza alla popolazione e alla salute riproduttiva, con una particolare sensibilità alla lotta contro la violenza di genere e al problema dell’Aids-Hiv.

Unhcr [High committee for refugees] è la commissione Onu per i rifugiati.

Unicef [International children’s (emer­gency) fund, fondo Onu per l’in­fanzia (la parola “emergency” è stata poi soppressa)] si occupa della protezione dei minori, specialmente nei con­testi sociali più a rischio.

[al.b.- f.s.]

 

 

Acronimi # 2

Proseguiamo qui dando un secondo elenco con alcuni sviluppi di sigle e acronimi spesso (ab)usati – pure  troppo spesso – la maggior parte dei quali derivati dal mondo anglofono [?]. In questa “lingua povera” sono espresse anche, inutilmente e fuori luogo, molti termini di uso comune. di cui è dato un primo cenno [v.s.]. 

Alca [Area de libre comercio americano, in inglese Ftaa - Free trade area of americas].

Asean [Association of southeast asian nations, associazione dei paesi del sud est asiatico].

Bot [Buoni ordinari del tesoro].

Btp [Buoni del tesoro poliennali].

Cac [Indice della borsa valori francese].

Ccnl [Contratto collettivo nazionale del lavoro].

Cct [Certificato di credito del tesoro].

Cig [Cassa integrazione guadagni].

Cilo [Centro di iniziativa locale per l’occupazione].

Cipe [Comitato interministeriale per la programmazione economica].

Clup [Costo del lavoro per unità di prodotto].

Cnel [Consiglio nazionale dell’eco­nomia e del lavoro].

Consob [Commissione nazionale per le società e la borsa].

Cub [Confederazione unitaria di base].

Dax [Indice della borsa valori tedesca].

Ddl [Disegno di legge].

Dl [Decreto legge].

Dlgs [Decreto legislativo].

Dpef [Documento di programmazione economica e finanziaria].

Dpr [Decreto del presidente della repubblica].

Enal [Ente nazionale assistenza lavoratori].

Enea [Ente nuove tecnologie per l’energia e l’ambiente].

F&A [Fusioni e acquisizioni, in inglese M&A - Mergers and Acquisitions]. 

Faq [Frequent asked questions – domande frequenti].

Ftse [Financial times stock exchange – Indice della borsa valori inglese].

Hang Seng [Indice della borsa valori di Hong Kong].

Iban [International bank account number – codice bancario internazionale].

Ice [Istituto per il commercio estero].

Idl [Ispettorato del lavoro].

Imi [Istituto mobiliare italiano].

Inail [Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro].

Ipc [Indice dei prezzi al consumo, in inglese Cpi - Consumer price index].

Ipo [Initial public offerings] Emissione pubblica iniziale: prima offerta di titoli azionari di una società al pubblico.

Irap [Imposta regionale sulle attività produttive].

Ire [Imposta sul reddito]. Sostituisce l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef).

Ires [Imposta sul reddito delle società] Sostituisce l’imposta sui redditi delle persone giuridiche (Irpeg).

Iva [Imposta sul valore aggiunto].

Lsu [Lavori socialmente utili].

M1 - M2 - M3 [Aggregati monetari] M1 = moneta circolante e depositi in conto corrente; M2 = M1 + altri depositi a breve termine. M3 = M2 + altre categorie di passività negoziabili delle istituzioni finanziarie mo­netarie (pronti contro termine, quote di fondi di investimento monetario, strumenti del mercato monetario, obbligazioni con una durata inferiore ai 2 anni).

Mercosur [Mercado común del sur, mercato comune del sud america].

Mib [Milano indice di borsa, ora con Standard&Poor’s, S&P-Mib].

Mibtel [Milano indice telematico di borsa].

Nafta [North american free trade agreement, accordo di libero scambio del nord America].

Nikkei [Indice della borsa valori giapponese].

Ogm [Organismi geneticamente mo­dificati].

Onlus [Organizzazione non lucrativa di utilità sociale].

Osce [Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea].

R&S [Ricerca e sviluppo, in inglese R&D - Research and Development].

Roa [Return on assets]. Rapporto tra reddito lordo e totale attività (misura la redditività del capitale investito).

Roc [Rate of change]. Rapporto tra la variazione del prezzo degli ultimi n-periodi ed il prezzo degli n-periodi passati.

Roe [Return on equity]. Rapporto tra reddito di esercizio e capitale netto (rendimento finanziario di un’impre­sa).

Roi [Return on investment]. Redditività del capitale investito (capacità dell’azienda di produrre utili indipen­dentemente dalle modalità con cui si è finanziata).

Ros [Return on sales]. Rapporto fra il reddito e il livello delle vendite (ricavi o fatturato); margine dell’a­zien­da sul fatturato.

Rdb [Rappresentanze sindacali di base].

Rsu [Rappresentanze sindacali unitarie].

Sec [Security and exchange commission]. Agenzia di controllo delle borse statunitensi.

Sicav [Società di investimento a capitale variabile].

Sim [Società di intermediazione mo­biliare].

Spa [Società per azioni].

Spam [Space hamburger]. Scatole di hamburger gettate dai militari statunitensi durante la guerra del Vietnam (sinonimo di immondizia).

Srl [Società a responsabilità limitata].

Ssn [Servizio sanitario nazionale].

Tfr [Trattamento di fine rapporto].

Tlc [Telecomunicazioni].

Ule [Unità di lavoro equivalente].

Unctad [United nations conference on trade and development, conferenza delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo].

Unep [United nations environment programme, programma delle Nazioni unite per l’ambiente].

[al.b. - f.s.]

 

 

Adulterazioni

(frodi e salario)

Il valore della forza-lavoro [?] include il valore delle merci necessarie per la riproduzione del lavoratore e per la perpetuazione della classe [?] operaia. Ma il capitale [?], nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del cor­po. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti e lo incorpora dove è possibile nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore vien dato il cibo come a un pu­ro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio alle mac­chine. Quindi il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita del lavoratore, quando non sia co­stretto a tali riguardi dalla società: “benché la salute della popolazione sia un fattore così importante del capita­le nazionale, noi temiamo che sia necessario dire che i capitalisti non sono affatto pronti a conservare e a valu­tare questo tesoro. Il rispetto per la salute dei lavoratori è stato imposto con la forza ai fabbricanti” [Times, 5.11.1851]. Al lamento per il rattrappimento fisico e mentale, per la morte prematura, per la tortura del soprala­voro, il capitale risponde: dovrebbe tale tormento tormentar noi, dal momento che aumenta il nostro piacere (profitto)?

L’incredibile adulterazione del pane, specialmente a Londra, venne rivelata la prima volta dal comitato della Camera bassa “sull’adulterazione dei cibi” (1855-56) e dallo scritto del dottor Hassall, Adulteration detected. Conseguenza di queste rivelazioni fu la legge del 6 agosto 1860: “for preventing the adulteration of articles of food and drink”; legge inefficace, poiché naturalmente mostra la massima delicatezza contro ogni liberoscam­bista [?] che intraprende “di guadagnarsi qualche meritato soldo” mediante la compravendita di merci falsificate. Il comitato stesso aveva formulato, in maniera più o meno ingenua, la convinzione che il libero commercio signi­fica in sostanza commercio di materiali adulterati o, come dice spiritosamente l’inglese, “materiali sofisticati”. E infatti questa specie di “sofistica” sa far nero del bianco e bianco del nero, meglio di Protagora, e sa dimo­strare ad oculos che ogni realtà è pura apparenza, meglio degli Eleati. Il chimico francese Chevallier, in un trattato sulle “sophistications” delle merci, conta, per molti dei più dei seicento articoli che ha esaminato, dieci, venti, trenta metodi di adulterazione. Aggiunge che non conosce tutti i metodi e non ricorda tutti quelli che co­nosce. Per lo zucchero indica sei tipi di adulterazione, per l’olio d’oliva nove, per il burro dieci, per il sale dodi­ci, per il latte diciannove, per il pane venti, per l’acquavite ventitré, per la farina ventiquattro, per la cioccolata ventotto, per il vino trenta, per il caffè trentadue, ecc. Neppure il buon Dio sfugge a questo destino: vedi Rouard de Card, De la falsification des substances sacramentales, Paris 1856.

Ad ogni modo, il comitato aveva diretto gli occhi del pubblico sul suo “pane quotidiano” e così sui fornai. Con­temporaneamente, risuonava in pubbliche adunanze e in petizioni al parlamento il grido dei fornai garzoni lon­dinesi sul sovraccarico di lavoro, ecc. Il grido divenne così urgente che il signor H. S. Tremenheere, che era anche membro della più volte ricordata commissione del 1863, venne nominato commissario reale inquirente. Il suo rapporto, insieme alle deposizioni dei testimoni, eccitò il pubblico – non il cuore del pubblico, ma il suo stomaco. L’inglese, che conosce bene la sua Bibbia, sapeva sì che l’uomo – se non è, per elezione gratuita, ca­pitalista o proprietario terriero o fornito di una sinecura – è chiamato a mangiare il suo pane col sudore della sua fronte; ma non sapeva di dover mangiare nel suo pane, quotidianamente, una certa dose di sudore umano, mescolato con deiezioni di ascessi, ragnatele, blatte morte e lievito tedesco marcito – senza tener conto dell’al­lume, dell’arenaria e di altri piacevoli ingredienti minerali.

Questi fornai vendono sottoprezzo, quasi senza eccezione, pane adulterato mescolandovi allume, sapone, potas­sa, calce, farina di pietre del Derbyshire, ed altri simili ingredienti piacevoli, nutrienti e salubri. Sir John Gor­don dichiarò davanti al comitato del 1855: “in conseguenza di tali adulterazioni i poveri che vivono di due lib­bre di pane al giorno non ricevono ora in realtà neppure la quarta parte di sostanza nutritiva, astrazion fatta da­gli effetti dannosi sulla loro salute”. Tremenheere, a ragione del fatto che “una grandissima parte della classe operaia, benché bene informata delle adulterazioni, accetta tuttavia allume, farina di pietra, ecc.” adduce che per essi è “questione di necessità prendere il pane come si preferisce darglielo; è notorio che il pane composto di tali misture viene fatto espressamente per questa specie di clienti”. Senza nessun riguardo a sua santità il libero scambio, la fin allora “libera” panificazione venne sottoposta alla sorveglianza di ispettori statali (conclusione della sessione parlamentare del 1863). Con lo stesso Atto del par­lamento venne proibito il lavoro dalle nove di sera alle cinque di mattina per i garzoni fornai al disotto di di­ciotto anni. Quest’ultima clausola dice quanto interi volumi sul sovraccarico di lavoro in questo ramo d’affari così patriarcalmente casalingo. Per quanto riguarda i fornai che vendono sottoprezzo, perfino il punto di vista borghese comprende che “il lavoro non pagato dei garzoni costituisce il fondamento della loro concorrenza”. E il fornaio a prezzo pieno denuncia i suoi concorrenti sottoprezzo alla commissione d’inchiesta, come ladri di lavoro altrui e adulteratori. “Essi riescono soltanto ingannando il pubblico e spremendo dai loro garzoni diciot­to ore di lavoro per un salario di dodici”.

L’adulterazione del pane e la formazione di una classe di fornai che vende il pane al disotto del prezzo normale hanno avuto sviluppo in Inghilterra dal principio del secolo XVIII, appena cominciò a decadere il carattere cor­porativo [?] del mestiere e dietro il mastro fornaio, padrone nominale, si pose il capitalista, nella forma di mugnaio o commerciante commissionario in farina. Così era posta la base della produzione capitalistica, dello sfrenato prolungamento della giornata lavorativa e del lavoro notturno, benché quest’ul­timo prendesse seriamente piede in Londra soltanto dal 1824. Ma se i lavoratori potessero vivere d’aria, non si potrebbero neanche comprare a nessun prezzo. La gratuità dei lavoratori è dunque un limite in senso matematico, sempre irraggiungibile, benché sempre più approssimabile. È tendenza costante del capitale di abbassare i lavoratori fino a questo punto nihilistico. Uno scrittore del secolo XVIII, che ho spesso citato, l’au­tore dell’Essay on trade and commerce, quando dichiara compito storico vita­le dell’Inghilterra l’abbassa­mento dei salari [?] inglesi al livello francese e olandese, non fa che rilevare l’intimo segreto della psiche del capitale inglese. Egli dice ingenuamente tra l’altro: “Ma se i nostri poveri (termine tec­nico per lavoratori) vogliono vivere lussuosamente, il loro lavoro deve essere naturalmente caro. Si consideri sol­tanto la orripilante massa di superfluità consumata dai nostri operai manifatturieri: ecco acquavite, gin, tè, zuc­chero, frutta estera, birra forte, telerie stampate, tabacco, da fiuto e da fumo ecc.”. Il consumo dell’oppio si estende di giorno in giorno tra i lavoratori e le lavoratrici adulti, e anche nei distretti agricoli come già nei di­stretti industriali. “Il grande fine di alcuni intraprendenti mercanti all’ingrosso è ... promuovere la vendita degli oppiacei. I droghieri li considerano l’articolo di più facile smercio”. I lattanti ai quali si somministravano op­piacei “s’accartocciavano come piccoli vecchietti o raggrinzivano come scimmiette”.

Un fabbricante del Northamptonshire si lagna, guardando in tralice verso il cielo: “In Francia il lavoro è più a buon mercato di tutt’un terzo che in Inghilterra, perché i poveri francesi lavorano duramente e si trattano dura­mente quanto al mangiare e al vestire; il loro consumo principale sono pane, frutta, erbaggi, radici e pesce sec­co, poiché mangiano carne molto di rado e, se il grano è caro, mangiano pochissimo pane. Al che si aggiunge ancora – continua l’autore del nostro Saggio – che le loro bevande consistono d’acqua o di simili liquori poco forti, cosicché la loro spesa quotidiana è straordinariamente esigua. Certo è difficile introdurre tale stato di co­se, ma esso non è cosa irraggiungibile, come dimostra patentemente la sua esistenza tanto in Francia che in Olanda”.

Vent’anni dopo un ciarlatano americano, lo yankee baronificato Benjamin Thompson (alias conte Rumford) seguì la stessa linea di filantropia con un gran compiacimento al cospetto di Dio e degli uomini. I suoi Saggi sono un libro di cucina con ricette di tutti i tipi per sostituire ai cibi normali dei lavoratori, che costa­vano cari, surrogati di ogni genere. Una delle ricette meglio riuscite di questo strano “filosofo” è la seguente: “Per cinque libbre di farina d’orzo a 1,5 pence, computandovi l’orzo al presente altissimo prezzo di questo pae­se, cioè 5 scellini e 6 dinari per bushel, pence: 7,5. Per cinque libbre di grano d’India, a 1,5 pence la libbra: pen­ce 6,5; quattro aringhe secche: 3 pence; aceto: 1 penny; sale: 1 penny; pepe ed erbe: 2 pence. Questa somma di 20 pence e ¾, divisa per 64, che è il numero delle porzioni di minestra, porta a un po’ meno di 1/3 di penny per ogni porzione. Ma al prezzo medio dell’orzo e del grano d’India, come si vende nella Gran Bretagna, sono persuaso che questa minestra non possa valere più di un farthing per porzione”. Col progresso della produzione capitalistica l’adulterazione delle merci ha reso superflui gli ideali del Thompson. [Dalle relazioni dell’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sulla adulterazione dei mezzi di sussistenza si vede che perfino l’adulte­razione dei medicinali non è un’eccezione, ma è la regola in Inghilterra. Per es., l’analisi di 34 campioni di op­pio, acquistati in altrettante farmacie di Londra, ha fatto risultare che 31 erano adulterati con semi di papavero, farina di grano, gomma, argilla, sabbia, ecc. Molti campioni non contenevano nemmeno un atomo di morfina].

[k.m.]

(dal Capitale, I.4,3;I.8,3,5;I.13,4;I.22,4)

 

 

Alienazione # 1

(lavoro salariato)

“La capacità di lavoro, se non è ven­duta, non è niente” – così si esprimeva Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi. “Ciò che l’operaio scambia con il capitale è il suo stesso lavoro; nello scambio è la capacità di disposizione su di esso: egli la aliena. Ciò che riceve come prezzo è il valore di questa alienazione”. [Questo era il completamento di quella espressione, che spesso faceva Marx, con riferimento specifico all’alienazione – ossia alla “vendita” – di quella merce particolare che è la forza-lavoro [?] dei salariati nel rapporto di capitale, assai diversa dall’oggettivazione [?] nel prodotto,  anche se come valore d’uso e valore in forma di merce, della capacità di lavoro dei produttori privati indipendenti]. L’a­lienazione della forza-lavoro e il suo reale estrinsecarsi, cioè la sua esistenza come valore d’uso, sono dunque fatti distaccati nel tempo.

Ora, la forma immediata della circolazione [?] delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Qui, dunque, non si parla del salario, o valore che il lavoratore riceve per la vendita della sua capacità di lavoro come merce, ma del valore della merce nel quale si oggettiva la sua giornata lavorativa (la categoria del salario del lavoro non esiste in genere ancora a questo grado dell’esposizione). Ma accanto a questa forma ne troviamo una seconda, specificamente differente, la forma D-M-D: trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione di merce in denaro, comprare per vendere.

Il denaro [?] che nel suo movimento descrive quest’ultimo ciclo si trasfor­ma in capitale, diventa capitale [?], ed è già capitale per sua destinazione. In realtà, qui sul mercato delle merci si presenta direttamente al possessore di denaro non il lavoro, ma il lavoratore. Ciò che vende quest’ultimo è la propria  forza-lavoro. Il suo lavoro, appena comincia realmente, ha già cessato di appartenergli, e quindi non può più essere venduto – alienato – da lui.

Dunque, anche se a prima vista una merce [?] sembra una cosa triviale, ovvia, dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. L’ar­cano della forma di merce consiste semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale tra produttori [produttori privati indipendenti, proprietari delle proprie condizioni di lavoro e, quindi, del prodotto stesso] e lavoro complessivo, come un rapporto so­ciale di oggetti, aventi esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Questo è il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro, appena vengono prodotti come merci, e che è quindi inseparabile dalla produzione delle merci.

Potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressione di lavoro umano, e dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale; allora sarà ovvio che quest’ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale tra merce e merce. Il lavoro privato diventa forma del suo opposto, il lavoro concreto diventa forma fenomenica del lavoro astrattamente umano. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Quindi, ai pro­duttori le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè non come rapporti immediatamente sociali tra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti materiali tra persone e rapporti sociali tra cose.

Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro co­me valori (ma ciò non disperde affatto la parvenza oggettiva del carattere sociale del lavoro). Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Poiché la forma di merce è la forma più generale e meno sviluppata della produzione borghese – ragion per la quale essa si presenta così presto, benché non ancora nel medesimo modo dominante, quindi caratteristico, di oggi – il suo carattere di feticcio sembra ancora relativamente facile da penetrare. Ma se il capitale è merce, non ogni merce è capitale.

Il tentativo di ignorare le contraddizioni del processo capitalistico di produzione [?], risolvendo i rapporti degli agenti di produzione di tale processo nelle relazioni semplici che sorgono dalla circolazione delle merci è caratteristico del metodo dell’a­pologetica dell’economia politica.

Produzione e circolazione delle mer­ci sono fenomeni che appartengono a differentissimi modi di produzione. Dunque, quando si conoscono soltanto le categorie astratte della circolazione delle merci, comuni a quei modi di produzione, non si sa ancora niente della differenza specifica di essi.

Il diritto di proprietà [?] è, sì, in vigore fin dall’inizio, quando il prodotto appartiene al produttore, e quando questi, scambiando equivalente con equi­valente, si può arricchire soltanto col proprio lavoro. Senonché, nel periodo capitalistico – nel quale la ricchezza sociale diventa, in misura sempre cre­scente, proprietà di coloro che sono in condizione di tornare sempre ad appropriarsi il lavoro non retribuito altrui – questo stesso risultato diventa, viceversa, inevitabile appena la forza-lavoro è venduta liberamente come merce dal lavoratore stesso.

A partire da quel momento soltanto la produzione delle merci si generalizza, diventando forma tipica della produzione, ogni oggetto viene prodotto per la vendita, e il lavoro salariato costituisce il suo fondamento: ed è anche a questo punto che essa dispiega tutte le sue “potenze arcane”. Le leggi della proprietà si convertono in leggi dell’appropriazione capitalistica.

Dunque il processo di produzione capitalistico riproduce col suo stesso andamento la separazione tra forza-lavoro e condizioni di lavoro. E così riproduce e perpetua le condizioni per lo sfruttamento del lavoratore. Esso lo costringe costantemente a vendere la sua forza-lavoro per vivere, e costantemente mette il capitalista in grado di acquistarla, per arricchirsi. Non è più il “caso” che pone capitalista e lavoratore l’uno di fronte all’al­tro sul mercato delle merci come compratore e venditore. È il doppio mulinello del processo stesso che torna sempre a gettare il lavoratore sul mercato delle merci come venditore della propria forza-lavoro e a trasfor­mare il suo prodotto in mezzo d’ac­quisto del capitalista.

In realtà, il lavoratore salariato appartiene al capitale anche prima di essersi venduto al capitalista. Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, non produce dunque solo merce, solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra il lavoratore salariato

In quanto il plusvalore è risultato dall’acquisto della forza-lavoro per mezzo di una parte del capitale originario, acquisto che corrisponde alle leggi dello scambio di merci (giuridicamente non presuppone altro che, da parte del lavoratore, la libera disponibilità delle proprie capacità e, da parte del capitalista, la libera disponibilità dei valori appartenentigli), la legge dell’appropriazione poggiante sulla produzione e sulla circolazione delle merci – ossia la legge della proprietà privata – si converte dunque nel proprio diretto opposto, per la sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di equivalenti, che poteva essere l’operazione originaria, si è rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l’apparenza, in quanto, in primo luogo, la parte di capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa soltanto una parte del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente, e, in secondo luogo, essa deve essere reintegrata dal lavoratore con un nuovo plusprodotto. Dunque, il rapporto dello scambio tra capitalista e lavoratore diventa soltanto una parvenza pertinente al processo di circolazione, pura forma estranea al contenuto vero e proprio, semplice mistificazione di esso. La compravendita costante della forza-lavoro è la forma. Il contenuto è che il capitalista torna sempre a permutare contro sempre maggiore quantità di lavoro altrui vivente una parte del lavoro altrui già oggettivato, che egli si appropria costantemente senza e­quivalente.

Originariamente, quindi, il diritto di proprietà ci si è presentato come fon­dato sul proprio lavoro: il mezzo per appropriarsi merce altrui era soltanto l’alienazione della propria merce (e questa si può produrre soltanto mediante lavoro). Adesso la proprietà si presenta, dalla parte del capitalista, come il diritto di appropriarsi lavoro altrui non retribuito e, dalla parte del lavoratore, come impossibilità di appropriarsi il proprio prodotto. La separazione tra proprietà e lavoro diventa conseguenza necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro identità. Senonché, per quanto il modo di appropriazione capitalistico sembri fare a pugni direttamente con la leggi primordiali della produzione delle merci, esso non deriva affatto dall’infrazione ma dall’applicazione di queste leggi.

La trasformazione originaria di una somma di valore in capitale si compie in tutto conformemente alle leggi del­lo scambio. Uno dei contraenti vende la sua forza-lavoro, l’altro la compera. Il primo riceve il valore della sua merce, con il che il suo valore d’uso – il lavoro – è alienato al secondo. Il valore [?] del nuovo prodotto include l’equivalente del valore della forza-lavoro e un plusvalore [?].

La forza-lavoro venduta per un periodo di tempo determinato possiede meno valore di quanto ne crei il suo uso durante questo periodo. Ma al lavoratore è stato pagato il valore di scambio della sua forza-lavoro – e con ciò egli ne ha alienato l’uso – il che accade per ogni compravendita. Che questa merce particolare, la forza-lavoro, abbia il valore d’uso peculiare di fornire lavoro [?], cioè di creare valore, ciò non può intaccare la legge generale della produzione di merci: ciò non deriva affatto da una soperchieria fatta al venditore, che ha infatti ricevuto il valore della sua merce, ma soltanto dal consumo di essa da parte del compratore.

La legge dello scambio, pertanto, porta con sé, fin da principio, l’ugua­glianza delle merci che sono date via l’una per l’altra e la differenza dei loro valori d’uso; il consumo di quelle merci ha inizio soltanto quando la transazione è stata conclusa e completata. La trasformazione del denaro in capitale [?] si compie dunque in esattissimo accordo con le leggi economiche della produzione di merci e con il diritto di proprietà che ne deriva. Ma malgrado ciò essa ha per risultato:

1. che il prodotto appartiene al capitalista e non al lavoratore;

2. che il valore di questo prodotto include, oltre al valore del capitale anticipato, un plusvalore, che al lavoratore è costato lavoro, ma al capitalista non è costato nulla;

3. che il lavoratore salariato ha conservato la sua forza-lavoro e la può vendere di nuovo, se trova un compratore.

I capitalisti – spiega Sismondi – “hanno già acquisito un diritto permanente su di esso con un lavoro originario”. È noto che il regno del lavoro non è l’unico nel quale la primogenitura faccia miracoli.

Il capitalista – in quanto è capitale personificato – come fanatico della valorizzazione del valore costringe senza scrupoli l’umanità alla produzione per la produzione; non si arricchisce in proporzione del suo lavoro personale, ma nella misura in cui succhia forza-la­voro altrui e impone al lavoratore la rinuncia a tutti i piaceri della vita.

Accumulate, accumulate! Questa è la Legge, e questo dicono i profeti! Accumulazione per l’accumulazio­ne, produzione per la produzione, in questa formula l’eco­nomia classica ha espresso la missione storica del periodo dei borghesi.

“I salari – dice J. St. Mill – non han­no forza produttiva, sono il prezzo di una forza produttiva. Se si potesse avere lavoro senza acquistarlo, i salari sarebbero superflui”. Ma se i lavoratori potessero vivere d’aria, si potrebbero comprare senza pagare alcun prezzo. La gratuità dei salariati è dunque un limite in senso matematico, sempre irraggiungibile benché sempre più approssimabile. È tendenza costante del capitale abbassare il costo del lavoro fino a questo punto nihilistico. Il fine auspicato del capitale non è più il salario continentale, ma il salario cinese.

La trasformazione del denaro in capitale e del lavoro in lavoro salariato, deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equivalenti. Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta!                                                                 

[k.m.]

(Il Capitale, I, 1, 3,4, 17, 22-24)

 

 

Alienazione # 2

(oggettivazione del lavoro)

Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto ogget­tivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come annullamento dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù del­l’oggetto, e l’ap­propriazione come alienazione [Entfremdung], come espropriazione [Entäußerung].

L’operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo [fremd]. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che quanto più l’operaio si consuma tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede [il processo di “trasfe­rimento di realtà”, di alienazione rea­le, è effettivo].

Come nella reli­gione: più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto. Più è grande questa sua at­tività e più l’operaio diventa senza oggetto. Ciò ch’è il prodotto del suo lavoro, egli non lo è. Quanto maggiore questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L’espro­priazione dell’o­peraio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’e­sterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica.

Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell’atto Abbiamo finora considerato l’alie­na­zione, l’espropriazione dell’operaio solo se­condo un lato: quello del suo rapporto coi prodotti del suo lavoro.della produzione [?], dentro la stessa attività producente. Nell’alienazione dell’oggetto del lavoro si riassume soltanto l’aliena­zione, l’espropriazio­ne, che avviene nell’attività stessa del lavoro. In che consiste ora l’espro­priazione del lavoro?

In primo luogo in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’o­peraio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mor­tifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. A casa sua egli è quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il la­voro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddi­sfare dei bisogni esterni a esso.

La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d’altro genere, “il lavoro è fuggito co­me la peste”. Il la­voro esterno, il lavoro in cui l’uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mor­tifi­cazione. Infine, l’este­riorità del lavoro, al lavoratore, si pa­lesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro, che il lavoro non gli appartiene, e che in esso egli non ap­partiene a sé, bensì a un altro.

Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue fun­zioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura cor­porale ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. Il mangiare, il bere, il generare ecc., sono in effetti anche schiet­te funzioni umane, ma sono bestiali nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici.

Abbiamo considerato da due lati l’atto di alienazione dell’attività pratica umana, del lavoro. 1) Il rapporto dell’operaio col prodotto del lavoro come oggetto estraneo e avente un dominio su di lui. 2) Il rapporto del lavoro con l’atto di produzione nel lavoro. Abbiamo ancora da trarre dal­le precedenti una terza caratteristica del lavoro alienato.

L’uomo è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoricamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche – e questo è solo un altro modo di esprimere la stessa cosa – in quanto egli si rapporta a se stesso co­me al genere presente e vivente; in quanto si rapporta a se stesso come a un ente universale e però libero.

Sicché il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva, appare al­l’uomo solo come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’e­sistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita generica. È la vita generante la vita.

Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico, e la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare sol­tanto mezzo di vita. L’ani­male fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’ogget­to del suo volere e della sua co­scienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c’è una sfera determinata con cui imme­diata­mente si confonde. L’attività vitale consapevole distingue l’uo­mo direttamente dal­l’attività vitale animale.

Proprio solo per questo egli è un ente generico. Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita, solo perché è precisamente un ente generico. Soltanto per questo la sua attività è libera attività. Il lavoro alienato rovescia il rap­porto, nel senso che l’uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza.

L’oggetto del lavoro è l’oggettiva­zione della vita generica dell’uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, real­mente, e vede quindi se stesso in un mondo fatto da lui. Allorché, dunque, il lavoro alie­nato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione, è la sua vita generica che gli sottrae, la sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo van­taggio sull’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico, della natura.

Egualmente, in quanto il lavoro alie­nato abbassa l’attività autonoma, la libera atti­vità, ad un mezzo, fa della vita generica dell’uomo il mezzo della sua esistenza fisica. La coscienza che l’uomo ha del suo genere si trasforma dunque, attraverso l’alie­na­zione, in ciò: che la vita generica gli diventa mezzo.

Il lavoro alienato fa, dunque:

 3) del­la essenza specifica dell’uo­mo, tanto della natura che dello spiri­tuale potere di genere, un’essenza a lui estranea, il mezzo della sua individuale e­sistenza; estrania al­l’uomo il suo pro­prio corpo, gli estrania tanto la natura di fuori quanto il suo spirituale essere, la sua umana essenza.

4) un’immediata conseguenza del fatto che l’uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi [Entfremdung] dell’uo­mo dal­l’uomo.

Quando l’uomo sta di fronte a se stesso, gli sta di fronte l’altro uomo. Ciò che vale del rapporto dell’uomo al suo lavoro, al prodotto del suo lavoro e a se stesso, ciò vale del rapporto dell’uomo all’altro uomo, e al lavoro e all’oggetto del la­voro del­l’altro uomo. In generale, il dire che la sua essenza specifica è estraniata dall’uomo significa che un uomo è e­straniato dall’altro, come ognuno di essi dal­l’essenza umana.

[k.m.]

(Manoscritti economico-filosofici, 1844) 

 

 

Alleanze

Sul problema delle alleanze che il proletariato deve ricercare nella lotta con­tro la grande borghesia, c’è grande confusione. Da un lato, non è abbastanza chiaro che solo dopo aver riconosciuto la propria entità e definito un proprio programma di classe [?], il proletariato è in grado di pensare al blocco storico con altri strati della società, nel senso della propria egemonia. Dall’altro, l’e­stremismo infantile tende assai spesso a confondere la ricerca di una tale al­leanza strategica e tattica con il cedimento riformistico alle posizioni della piccola borghesia. Questo rischio, in effetti, come il primo, c’è realmente. Conviene perciò, come al solito, seguire alla lettera le precise indicazioni marxengelsiane. La forza di quest’ordine borghese è la classe media; l’industria e il commer­cio, cioè gli affari della classe media, possono però fiorire in presenza di una forte governabilità [?]. La forza della grande borghesia sta perciò proprio in codesta sua capa­cità egemonica sugli strati intermedi della società. Quegli strati e le classi che loro corrispondono, tuttavia, assai spesso, se non quasi sempre, non sono in grado di costituirsi in classe per sé; ossia, non possono rappresentarsi, ma – maggioranza silenziosa – conviene piuttosto che siano rappresentati da classi meglio strutturate.

Cosicché, la piccola borghesia in tutte le sue gradazioni, e ugualmente la clas­se dei contadini, o le nuove classi medie non proprietarie sono del tutto esclu­se dal potere politico. Esso le sopprime politicamente, oltre a offenderle e scandalizzarle moralmente con le sue orge, e può rappresentare i loro interes­si solo indirettamente e in via subalterna. Il fatto è che il titolo di proprietà [?], che il capitale concede e garantisce formalmente a codeste classi medie della piccola borghesia, rappresenta il “talismano” con cui il capitale stesso ha po­tuto finora affascinarle. Un talismano che, oggi sempre più, si maschera pro­ditoriamente – azionariato diffuso, public company, partecipazione, fondi co­muni d’investimento, piccola speculazione di borsa, ecc. – dietro quella molti­tudine di società, la cui facile accessibilità alla sottoscrizione di azioni è un appello diretto alla borsa dei piccoli borghesi e perfino degli operai; tutte queste chi­mere però si sono risolte unicamente in quel genere di truffa pura “che è pro­prio soltanto dei francesi e dei cinesi”. E proprio quel “titolo di proprietà” of­fre il pretesto col quale finora la borghesia ha aizzato le classi medie, vecchie e nuove, contro il proletario industriale.

Tutto il malessere, tutto il malcontento dei piccoli borghesi si dirige perciò contro qualsiasi intervento pubblico di sostegno o assistenza, anche se misera e ambigua come i lavori di pubblica “utilità” o l’indennità di disoccupazione, destinato ai lavoratori. Con vera rabbia essi fanno il conto delle somme in­ghiottite dai “parassiti” proletari, mentre la loro situazione diventa di giorno in giorno più insopportabile. “Una pensione di stato per una larva di lavoro, questo è il socialismo!” – brontolano tra di sé. I lavori pubblici, i cortei degli operai – in questo essi cercano l’origine della loro miseria. E nessuno si sca­glia contro le pretese macchinazioni dei comunisti più del piccolo borghese, che si agita disperatamente sull’abisso della bancarotta. Così, nel conflitto tra la borghesia e il proletariato, tutti i vantaggi, tutti i posti decisivi, tutti gli stra­ti intermedi della società sono in mano alla borghesia. Senonché questa parte delle classi medie, sotto i colpi della crisi [?], vengono ef­fettivamente rovinate, sul piano economico e sociale, a causa dello sperpero delle ricchezze pubbliche, dalla speculazione [?] finanziaria su larga scala che esso favorisce, dall’impulso dato all’accelerazione artificiale della centraliz­zazione [?] del capitale, e dalla conseguente espropriazione di una grande parte di loro. In questo senso, tale espropriazione e rovina economica rappresenta essa pure una forma di sfruttamento da parte del grande capitale.

Il loro sfruttamento differisce dallo sfruttamento del proletariato industriale, quindi, soltanto per la forma. Infatti lo sfruttatore è sempre il medesimo: il capitale. I singoli capitalisti sfruttano subfornitori, artigiani, contadini e com­mercianti con la concorrenza, e con l’ipoteca e l’usura, indebitandoli col si­stema del credito; al contempo, i capitalisti come classe sfruttano quelle clas­si medie attraverso lo stato – il loro stato – gravandoli di oneri mediante il si­stema fiscale [?] e il debito pubblico [?] a esso legato. A scanso di ulteriori equivoci, è bene sottolineare fortemente quelle altre parole che Marx stesso riserva ai piccoli borghesi precisando che “neppure si deve pensare che abbiamo per es­si una grande tenerezza”. Ma, allorché, per la prolungata crisi economica, il governo piega sotto l’incu­bo di un crescente disavanzo, spesso invano va mendicando sacrifici per la “patria”, per l’azienda-paese. Nessuno gli getta l’elemosina. Si deve ricorrere a un mezzo eroico, all’introduzione di nuove imposte straordinarie, in una forma o nell’altra, comunque siano mascherate. Ma su chi farle cadere? Sui lupi di borsa, sui re della banca, sui creditori dello stato, su chi vive di rendita, sugli industriali, sulle spalle delle classi più ricche? Non è certo il mezzo per avere l’appoggio della borghesia che conta. Si metterebbe a repentaglio il cre­dito dello stato e il credito commerciale, proprio mentre si cerca di mantenerli con la politica dei sacrifici. Per sottrarre la ricchezza nazionale allo sfrutta­mento della borsa, il governo dovrebbe sacrificare la propria ricchezza sull’“altare della patria”? Mica è così imbecille! – sostiene Marx. Senza un rivolgimento totale dello stato, dunque, non è possibile nessun rivolgimento del bilancio dello sta­to e delle sue leggi finanziarie. Ma qualcuno deve sborsare. Chi viene sacrifi­cato al credito borghese? Pantalone, il pover’uomo.

I proletari, infatti, già pagano – e da sempre. Se servono entrate straordinarie, allora, la crisi chiama all’appello le classi medie. Dopo che in parlamento già da un pezzo i rappresentanti dei piccoli borghesi sono stati respinti verso par­titi e gruppi minori e di disturbo, anche se a volte significativi, dai rappresen­tanti della grande borghesia, questa rottura parlamentare assume il suo signi­ficato economico reale, borghese. I piccoli borghesi debitori vengono abban­donati alla mercè dei borghesi creditori. Una gran parte dei primi va in com­pleta rovina; ai rimanenti è solo concesso di continuare i loro affari, in una si­tuazione tale da farne dei “fornitori”, servitori incondizionati del capitale. L’azione del grande capitale non si ferma qui, giacché di fronte alle difficoltà essa prosegue con un fiscalismo [?] che elimina di fatto quell’imposizione progressiva – una misura borghese, attuabile, su scala maggiore o minore, entro i rapporti di produzio­ne esistenti – che è un importante mezzo per legare i ceti medi della società borghese al governo “dabbene”, sostituendola sempre più con forme esose di tassazione indiretta. Così agendo il governo di fatto sacrifica la piccola borghesia alla grande. Questi sono gli ineluttabili e sempre ricorrenti luoghi comuni della reazione vittoriosa, i quali meritano pe­rò di essere qui segnalati solo perché diretti non unicamente contro il proleta­riato, ma prima di tutto contro le classi medie. Perciò la lotta contro il capitale nella sua forma moderna e sviluppata – nella sua fase culminante, ossia la lotta del salariato industriale contro il borghese indu­striale – è un fatto parziale; infatti la lotta contro i metodi secondari di sfrutta­mento capitalistico dei piccoli borghesi – artigiani, contadini, bottegai – e con­tro l’usura ipotecaria, contro i grandi banchieri, industriali e commercianti, in una parola contro la bancarotta, è ancora erroneamente confusa, in generale, nel sollevamento contro l’aristocrazia finanziaria [?] .

Una circostanza come quella descritta, dunque, è sufficiente a spiegare sia l’i­solamento velleitario di certo falso “operaismo” contro tutti, sia – il che è peg­gio – il tentativo da parte di rappresentanti ingessati del proletariato di difen­dere il suo interesse accanto a quello borghese; si gabella così un supponente “patto tra produttori”,  invece di far valere il punto di vista proletario come in­teresse rivoluzionario di tutta la società. Nulla di più spiegabile, perciò, del fatto che il proletariato lasci cadere la bandiera rossa davanti a quella tricolo­re. I lavoratori salariati non possono né muovere un passo avanti, né torcere un capello all’ordine borghese, prima che riescano a sollevare la massa della na­zione [?] che sta tra il proletariato e la borghesia, cioè tutte le classi medie e la piccola borghesia, contro questo ordine borghese, contro il dominio del capi­tale, costringendoli a unirsi ai proletari come loro avanguardia. Solo l’incapacità del capitale può far rialzare codesti strati intermedi – che, di certo, non sono comunisti! Solo un governo che sia, sì, anticapitalista, ma non solo anti- [?] purché soprattutto a direzione proletaria, può spezzare la loro crescente miseria economica, il loro continuo degradamento sociale. La re­pubblica costituzionale non è che la dittatura dei suoi sfruttatori riuniti, che tratta tutti gli altri come avversari. La rivolta contro la dittatura borghese, la necessità di una trasformazione della società, il mantenimento delle istituzio­ni democratiche così come degli organi motori di quella trasformazione, que­sti sono i tratti caratteristici di una strategia capace di costruire una coalizione di interessi diversi, di alleanze, sotto l’egemonia proletaria.

[gf.p.]

 

 

Alleanze #1

(rovina di proletariato e classi medie)

In quanto la divisione del lavoro nella fabbrica automatica riappare, essa è in primo luogo distribuzione dei lavoratori fra le macchine specializzate e distribuzione di masse operaie le quali tuttavia non costituiscono gruppi articolati, fra i vari reparti della fabbrica dove esse lavorano a macchine utensili omogenee giustapposte, dove quindi si ha soltanto una cooperazione semplice tra i lavoratori. Il gruppo articolato della manifattura è sostituito dal nesso tra lavoratore capo e alcuni pochi aiutanti. La distinzione sostanziale è quella tra i lavoratori i quali sono realmente occupati alle macchine utensili e i semplici manovali. Oltre a queste classi principali si ha un personale numericamente insignificante che si occupa del controllo del macchinario nel suo insieme e della sua costante riparazione, come ad es. ingegneri, meccanici, falegnami, ecc. Si tratta di una classe operaia superiore, in parte scientificamente istruita, in parte di tipo artigiano, che è al di fuori della sfera degli operai di fabbrica ed è soltanto aggregata ad essi.

È caratteristico che la legislazione inglese sulle fabbriche escluda espressamente dal suo raggio d’azione i lavoratori ricordati qualificandoli come non lavoratori di fabbrica, e che d’altra parte i rapporti pubblicati dal parlamento includano nella categoria dei lavoratori di fabbrica – altrettanto espressamente – non solo ingegneri, meccanici, ecc, ma anche dirigenti di fabbrica, commessi, fattorini, sorveglianti di magazzino, imballatori, ecc., in breve tutti a eccezione del proprietario di fabbrica in persona.

Questa divisione del lavoro è puramente tecnica. Ogni lavoro alla macchina richiede che il lavoratore sia addestrato molto presto affinché impari ad adattare il proprio movimento al movimento uniforme e continuativo di una macchina automatica. In quanto il macchinario complessivo costituisce esso stesso un sistema di molteplici macchine che operano simultaneamente e combinate, anche la cooperazione basata su di esso richiede una distribuzione di differenti gruppi di lavoratori tra le differenti macchine.

Senonché il funzionamento a macchina elimina la necessità di consolidare questa distribuzione come accadeva per la manifattura, mediante l’appropriazione permanente dello stesso lavoratore alla stessa funzione. Ora, benché il macchinario butti tecnicamente per aria il vecchio sistema della divisione del lavoro, in un primo tempo questo sistema si trascina nella fabbrica per consuetudine come tradizione della manifattura, per essere poi riprodotto e consolidato sistematicamente dal capitale quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro in una forma ancor più schifosa. Dalla specialità di tutt’una vita, consistente nel maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità di tutt’una vita, consistente nel servire una macchina parziale. Qui, come dappertutto, si deve distinguere tra maggiore produttività dovuta allo sviluppo del processo sociale di produzione e la maggiore produttività dovuta al suo sfruttamento capitalistico.

Il possesso dei mezzi di produzione da parte dei singoli produttori oggigiorno non fornisce loro più alcuna libertà reale. L’artigianato nelle città è già andato in rovina, nelle metropoli esso è addirittura già del tutto scomparso, sostituito dalla grande industria, dallo sfruttamento del lavoro a domicilio con il sistema del cottimo (sweat system) e da miserabili personaggi che vivono della bancarotta.

Il piccolo contadino che coltiva personalmente la propria terra non ne ha una proprietà sicura e non è libero. Egli stesso, al pari della sua casa, della sua proprietà e dei suoi campi, è nelle mani degli usurai; la sua esistenza è più malsicura di quella del proletario, che almeno di tanto in tanto ha una giornata libera, cosa che al martoriato schiavo dei propri debiti non accade mai.

In tal modo il contadino cade sempre più in basso. Le imposte, il cattivo raccolto, le divisioni ereditarie, i processi spingono un contadino dopo l’altro dall’usuraio, l’indebitamento diviene sempre più generale e sempre più grave per ogni singolo; in breve, il nostro piccolo contadino – al pari di ogni altra sopravvivenza di un modo di produzione ormai superato – è irrimediabilmente destinato a sparire. Egli è il futuro proletario. In quanto tale dovrebbe prestare l’orecchio alla propaganda socialista. Per il momento il suo senso della proprietà ancora profondamente radicato gli impedisce però di farlo. Quanto più la lotta per il suo pezzetto di terra minacciato si fa difficile, e tanto più disperatamente egli vi si aggrappa, tanto più egli vede nel socialismo che parla di trapasso della proprietà terriera nelle mani della collettività, un nemico altrettanto pericoloso quanto l’usuraio e l’avvocato.

La forma di produzione capitalistica ha tagliato il nervo vitale alla piccola azienda contadina; essa sta irreversibilmente decadendo e deperendo. La concorrenza [mondiale] ha inondato il mercato europeo di grano a buon mercato, tanto a buon mercato che nessun produttore interno è in grado di resistere a quella concorrenza. I grandi proprietari e i piccoli contadini si vedono entrambi destinati a scomparire. E poiché entrambi sono proprietari di terre e gente di campagna, il grande proprietario terriero si erge ad assertore degli interessi del piccolo contadino, e il piccolo contadino nell’insieme accetta questa tutela. I piccoli contadini sentono per ora l’a­spirazione a diventare proprietari; ma non appena lo diventano, le ipoteche li rovinano di nuovo. Questo però non significa che non dobbiamo aiutarli a liberarsi dai proprietari fondiari, cioè a passare da una condizione semifeudale a una capitalistica. Le masse sono dalla parte loro, mentre le organizzazioni e l’“aristocrazia operaia” seguono la borghesia liberale, e non fanno un passo di più.

Parlando di piccoli contadini, qui ci riferiamo al proprietario o fittavolo – particolarmente al primo – di un pezzetto di terra, non più grande di quello che di regola egli è in grado di lavorare assieme alla sua famiglia, e grande abbastanza per nutrirla. Questo piccolo contadino, al pari del piccolo artigiano, è dunque un lavoratore che si differenzia dal moderno proletario per il fatto di essere ancora proprietario dei suoi mezzi di lavoro; si tratta quindi di una sopravvivenza di un modo di produzione ormai trascorso. La piccola borghesia ha bisogno di un ordinamento statale democratico, sia esso costituzionale o repubblicano, che dia a lei e ai suoi alleati (i contadini) la maggioranza, e di un ordinamento comunale che le garantisca il controllo diretto della proprietà comunale e le attribuisca una serie di funzioni che ora vengono svolte dai burocrati. Il dominio e il rapido aumento del capitale dovrebbero inoltre essere contrastati in parte attraverso una limitazione del diritto ereditario, in parte attraverso il trasferimento di un numero possibilmente grande di attività allo stato. Riguardo ai lavoratori, è chiaro innanzitutto che debbono restare lavoratori salariati come sono stati finora, tranne che i piccoli borghesi vorrebbero assicurare loro un salario migliore e un’esistenza sicura, cosa che sperano di realizzare attraverso una occupazione parziale da parte dello stato e attraverso misure di beneficenza; in breve essi sperano di corrompere i lavoratori attraverso elemosine più o meno nascoste, e di spezzare la loro energia rivoluzionaria rendendo temporaneamente più sopportabile la loro situazione.

L’impero [francese] aveva rovinato economicamente una parte delle classi medie con lo sperpero delle ricchezze pubbliche, con la speculazione finanziaria su larga scala che esso aveva favorito, con l’impulso dato al­l’accelerazione artificiale della centralizzazione del capitale, e con la conseguente espropriazione di una grande parte di loro. Esso le aveva soppresse politicamente, le aveva moralmente scandalizzate con le sue orge, le aveva offese affidando l’i­struzione dei loro figli ai padri ignorantelli, aveva rivoltato il loro sentimento nazionale. In quasi tutte le branche di lavoro l’artigianato e la manifattura sono stati soppiantati dalla grande industria. A questo modo il “ceto medio” esistente finora, specialmente i piccoli maestri artigiani, si sono sempre più rovinati, le condizioni passate dei lavoratori si sono completamente rovesciate, e sono state create due classi nuove, che a poco per volta inghiottono tutte le altre.

In tutto ciò il problema centrale rimane quello di far comprendere ai contadini che possiamo preservare il loro possesso della casa e dei campi solo trasformandolo in possesso e in impresa cooperativa. È proprio l’eco­nomia individuale determinata dalla proprietà individuale che spinge i contadini alla rovina. Se insistono nel preservare l’impresa individuale, essi verranno inevitabilmente scacciati dalle loro case e dalle loro proprietà, il loro modo di produzione invecchiato verrà sostituito dalla grande impresa capitalistica. Cosi stanno le cose; e a questo punto interveniamo noi e offriamo ai contadini la possibilità di introdurre essi stessi la grande impresa, non per conto del capitalismo, ma per loro proprio conto.

L’attuale depressione commerciale ha colpito il nostro paese più di un paese industriale da lunga data. Perciò la pressione sui lavoratori si è accresciuta. E dicendo lavoratori si intendono lavoratori di tutte le classi. Il piccolo commerciante, rovinato dalla grande impresa commerciale, l’im­piegato, l’artigiano, il lavoratore urbano e quello rurale, tutti cominciano ora a sentire la pressione dell’attuale sistema di produzione capitalistico. E noi additiamo loro una via d’uscita scientificamente fondata. Poiché tutti costoro sanno leggere e sono capaci di pensare in modo indipendente, traggono presto da tutto ciò le giuste conclusioni e si uniscono alle nostre file. La nostra organizzazione è eccellente, essa desta l’ammirazione e la disperazione dei nostri avversari.

Mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi nazionali particolari, la grande industria ha creato una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso. Essa rende insopportabile al lavoratore non soltanto il rapporto col capitalista, ma il lavoro stesso. I proletari generati dalla grande industria si pongono alla testa del loro movimento di classe e trascinano con sé tutta la massa, perché i lavoratori esclusi dalla grande industria sono gettati da essa in una condizione di vita ancora peggiore di quella degli stessi lavoratori della grande industria. Allo stesso modo i paesi nei quali è sviluppata una grande industria agiscono sui paesi più o meno privi di industria, nella misura in cui questi sono trascinati dal commercio mondiale nella lotta universale della concorrenza.

La conquista del potere politico da parte della classe operaia conquisterà anche all’istruzione tecnologica teorica e pratica il suo posto nelle scuole dei lavoratori. Non c’è dubbio neppure che la forma capitalistica della pro­duzione e la situazione economica dei lavoratori che le corrisponde siano diametralmente antitetiche a questi fermenti rivoluzionari e alla loro meta, che è l’abolizione della “vecchia” divisione del lavoro. È altrettanto comprensibile che, quando il potere statale sarà nelle nostre mani, non potremo pensare di espropriare forzatamente i piccoli contadini (con o senza indennizzo), come invece siamo costretti a fare con i grandi proprietari terrieri. Il nostro compito nei confronti dei piccoli contadini consiste innanzitutto nel trasferire la loro impresa privata e la loro proprietà pri­vata in un’impresa e in una proprietà cooperativa, non con la forza, ma con l’esempio e offrendo un aiuto sociale a questo fine. E in tal modo disponiamo effettivamente di mezzi a sufficienza per prospettare al piccolo contadino dei vantaggi che già ora gli dovrebbero apparire accettabili.                                   

[f.e.-k.m,]

(brani tratti principalmente da Principi del comunismo, Ideologia tedesca, Lotte di classe in Francia, Il capitale, La questione contadina in Francia e Germania)

 

 

Alleanze # 2

(rapporti reciproci di tutte le classi)

La coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se i lavoratori non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e del­l’oppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la classe che ne è colpita, e a reagire da un punto di vista “comunista” [sempre così, per trad. socialdemocratico] e non da un punto di vista qualsiasi. La coscienza delle masse operaie non può essere una vera coscienza di classe se i lavoratori non imparano a osservare, sulla base dei fatti e degli avvenimenti politici concreti e attuali, ognuna delle altre classi sociali in tutte le manifestazioni della vita intellettuale morale e politica; se non imparano ad applicare in pratica l’ana­lisi e il criterio materialistico a tutte le forme d’attività e di vita dì tutte le classi, strati e gruppi della popolazione. Chi induce la classe operaia a rivolgere la sua attenzione, il suo spirito di osservazione e la sua coscienza esclusivamente, o anche principalmente, su se stessa, non è un “comunista”, perché per la classe operaia la conoscenza di se stessa è indissolubilmente legata alla conoscenza esatta dei rapporti reciproci di tutte le classi della società contemporanea, e conoscenza non solo teorica, anzi, non tanto teorica, quanto ottenuta attraverso l’esperienza della vita politica.

Per diventare “comunista” il lavoratore deve avere una chiara visione della natura economica, della fisionomia politica e sociale del grande proprietario fondiario e del prete, del­l’alto funzionario e del contadino, dello studente e del sottoproletario, conoscerne i lati forti e quelli deboli, saper discernere il significato delle formule e dei sofismi di ogni genere con i quali ogni classe e ogni strato sociale maschera i propri appetiti egoistici e la propria vera “sostanza”, saper distinguere quali interessi le leggi e le istituzioni rappresentano, e come li rappresentano. Ma non si potrà trovare in nessun libro questa “chiara visione”: la potranno dare solo gli esempi tratti dalla vita, le denunce che battano il ferro mentre è caldo e che trattino di ciò che avviene intorno a noi in un dato momento, di ciò che si dice e si sussurra nei crocchi, di ciò che dimostrano questo o quel fatto, certe cifre e certe sentenze dei tribunali, ecc. Queste denunce politiche relative a tutte le questioni della vita sociale sono la condizione necessaria e fondamentale per educare le masse all’attività rivoluzionaria.

La coscienza politica di classe può essere portata al lavoratore solo dal­l’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra lavoratori e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi. Perciò alla domanda: “che cosa fare per dare ai lavoratori cognizioni politiche?”, non ci si può limitare a dare una sola risposta, a dare quella risposta che nella maggior parte dei casi accontenta i militanti, soprattutto quan­do essi pencolano verso il “sindacalismo” [sempre così per trad. economismo, tradunionismo], e cioè: “andare tra i lavoratori”. Per dare ai lavoratori cognizioni politiche, i “co­munisti” devono andare tra tutte le classi della popolazione, devono inviare in tutte le direzioni i loro distaccamenti. C’è una massa di individui, ma gli uomini mancano. C’è una massa di individui perché la classe operaia e i “ceti” sempre più diversi della società forniscono ogni anno un numero sempre maggiore di malcontenti, pronti a protestare e a dare il loro concorso alla lotta contro l’asso­lutismo, l’intollerabilità del quale, se non è ancora compresa da tutti, è sentita in modo sempre più acuto da una massa sempre più grande. In pari tem­po gli uomini mancano, perché non vi sono dirigenti, non vi sono capi politici, non vi sono intelligenze capaci di organizzare un lavoro vasto e nello stesso tempo coordinato, armonico, che permetta di utilizzare qualsiasi forza, anche la più insignificante.

I “comunisti” potrebbero assai bene ripartire le mille funzioni particolari del lavoro organizzativo tra elementi delle classi più diverse; nessun militante ne dubiterà. Tra i “comunisti” l’elemento predominante è ormai costituito da militanti di un altro tipo che si sono formati quasi esclusivamente sulla letteratura marxista “legale”, tanto più insufficiente quanto più alta è la coscienza richiesta dalla spontaneità della massa. Non solo i dirigenti sono in ritardo teoricamente e praticamente, ma si sforzano di giustificare il proprio ritardo, con mille e un argomento altisonante. Il movimento “comunista” è abbassato al livello del “sindacalismo”, della letteratura legale e dei “codisti” della letteratura illegale.

In difesa del “terrorismo” si adducono argomenti particolari che è molto interessante notare. Si “nega completamente” la funzione intimidatrice del terrorismo, ma ne sottolinea la “funzione di incitamento (di stimolo)”! Ciò è caratteristico, anzitutto, come uno degli stadi della decadenza e della disgregazione di quel ciclo di idee tradizionali (“precomuniste”) che aveva permesso al terrorismo di affermarsi. Riconoscere che oggi è impossibile “intimidire” e, quindi, disorganizzare il governo col terrorismo, significa in sostanza condannarlo completamente come metodo di lotta, come sfera di attività sanzionata da un programma. Ma la cosa è ancora più caratteristica come esempio di incomprensione dei nostri compiti immediati per “educare le masse al­l’attività rivoluzionaria”. C’è chi propugna il terrorismo come mezzo per “stimolare” il movimento operaio, per dargli “un impulso vigoroso”: sarebbe difficile immaginare un argomento che si confuti da se stesso con maggiore evidenza! Ci sono forse così pochi scandali da dover inventare “stimolanti” speciali? D’altra parte, non è evidente che coloro i quali non si sentono stimolati e non sono passibili di essere stimolati nemmeno dal regime di arbitrio che domina rimarranno egualmente “con le mani in tasca” di fronte al duello di un pugno di terroristi con il governo? Le infamie della vita stimolano fortemente le masse lavoratrici, ma noi non sappiamo, per così dire, né raccogliere, né concentrare tutte le gocce e i getti dell’effervescen­za popolare, che, infinitamente più numerosi di quanto crediamo, si sprigionano dalla vita, e che bisogna appunto fondere in un solo gigantesco torrente.

La popolazione contadina comprende una massa di elementi semiproletari accanto agli elementi piccolo-borghesi. Anch’essa è quindi instabile e il proletariato è costretto a raggrupparsi in un partito rigorosamente classista. Ma l’instabilità della popolazione contadina differisce in modo radicale dall’instabilità della borghesia. Senza diventare per questo socialisti, senza cessare di essere dei piccoli borghesi, i contadini possono diventare dei fautori decisi, e tra i più radicali, della rivoluzione democratica. E lo diventeranno inevitabilmente, purché il corso degli avvenimenti rivoluzionari, che li sta educando, non sia interrotto troppo presto dal tradimento della borghesia e dalla disfatta del proletariato.

I piccoli contadini si estenuano sul lavoro più dei lavoratori salariati e riducono il livello dei loro bisogni al di sotto del livello dei bisogni e del tenore di vita di questi ultimi. Il potere del denaro non solo ha schiacciato, ma ha scisso la popolazione contadina: la grande massa andava incontro a sicura rovina e si trasformava in proletariato, mentre una minoranza esprimeva da sé esigui gruppetti di poco numerosi contadini benestanti (kulaki) e intraprendenti, che accaparravano le aziende e le terre dei contadini poveri, costituendo i quadri della nascente borghesia rurale. Il contadino povero era stato ridotto a un tenore di vita da miserabile. I contadini poveri soffrivano cronicamente la fame e morivano a decine di migliaia sia di fame che per le epidemie nelle annate cattive, che si erano fatte sempre più frequenti.

Furono gli artigiani, persino nel­l’Europa occidentale dove l’organiz­zazione corporativa era cosi forte, a dar prova, come gli altri piccoli borghesi delle città, di uno spirito particolarmente rivoluzionario all’epoca della caduta dell’assolutismo. E per i “comunisti” è particolarmente assurdo ripetere, senza riflettere, quel che alcuni compagni dicono degli odierni artigiani, un secolo dopo la caduta dell’assolutismo. Parlare di spirito reazionario degli artigiani rispetto alla borghesia nel campo dei problemi politici altro non è che ripetere una frase fatta imparata a memoria. Ognuno può dunque vedere quanto manchi di tatto agitare trionfalmente la frase di Marx: “ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi”. Ripetere queste parole in un momento di sbandamento teorico, è come “fare dello spirito a un funerale”. Queste parole, d’altra parte, sono estratte dalla lettera [a Bracke, 1875] sul programma di Gotha nella quale Marx condanna categoricamente l’eclettismo nell’enunciazione dei principi. Se è necessario unirsi – scriveva Marx ai capi del partito – fate accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici del movimento, ma non fate commercio dei principi e non fate “concessioni” teoriche: capire che nella lotta politica bisogna talvolta saper scegliere il minor male.

Questo era il pensiero di Marx, e tra noi si trova della gente che nel suo nome tenta di sminuire l’impor­tanza della teoria! Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica. In sostanza l’intera posizione degli opportunisti cominciò a delinearsi sin dalla loro ostilità verso l’idea dell’edificazione del partito dall’alto in basso, e la loro tendenza ad andare dal basso in alto, dando a qualsiasi professore, a qualsiasi studente di ginnasio, a “ogni scioperante”, la possibilità di annoverarsi tra i membri del partito, e dalla loro inclinazione verso la mentalità dell’intellettuale borghese e la facilità ad abbandonarsi all’elucubrazione opportunistica.

Nessuno vorrà negare che gli intellettuali, in quanto strato particolare delle attuali società capitalistiche, sia­no caratterizzati dall’individualismo e dall’insofferenza per la disciplina e l’organizzazione; tra l’altro, proprio questo elemento differenzia a suo svantaggio questo strato sociale dal proletariato; sta qui una ragione della fiacchezza e dell’instabilità degli intellettuali, che così spesso si ripercuotono sul proletariato; e questa particolarità degli intellettuali è indissolubilmente legata alle loro condizioni di vita abituali, alle loro condizioni di lavoro, che sotto moltissimi aspetti sono vicine alle condizioni d’esisten­za piccolo-borghese (lavoro individuale o in piccolissimi collettivi, ...).

I nostri intellettuali amano considerarsi progressisti; è sufficiente considerare anche solo superficialmente la dipendenza dei moderni intellettuali dalla borghesia dominante, sul piano economico generale, su quello sociale, e comunque in ogni tipo di rapporto. È sufficiente ricordare il gran numero di tendenze filosofiche alla moda che fanno tanto sovente la loro comparsa nei paesi europei, per farsi un’idea del nesso esistente fra gli interessi di classe e la situazione di classe della borghesia, dell’appoggio che essa elargisce a qualsiasi genere di religione, del contenuto di idee presente negli indirizzi filosofici alla moda. Bisogna quindi che gli intellettuali ci ripetano un po’ meno ciò che sappiamo già e ci diano un po’ più di ciò che ignoriamo ancora, di ciò che la nostra “vita di fabbrica” e la nostra esperienza “economica” non ci permettono mai di imparare: le cognizioni politiche. Queste cognizioni, voi intellettuali, potete acquistarle e dovete trasmetterle cento e mille volte più generosamente di quanto abbiate fatto finora. Dovete trasmettercele non solo con ragionamenti, opuscoli, articoli, ecc. ma anche con denunce vivaci di ciò che fanno, proprio in questo momento, il nostro governo e le nostre classi dominanti in tutti i campi della vita.                     

[v.l.]

(brani tratti principalmente da Che fare?, Un passo avanti e due indietro).

 

 

Alleanze # 3

(strati intermedi e “ceti” medi)

Tra la borghesia e il proletariato esistono numerosi strati intermedi i quali progressivamente, con gradazioni quasi impercettibili, conducono da una classe all’altra. In parte sono residui del vecchio “ceto medio” indipendente: piccoli capitalisti – che è difficile separare nettamente dai grandi capitalisti – i quali vengono però pesantemente oppressi dal grande capitale, contadini ricchi, piccoli borghesi, i quali in parte sono al servizio del grande capitale, fino ai contadini poveri e agli artigiani che vengono direttamente sfruttati dal grande capitale. In parte si tratta di classi di recente formazione, dai capi-officina e dai tecnici, attraverso gli ingegneri, i dottori, i capi-ufficio fin su ai direttori, essi costituiscono una catena ininterrotta di funzionari; negli strati inferiori essi fanno parte degli sfruttati, in quelli più elevati essi partecipano allo sfruttamento.

Un piccolo borghese o contadino non è che un proletario sfruttato dal capitale. Del provento del suo lavoro egli non conserva più di quanto gli abbisogna per vivere: il valore della sua forza-lavoro. Ogni altra cosa va al capitalista, costituisce quindi il plusvalore. Ma qui lo sfruttamento avviene in una forma che, essendo occulta, è molto più terribile dello sfruttamento dei lavoratori della grande industria. Quegli sfruttati sono convinti di lavorare per se stessi; per questo si spremono fino allo stremo delle forze e si accontentano del modo di vita più miserabile. Vivono molto peggio degli operai dell’industria e la loro giornata lavorativa è molto più lunga. Proprio per questo, nonostante l’arretratezza tecnica del loro modo di lavorare, essi forniscono tuttora profitti molto elevati al capitale.

In questo modo larghi strati piccolo-borghesi vengono sfruttati dal capitale. Contadini poveri la cui terra è gravata da una pesante ipoteca, come pure commercianti il cui negozio è pesantemente indebitato, ne fanno parte. Della medesima categoria fanno parte i fittavoli; invece di pagare un interesse alle banche di credito ipotecario essi pagano un affitto al proprietario terriero, e a loro stessi rimane soltanto una modesta retribuzione della loro forza-lavoro. E anche per il possessore di capitali è indifferente che investa il suo capitale in ipoteche o che acquisti un terreno; in entrambi i casi è il contadino che crea per lui il plusvalore con il suo lavoro. Dal piccolo negoziante o artigiano i cui mezzi di produzione sono in fondo proprietà del capitalista che gli ha prestato del denaro, fino al piccolo industriale che svolge la sua attività in casa propria, al quale il capitalista fornisce la materia prima e dal quale rileva il prodotto finito, si incontrano tutti i passaggi; i primi hanno l’a­spetto di piccoli borghesi indipendenti, mentre gli altri sono noti a tutti come lo strato proletario più oppresso. Tutti loro hanno però in comune la caratteristica di essere sfruttati dal capitale, pur mantenendo il loro primitivo modo di lavorare. Il capitale che riunisce e organizza i salariati dell’industria, non organizza questi altri sfruttati. Essi rimangono individui isolati; ognuno di essi è impotente al cospetto del capitalista.

Per esperienza diretta essi conoscono il capitale non come potenza rivoluzionaria che prepara il socialismo, ma soltanto come capitale usuraio che li dissangua. Vittoria sul capitale per essi non significa passaggio a un modo di produzione più elevato, che avvia un possente accrescimento delle forze produttive, ma liberazione dal vampiro che sta loro attaccato dietro la nuca. La società socialista alla quale aspirano, è ai loro occhi una società in cui predomina la piccola impresa, i cui frutti non possono più venir rapinati dall’usuraio capitalista, ma vanno invece al produttore stesso. Il loro ideale socialista è quindi in sostanza un ideale reazionario, il ritorno a un modo di produzione piccolo-borghese primitivo; i loro teo­rici tentano di provare che questo è il modo più produttivo di operare economicamente. E nei casi in cui essi stessi occupano dei lavoratori e si mantengono in piedi grazie a uno sfruttamento terribile degli apprendisti, e quindi si sentono direttamente minacciati dalle rivendicazioni salariali degli lavoratori e dalle leggi di protezione del lavoro, essi si trasformano nei nemici – più ottusi e carichi d’odio – del proletariato.

In modo differente dai residui del vecchio “ceto medio” indipendente, il cosiddetto nuovo ceto medio – gli intellettuali, i funzionari, gli impiegati del settore privato – costituisce uno strato intermedio tra il proletariato e la borghesia. Esso si differenzia dal vecchio ceto medio in un punto importante: non possiede mezzi di produzione, vive invece della vendita della propria forza-lavoro. Esso quin­di non è interessato al mantenimento della produzione privata dei mezzi di produzione. In questo punto concorda con il proletariato, e al pari di que­st’ultimo non ha interessi o desideri reazionari; il suo occhio guarda verso il futuro, non al passato. Esso è una classe moderna, in ascesa, che con lo sviluppo sociale diviene sempre più numerosa e rilevante.

Ma la sua situazione si differenzia profondamente da quella del proletariato. Abitualmente la sua forza-la­voro è altamente qualificata; la sua formazione esige spesso studi costosi; a causa di ciò la sua retribuzione è considerevolmente più elevata di quella dei proletari; poiché i suoi membri occupano posizioni dirigenti e scientifiche, dalle quali dipende fortemente il profitto dell’impresa, provando le loro capacità essi possono pervenire a posizioni altamente retribuite. I funzionari di grado più elevato si sentono solidali con il capitale e riescono a soddisfare le loro richieste per altre vie; la massa degli impiegati si suddivide in tanti gruppi, strati e ranghi con stipendi e posizioni tanto differenziate, che essi non si fondono in un corpo compatto e unitario al pari dei proletari.

Gli intellettuali sono divisi dal proletariato anche a causa della loro ideo­logia. Provenendo da ambiti borghesi, essi portano con sé una concezione borghese del mondo che è stata ulteriormente rafforzata e approfondita dal loro studio teorico. In loro i pregiudizi della borghesia nei confronti del socialismo hanno assunto la forma di teorie scientificamente fondate. La posizione particolare che essi occupano nel processo produttivo rafforza a sua volta questa concezione ideo­logica, secondo cui lo spirito domina il mondo. Essa fornisce loro un’opinione errata della cultura, e grazie a essa si sentono di gran lunga superiori alle masse operaie. Va qui osservato che, viceversa, alcuni strati che sorgono dal proletariato, i lavoratori che a causa di una for­mazione e di una qualificazione particolare sono indispensabili, vengono retribuiti meglio e in tal modo costituiscono un’aristocrazia operaia, si avvicinano a questi strati inferiori degli intellettuali e presentano alcuni suoi tratti.

[a.p.]

(da Tattiche del movimento dei lavoratori)

 

 

Alleanze # 4

(proletariato e classi anticapitalistiche)

Una questione fondamentale è quella dei rapporti che debbono essere stabiliti tra la classe operaia e le altre classi anticapitalistiche, dei rapporti della classe proletaria nel suo complesso con le altre forze sociali che oggettivamente sono sul terreno anticapitalistico, quantunque siano dirette da partiti e gruppi politici legati alla borghesia; quindi in primo luogo i rapporti fra il proletariato e i contadini. È questo un problema – uno dei problemi della tattica e della strategia del partito – che può essere risolto soltanto dal partito della classe operaia mediante la sua politica. Nel definire il partito è necessario sottolinea­re il fatto che esso è una “parte” della classe operaia, ma il partito comunista non può essere solo un partito di operai. Deve organizzare e unificare il proletariato industriale e agricolo per la rivoluzione; organizzare e mobilitare attorno al proletariato tutte le forze necessarie per la vittoria rivoluzionaria e per la fondazione dello stato operaio. Così il partito comunista non può chiudere le porte ai contadini: esso deve anzi avere nel suo seno dei contadini e servirsi di essi per stringere il legame politico tra il proletariato e le classi rurali, in una forte differenziazione dei ceti rurali, con una prevalenza degli strati poveri, più vicini alle condizioni del proletariato e più facili a subire la sua influenza e ad accettarne la guida.

Tra le classi industriali ed agrarie si pone una piccola borghesia urbana abbastanza estesa e che ha un’impor­tanza assai grande. Essa consta in pre­valenza di artigiani, professionisti e impiegati dello stato. La piccola borghesia tende quindi ad avvicinarsi ai contadini. Il sistema di sfruttamento e di oppressione delle masse meridionali è portato dal fascismo all’estremo; questo facilita la radicalizzazione anche delle categorie intermedie e pone la questione meridionale nei suoi veri termini, come questione che sarà risolta soltanto dalla insurrezione dei contadini alleati del proletariato nella lotta contro i capitalisti e contro gli agrari.

La classe operaia e il suo partito non possono fare a meno degli intellettuali né possono ignorare il problema di raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che per una via o per un’altra sono spinti alla rivolta contro il capitalismo. In nessun paese il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sole sue forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una politica tale che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e guidarle nella lotta per l’abbattimento della società borghese. La questione è particolarmente importante per l’Italia, dove il proletariato è una minoranza della po­polazione lavoratrice. È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una situazione reazionaria, e che, anzi, in una situazione democratica sia più disagevole il lavoro per la conquista del­le masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organizzare la insurrezione.

Era necessario condurre un’azione politica, e questa doveva essere diversa nei riguardi del fascismo e delle opposizioni. Infatti, anche l’estrema sinistra asserisce che i fattori della situazione in quel momento erano tre: il fascismo, le opposizioni e il proletariato. Questo vuol dire che tra i due primi noi dovevamo fare una distinzione e pórci, non solo teoricamente, ma praticamente, il problema di disgregare socialmente e quindi politicamente le opposizioni, per toglier loro le basi che avevano tra le masse. A questo scopo fu rivolta l’azione politica del partito verso le opposizioni. È certo che, per il proletariato e per noi in quel momento esisteva un problema fondamentale: quello di rovesciare il fascismo. Appunto perché volevano che il fascismo fosse abbattuto con qualsiasi mezzo, le masse seguivano in grandissima parte le opposizioni. E in realtà non si deve negare che se il governo di Mussolini fosse caduto, con qualunque mezzo lo si fosse fatto cadere, si sarebbe aperta in Italia una crisi politica assai profonda, di cui nessuno avrebbe potuto prevedere o frenare gli svolgimenti. Ma questo sapevano anche le opposizioni e perciò esse esclusero fin dall’inizio “un” modo di far cadere il fascismo, che era il solo possibile: la mobilitazione e la lotta delle masse. Escludendo questo solo possibile modo di far cadere il fascismo le opposizioni in realtà tennero in piedi il fascismo, furono il più efficiente puntello del regime in dissoluzione.

Il proletariato è disposto geograficamente in forma tale che non può presumere di condurre una lotta vittoriosa per il potere se non dopo avere data una esatta risoluzione al problema dei suoi rapporti con la classe dei contadini. La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. È certo che si debbono esaminare con attenzione anche le diverse stratificazioni della classe borghese. La tattica del partito ha cercato sempre di tenere conto delle stratificazioni della borghesia, e la nostra proposta dell’“antiparlamen­to” fu fatta allo scopo di giungere a prendere contatto con masse arretrate le quali erano fino ad allora rimaste sotto il controllo di strati della grande o della piccola borghesia.

Sullo stesso piano si pone la questione del Vaticano come forza politica controrivoluzionaria. La base sociale del Vaticano è data appunto dai contadini, che i clericali hanno sempre considerato come esercito di riserva della reazione e che si sono sforzati di mantenere sempre sotto il loro controllo. La realizzazione della alleanza tra operai e contadini per la lotta contro il capitalismo suppone la distruzione della influenza del Vaticano sui contadini. Anche i contadini medi e poveri delle altre parti d’Italia acquistano una funzione rivoluzionaria, benché in modo più lento. Il Vaticano – la cui funzione reazionaria è stata assunta dal fascismo – non controlla più le popolazioni rurali in modo completo attraverso i preti, l’“A­zione cattolica” e il Partito popolare. Vi è una parte dei contadini, la quale è stata risvegliata alle lotte per la difesa dei suoi interessi.

La capacità strategica e tattica del partito è la capacità di organizzare e unificare attorno all’avanguardia proletaria e alla classe operaia tutte le forze necessarie alla vittoria rivoluzionaria e di guidare di fatto verso la rivoluzione approfittando delle situazioni oggettive e degli spostamenti di forze che esse provocano sia tra la popolazione lavoratrice che tra i nemici della classe operaia. Con la sua strategia e con la sua tattica il partito “dirige la classe operaia” nei grandi movimenti storici e nelle sue lotte quotidiane. L’una direzione è legata all’altra ed è condizionata dall’altra. Esso è consapevole dell’impossibilità che le condizioni dei lavoratori siano migliorate in modo serio e durevole, nel periodo dell’imperialismo e prima che il regime capitalista sia stato abbattuto. L’agitazione di un programma di rivendicazioni immediate e l’ap­poggio alle lotte parziali è però il solo modo col quale si possa giungere alle grandi masse e mobilitarle contro il capitale. D’altra parte ogni agitazione o vittoria di categorie operaie nel campo delle rivendicazioni immediate rende più acuta la crisi del capitalismo, e ne accelera anche soggettivamente la caduta in quanto sposta l’in-stabile equilibrio economico sul quale esso oggi basa il suo potere.

L’iniziativa diretta del partito comunista per un’azione parziale, può aver luogo quando esso controlla attraverso organismi di massa una parte notevole della classe lavoratrice, o quando sia sicuro che una sua parola d’ordine diretta sia seguita egualmente da una parte notevole della classe lavoratrice. Il partito non prenderà però questa iniziativa se non quando, in relazione con la situazione oggettiva, essa porti a uno spostamento a suo favore dei rapporti di forza. Esso sostiene queste sue concezioni nel­l’interno delle organizzazioni di massa cui spetta la direzione dei movimenti parziali, o nei confronti dei partiti politici che ne prendono l’ini­ziativa, oppure le fa valere prendendo esso l’niziativa di proporre le azioni parziali, sia in seno a organizzazioni di massa, sia ad altri partiti (tattica di fronte unico). In ogni caso si serve della esperienza del movimento e del­’esito delle sue proposte per accrescere la sua influenza, dimostrando con i fatti che il suo programma di azione è il solo rispondente agli interessi delle masse e alla situazione oggettiva, e per portare sopra una posizione più avanzata una sezione arretrata della classe lavoratrice.

È escluso che un’azione violenta di individui o di gruppi possa servire a strappare dalla passività le masse operaie quando il partito non sia collegato profondamente con esse. In particolare l’attività dei gruppi armati, anche come reazione alla violenza fisica dei fascisti, ha valore solo in quanto si collega con una reazione delle masse o riesce a suscitarla e prepararla acquistando nel campo della mobilitazione di forze materiali lo stesso valore che hanno gli scioperi e le agitazioni economiche particolari per la mobilitazione generale delle energie dei lavoratori in difesa dei loro interessi di classe. Soprattutto ci si deve rendere capaci di avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e incomprensioni fuori di luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori dell’unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua liberazione. Il “fronte unico” di lotta antifascista e anticapitalista che i comunisti si sforzano di creare deve tendere a essere un fronte unico organizzato, cioè a fondarsi sopra organismi attorno ai quali tutta la massa trovi una forma e si raccolga. Tali sono gli organismi rappresentativi che le masse stesse oggi hanno la tendenza a costituire, a partire dalle officine, e in occasione di ogni agitazione, dopo che le possibilità di funzionamento normale dei sindacati han­no incominciato a essere limitate.

Questa presentazione e agitazione – sviluppo della propria azione, soluzioni intermedie di problemi politici generali, e agitare queste soluzioni tra le masse che sono ancora aderenti a partiti e formazioni controrivoluzionarie, lontane tanto dalle parole d’or­dine del partito quanto dal programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere – permette di raccogliere al séguito del partito forze più vaste, di porre in contraddizione le parole dei dirigenti i partiti di massa controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le masse verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza [esempio: “antiparlamento”] contro i partiti sedicenti democratici, i quali in realtà sono uno dei più forti sostegni del­l’ordine capitalistico vacillante e come tali si alternano al potere con i gruppi reazionari, quando questi partiti sedicenti democratici sono collegati con strati importanti e decisivi della popolazione lavoratrice e quando è imminente e grave un pericolo reazionario. In questi casi il partito comunista ottiene i migliori risultati agitando le soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi sapessero condurre per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la situazione richiede.

Lenin aveva dato la formula lapidaria del significato della scissione, in Italia: “separatevi, e poi fate l’allean­za”. Questa formula avrebbe dovuto essere da noi adattata alla scissione avvenuta in forma diversa da quella prevista da Lenin. Dovevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci non solo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l’opportunismo tipico italiano nel movimento operaio; ma dopo di ciò e pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi, cercare di fare un’alleanza contro la reazione: organizzazione delle più larghe masse, come classe a sé stante, sulla base degli interessi economici immediati, e come terreno di educazione politica rivoluzionaria; questione del “fronte unico”, cioè dei rapporti di direzione politica fra la parte più avanzata del proletariato e le frazioni meno avanzate di esso; rapporti del partito con la classe proletaria (cioè con la sede di cui il partito è il diretto rappresentante, con la classe che ha il compito di dirigere la lotta anticapitalistica e di organizzare la nuova società).                               [a.g.]

(da Tesi di Lione, 1924)

 

 

Alleanze # 5

(società come totalità concreta)

La scienza borghese della storia, proprio nel momento in cui crede di aver trovato la massima concretezza, questa le sfugge del tutto: le sfugge, cioè la società come totalità concreta; l’ordinamento della produzione a un determinato livello dello sviluppo sociale e l’articolazione della società in classi che di quello sviluppo è l’effetto. E mentre non si cura di tutto ciò, essa coglie come concreto qualcosa che è del tutto astratto. “Questi rapporti – dice Marx – non sono rapporti tra individuo e individuo, ma tra operaio e capitalista, tra contadino e proprietario fondiario, ecc.”.

L’indagine concreta significa dunque: rapporto con la società come intero. Infatti, soltanto in questo rapporto la coscienza che gli uomini hanno di volta in volta della loro esistenza, si presenta in tutte le sue determinazioni essenziali. Da un lato, essa si presenta come coscienza “giusta”, cioè come qualcosa che, soggettivamente, deve e può essere compresa e giustificata sulla base della situazione storico-sociale, e al tempo stesso come qualcosa che oggettivamente passa accanto all’essenza dello sviluppo sociale, senza riuscire a coglierlo e a dare a esso espressione adeguata: quindi come “falsa coscienza”. D’altro lato, la stessa coscienza si presenta nello stesso rapporto come una coscienza che soggettivamente fallisce gli scopi che essa stessa si è posta e contemporaneamente come una coscienza che promuove e raggiunge gli scopi oggettivi dello sviluppo sociale che le sono ignoti e che non sono da essa voluti. Questa duplice determinazione dialettica della coscienza fa sì che la sua considerazione non possa limitarsi alla pura e semplice descrizione di ciò che gli uomini, sotto certe condizioni storiche, hanno di fatto pensato, sentito e voluto, in determinate situazioni di classe. Questa è soltanto la materia – senza dubbio molto importante – delle ricerche propriamente storiche.

Il rapporto con la totalità concreta e le determinazioni dialettiche che ne conseguono rimandano tuttavia al di là di questa pura e semplice descrizione e dànno luogo alla categoria della possibilità oggettiva. Nella misura in cui la coscienza viene riferita all’intero della società, si riconoscono quelle idee, sentimenti, ecc. che gli uomini avrebbero avuto in una determinata situazione di vita, se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa situazione e gli interessi da essa emergenti, sia in rapporto al­l’agire immediato, sia in rapporto alla struttura – conforme a questi interessi – dell’intera società; si riconoscono quindi le idee, i sentimenti, ecc. che sono adeguati alla loro situazione oggettiva. Il numero di tali situazioni di vita non è illimitato in nessuna società. Per quanto la loro tipologia possa essere perfezionata per mezzo di approfondite ricerche particolari, si perviene tuttavia ad alcuni tipi fondamentali, chiaramente distinti gli uni dagli altri, la cui modalità essenziale viene determinata dalla tipicità della posizione degli uomini nel processo di produzione. Ora, la coscienza di classe è la reazione razionalmente adeguata che viene in questo modo attribuita di diritto ad una determinata situazione tipica nel processo di produzione. Questa coscienza non è quindi né la somma né la media di ciò che pensano, sentono, ecc. i singoli individui che formano la classe. E tuttavia l’agire storicamente significativo della classe come totalità viene determinato, in ultima analisi, da questa coscienza, e non dal pensiero del singolo, ed è conoscibile soltanto a partire da essa.

Questa determinazione fissa fin dal­l’inizio la distanza che separa la coscienza di classe dalle idee fattualmente empiriche, descrivibili ed esplicabili in senso psicologico, che gli uomini hanno sulla loro situazione di vita. Ma non bisogna arrestarsi al puro e semplice accertamento di questa distanza o addirittura alla fissazione generale formale dei nessi che ne derivano. Si deve piuttosto indagare, in primo luogo, se questa distanza si differenzia nelle diverse classi, secondo il loro diverso rapporto con l’intero economico-sociale di cui esse sono membri, e fino a che punto questa diversità sia tanto grande da far emergere differenze qualitative. Ed in secondo luogo, che cosa significhino praticamente per lo sviluppo della società questi diversi rapporti tra totalità economica oggettiva, coscienza di classe attribuita di diritto ed idee psicologico-reali degli uomini sulla loro situazione di vita, chiarendo così quale sia la funzione storico-pratica della coscienza di classe.

Ciò che importa è dunque il problema: fino a che punto la classe in questione compia “coscientemente” o “incoscientemente”, con una coscienza “giusta” o “falsa”, le azioni che le sono imposte dalla storia. Non si tratta dì distinzioni puramente accademiche. Infatti, facendo del tutto astrazione dal problema della cultura, dove le dissonanze che di qui hanno origine hanno un’importanza determinante, per il destino di tutte le scelte pratiche di una classe è decisivo se essa è in grado di chiarire e di risolvere i problemi che le sono affidati dallo sviluppo storico. Appare qui una volta del tutto chiaro che, nel caso della coscienza di classe, non si tratta del pensiero di alcuni individui, per quanto progressisti, e neppure di conoscenza scientifica. Quindi, il limite che rende “falsa” la coscienza di classe della borghesia, è oggettivo: è la stessa situazione di classe.

La forma della stratificazione in stati occulta il nesso tra l’esistenza economica dello stato – un’esistenza che è reale, anche se resta “inconscia” – e la totalità economica della società. Essa fissa la coscienza o nella pura immediatezza dei suoi privilegi (i cavalieri del tempo della riforma) oppure nella particolarità – anch’essa puramente immediata – di quella parte della società alla quale si riferiscono i privilegi (le corporazioni). Lo stato può anche essere già interamente dissolto dal punto di vista economico, i suoi membri possono anche appartenere economicamente già a diverse classi, ma esso mantiene ugualmente questa sua coesione ideologica (oggettivamente irreale). Infatti, il rapporto con l’intero, che viene realizzato dalla “coscienza di appartenere allo stato”, è diretto ad un’altra totalità, e non alla reale e vivente unità del­l’economia: alla fissazione passata della società, che ha costituito a suo tempo i privilegi degli stati.

La coscienza di appartenere allo stato copre – come fattore storico reale – la coscienza di classe; impedisce che questa in generale si manifesti. Qualcosa di analogo si può osservare anche nella società capitalistica, a proposito di tutti i gruppi “privilegiati” la cui situazione di classe non è fondata immediatamente in modo economico. Nella misura in cui un simile strato si può “capitalistizzare”, cioè può modificare i suoi “privilegi” in rapporti capitalistico-economici di dominio aumenta la sua capacità di adattamento allo sviluppo economico reale (a es., i proprietari fondiari).

Perciò nelle epoche precapitalistiche la coscienza di classe si riferisce alla storia in modo completamente diverso che nel capitalismo. Infatti, solo per mezzo dell’interpretazione della storia del materialismo storico, le classi stesse possono in tal caso essere ottenute dalla realtà storica immediatamente data, mentre nel capitalismo esse sono questa stessa realtà storica immediata. Come anche Engels ha sottolineato, non è affatto un caso che questa conoscenza della storia sia stata possibile soltanto nell’e­poca del capitalismo. Ma in rapporto al capitalismo vi è questa differenza invalicabile: in esso, i momenti economici non sono più nascosti “dietro” la coscienza, ma sono presenti nella coscienza stessa (solo che essi sono repressi, inconsapevoli, ecc). Con il capitalismo, con la soppressione della struttura degli stati e con la costruzione di una società articolata in senso puramente economico, la coscienza di classe è entrata nella fase in cui può diventare cosciente.

La lotta sociale si rispecchia ora in una lotta ideologica per la coscienza, per l’occultamento o la scoperta del carattere classista della società. Ma la possibilità di questa lotta rimanda già alle contraddizioni dialettiche, all’in­terna autodissoluzione della pura società classista. La borghesia e il proletariato sono le uniche classi pure della società borghese: la loro esistenza e il loro evolversi poggiano esclusivamente sullo sviluppo del moderno processo di produzione e solo a partire dalle loro condizioni di esistenza è in generale pensabile un piano per l’organizzazione dell’intera società. Il comportamento delle altre classi (piccolo-borghesi, contadini) è oscillante e infecondo per lo sviluppo perché la loro esistenza non si fonda esclusivamente sulla posizione che esse occupano nel processo capitalistico di produzione, ma è legata a sopravvivenze della società organizzata in stati. Il loro interesse di classe è diretto soltanto ai sintomi dello sviluppo, e non allo sviluppo stesso, ai fenomeni parziali della società, e non alla struttura sociale nella sua interezza.

Questo problema della coscienza può presentarsi anche nel modo di agire e di porre dei fini. Ciò accade, a es., nel caso della piccola borghesia, che vivendo almeno in parte nella grande città capitalistica, sottoposta direttamente agli influssi del capitalismo in tutte le sue manifestazioni di vita, non può restare completamente indifferente al dato di fatto della lotta di classe tra borghesia e proletariato. Tuttavia, “come classe intermedia”, nella quale “si smussano gli interessi di entrambe le classi”, essa si sentirà in genere “al di sopra del contrasto di classe”. E di conseguenza essa non cercherà la via “per sopprimere entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato, ma per attenuare questo contrasto e trasformarlo in armonia”. Quindi essa lotterà ora per questa ora per quella corrente della lotta di classe, ma sempre inconsapevolmente. I suoi propri fini, che esistono appunto esclusivamente nella sua coscienza, si svuoteranno progressivamente, trasformandosi in forme puramente “ideologiche”, sempre più disciolte dall’azione sociale.                                   

[g.l.]

   (da Storia e coscienza di classe, 1922)

 

Anarchia

(indifferenza in materia politica)

Gli anarchici affermano che lo Stato ha creato il capitale, che il capitalista ha il suo capitale solo grazie allo Stato. Poiché dunque lo Stato è il male principale, si deve prima di tutto sopprimere lo Stato, e allora il capitale se ne andrà al diavolo da solo. Noi, invece, diciamo il contrario: distruggete il capitale, l’appro­priazione di tutti i mezzi di produzione da parte di pochi, e lo Stato cadrà da sé. La differenza è essenziale. La soppressione dello Stato senza precedente rivolgimento sociale è un assurdo, poiché la soppressione del capitale è appunto il rivolgimento sociale e racchiude in sé una trasformazione di tutto il modo di produzione. Ma, poiché per gli anarchici il male fondamentale è lo Stato, non si deve far nulla che possa mantenere in vita lo Stato, e cioè uno Stato qualsiasi, repubblica, monarchia o quale altro si voglia. Perciò, dunque, completa astensione da ogni politica. Compiere un atto politico, ma specialmente partecipare ad un’elezione sarebbe un tradimento dei principi. Si deve far propaganda, caricar lo Stato di insolenze, organizzarsi; e quando si avranno tutti gli operai dal proprio lato, cioè la maggioranza, allora si destituiranno tutte le autorità, si distruggerà lo Stato, e si porrà al posto di esso l’organizzazione dell’Interna­zionale. Questo grande atto, col quale comincia il regno millenario, si chia­ma liquefazione sociale.

Tutto questo sembra estremamente radicale, ed è così semplice che si può imparare a memoria in cinque minuti, motivo per cui questa teoria bakuniana ha trovato rapidamente degli aderenti in Italia e Spagna tra giovani avvocati, laureati e altri dottrinari. Ma la massa dei lavoratori non si lascerà mai persuadere che gli affari pubblici del suo paese non siano anche in pari tempi i suoi propri affari; i lavoratori sono di loro natura politici e se qualcuno propone loro di non occuparsi di politica, essi finiranno con l’abbandonarlo. Predicare agli operai l’astensione dalla politica in ogni circostanza, significa spingerli nelle braccia dei preti o dei repubblicani borghesi.

Nella società più vicino possibile all’idea bakuniana, prima di tutto non esiste alcuna autorità, poiché autorità=Stato=male assoluto. (Come faranno costoro a far marciare una fabbrica e le ferrovie, a comandare a un bastimento senza una volontà che decida in ultima istanza, senza direzione unitaria, questo, naturalmente, non ce lo dicono). Anche l’autorità della maggioranza sulla minoranza cessa di esistere. Ogni singolo e ogni comunità sono autonomi: Bakunin però dimentica ancora una volta di dirci come sia possibile una comunità anche solo di due uomini, senza che ognuno di essi rinunci a qualcosa della sua autonomia.

“La classe operaia non deve costituirsi in partito politico; essa non deve, sotto alcun pretesto, avere azione politica, poiché combattere lo Stato è riconoscere lo Stato: ciò è contrario ai principi eterni. Gli operai non devono fare degli scioperi, poiché fare degli sforzi per farsi crescere il salario o per impedirne l’abbas­samento è come riconoscere il salario: ciò che è contrario ai principi eterni dell’eman­cipazione della classe operaia! Se nella lotta politica contro lo Stato borghese gli operai non giungono che a strappare delle concessioni, essi fanno dei compromessi: ciò che è contrario ai principi eterni”. “È meglio che gli operai e le operaie non sappiano leggere, né scrivere, né far conti, piuttostoché ricevere l’istruzio­ne da un maestro di scuola dello Stato. È assai meglio che l’ignoranza e un lavoro quotidiano di 16 ore abbrutiscano le classi operaie, piuttosto che violare i principi eterni!”. “In una parola, gli operai devono incrociare le braccia e non perdere il loro tempo in movimenti politici ed economici. Questi movimenti non possono dar loro che dei risultati immediati. Da uomini veramente religiosi, essi, sdegnando i bisogni quotidiani, devono gridare pieni di fede: "Che la nostra classe sia crocifissa, che la nostra razza perisca, ma che rimangano immacolati gli eterni principi!". Essi devono, come pietosi cristiani, credere nella parola del prete, disprezzare i beni di questa terra e non pensare che a guadagnarsi il Paradiso”.

Nessuno vorrà negare che, se gli apostoli dell'indifferenza in materia politica si esprimessero in modo così chiaro, la classe operaia li manderebbe a carte quarantotto, e si sentirebbe insultata da questi borghesi dottrinari e da questi gentiluomini spostati, che sono sciocchi o ingenui al punto di interdirle ogni mezzo reale di lotta, perché tutte le armi per combattere bisogna prenderle nell’attuale società, e perché le condizioni fatali di questa lotta hanno la disgrazia di non adattarsi alle fantasie idealiste, che questi dottori in scienza sociale hanno innalzato a divinità, sotto i nomi di Libertà, Autonomia, Anarchia.

Eccoci ora all’oracolo di questi dottori in scienza sociale, a Proudhon: il maestro per impedire alla classe operaia di uscire dalla sua cosiddetta inferiorità sociale, condanna le coalizioni che costituiscono la classe operaia in classe antagonista alla rispettabile categoria dei padroni, intraprenditori, borghesi, che certamente preferiscono, come Proudhon, la polizia dello stato all’antagonismo delle classi. Per evitare ogni disgusto a questa rispettabile classe, il buon Proudhon consiglia agli operai (fino alla venuta del regime mutualista e malgrado i suoi gravi inconvenienti) “la libertà o concorrenza, nostra unica garanzia”.

Il maestro predicava l’indifferenza in materia economica per mettere al coperto la “libertà o concorrenza borghese, nostra unica garanzia”; i discepoli predicano l’indifferenza in materia politica per mettere al coperto la libertà borghese, loro unica garanzia. Se i primi cristiani, che pure predicavano l’indifferenza in materia politica, ebbero bisogno del braccio di un imperatore per trasformarsi da oppressi in oppressori, i moderni apostoli dell’indifferenza in materia politica non credono che i loro principi eterni impongano loro l’astinen­za dai godimenti mondani e dai privilegi temporali della società borghese. Tuttavia dobbiamo riconoscere che si è con uno stoicismo degno dei martiri cristiani, che essi sopportano le 8 o 12 ore di lavoro, onde sono sovraccaricati gli operai delle fabbriche!

Bakunin, in Stato e anarchia sostiene: “Noi abbiamo già manifestato la nostra profonda ripugnanza per la teo­ria di Lassalle e di Marx, la quale raccomanda ai lavoratori – se non come ideale finale, almeno come principale scopo immediato – la creazione di uno Stato popolare che, secondo la loro spiegazione, non sarà altro che il proletariato "elevato al grado di ceto dominante". Domandiamo: se il proletariato sarà il ceto dominante, su chi dominerà? Questo significa che rimarrà ancora un altro proletariato, il quale sarà sottomesso a questo nuovo dominio, a questo nuovo Stato?”.

Questo significa che, fino a quando esistono altre classi, e particolarmente la classe capitalista, fino a quando il proletariato lotta contro di essa (giacché, quando giunge al potere, i suoi nemici e la vecchia organizzazione della società non sono scomparsi), deve adoperare dei mezzi violenti, cioè dei mezzi governativi; esso stesso rimane ancora una classe, le condizioni economiche su cui si basa la lotta di classe e l’esistenza delle classi non sono ancora scomparse, ma devono essere violentemente eliminate o trasformate, e il processo della loro trasformazione deve essere violentemente accelerato.

“Se vi è Stato, vi è inevitabilmente dominio e di conseguenza anche schiavitù; un dominio senza schiavitù, aperta o dissimulata, è inconcepibile; ed ecco perché noi siamo nemici dello Stato. Che cosa significa: proletariato elevato a ceto dominante?”.

Significa che il proletariato, invece di lottare alla spicciolata contro le classi economicamente privilegiate, ha acquistato una potenza e un’orga­nizzazione sufficiente per poter applicare nella lotta contro di esse dei mezzi generali di costrizione; ma non può applicare che dei mezzi economici, i quali eliminino il suo carattere specifico di salariato e, di conseguenza, lo eliminino come classe. Con la sua vittoria completa finisce quindi anche il suo dominio, perché finisce il suo carattere di classe. “Forse che tutto il proletariato sarà a capo del governo?”.

Forse che, per esempio, in una trade union tutto il sindacato costituisce il comitato esecutivo? Forse che nella fabbrica cesserà ogni divisione del lavoro, con tutte le varie funzioni che ne derivano? Forse che, nell’ordina­mento di Bakunin dal basso in alto, tutti saranno in alto? Forse che tutti i membri della comunità gestiranno contemporaneamente gli interessi co­muni della regione? Allora non ci sarà alcuna differenza tra la comunità e la regione.

“I tedeschi si calcolano a circa quaranta milioni. Forse che tutti i quaranta milioni saranno membri del governo?”. Certainly! dato che la cosa comincia con l’autogoverno della comunità.

“Tutto il popolo governerà e non si avranno dei governanti”. Se un uomo si governa da sé, non si governa, secondo questo principio, perché è soltanto sé stesso e non un altro. Allora non ci sarà un governo, uno Stato, ma, “se ci sarà uno Stato, ci saranno anche dei governanti e degli schiavi”.

Questo significa soltanto: quando il dominio di classe scompare, non ci sarà uno Stato nel significato politico attuale.

“Questo dilemma nella teoria dei marxisti si risolve semplicemente. Per governo popolare, essi [cioè Bakunin] intendono un governo del popolo per mezzo di un numero insignificante di rappresentanti eletti dal popolo”.

Somaro! Questa è insipienza democratica, vaneggiamento politico! Le elezioni sono una forma politica persino nelle più piccole comunità russe e nelle cooperative. Il carattere delle elezioni non dipende da questi nomi, bensì dalle basi economiche, dai legami economici tra gli elettori, e non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche: 1) non esistono più funzioni governative; 2) la distribuzione delle funzioni generali diventa una questione d’affari e non dà luogo a nessun dominio; 3) l’elezione non ha nulla dell’odierno carattere politico. “Il suffragio universale per tutto il popolo”: una cosa come tutto il popolo, nel senso attuale, è un puro fantasma; “rappresentanti popolari governanti dello Stato, questa è l’ultima parola dei marxisti, come pure della scuola democratica, ed è una menzogna che nasconde il dispotismo della minoranza governante, tanto più pericolosa in quanto essa appare come espressione della cosiddetta volontà popolare”. Con la proprietà collettiva la cosiddetta volontà popolare scompare per lasciare il posto all’effettiva volontà collettiva.

“Quindi il risultato è: governo della stragrande maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. Ma questa minoranza, dicono i marxisti, sarà formata di lavoratori. Si, forse di ex lavoratori, i quali, però, cessano di essere dei lavoratori”, non più di quanto un fabbricante cessa oggi di essere capitalista quando è membro di un consiglio comunale, “e guarderanno dall’alto dello Stato tutti i lavoratori comuni; essi non rappresentano più il popolo, ma sé stessi e le loro pretese di governare il popolo. Chi può dubitare di questo, ignora completamente la natura dell’uomo”.

Se il signor Bakunin fosse per lo meno al corrente della posizione di un amministratore di una cooperativa operaia, avrebbe mandato al diavolo tutto il suo delirio a proposito del dominio. Egli avrebbe dovuto domandarsi: quale forma possono assumere le funzioni amministrative sulla base di questo Stato operaio, se vuole chiamarlo cosi?

“Essi dicono che la loro unica preoccupazione e il loro unico scopo saranno quelli di educare ed elevare il popolo – (politicante da caffè!) – così economicamente che politicamente, a un livello tale che ogni governo diverrà ben presto inutile e lo Stato, perdendo qualsiasi carattere politico, cioè di dominio, si trasformerà da sé in una libera organizzazione di interessi economici e di comunità. Qui vi è una contraddizione stridente. Se il loro Stato sarà veramente popolare, perché distruggerlo? E se invece la sua distruzione è necessaria per l'effettiva liberazione del popolo, come si può osare di chiamarlo popolare?”.

A parte le continue ripetizioni sullo Stato popolare di Liebknecht, che è un’insulsaggine diretta contro il Manifesto dei comunisti ecc., questo significa soltanto: visto che il proletariato, nel periodo della lotta per l’ab­battimento della vecchia società, agisce ancora sulle basi della vecchia società, e perciò dà ancora al movimento delle forme politiche, che più o meno le corrispondono, in questo periodo di lotta esso non ha ancora raggiunto la sua organizzazione definitiva, e applica per la sua liberazione dei mezzi che dopo la liberazione diventano superflui.

Il signor Bakunin ne conclude che è meglio che il proletariato non intraprenda nulla e aspetti ... il giorno della liquidazione generale, il giudizio universale!

[f.e., k.m.]

 

 

Anglicismi

(terminologia fuori luogo)

Per far fronte ai frequenti fraintendimenti legati alla eccessiva ossequiosità di carta stampata e parlar comune al linguaggio [?] inglese, riportiamo qui di seguito un gruppo di concetti, impropriamente espressi con termini della “lingua povera” per eccellenza.

Accountability [Responsabilità]

Advisor [Consulente, tecnico competente]

Agency [Ente, dipartimento, agenzia].

Antitrust [Antimonopolio, organo di vigilanza sulla concorrenza]

Asset [Patrimonio, attività].

Authority [Ente, autorità; garante]

Bipartisan [Significato che rimanda al tradizionale sistema bipartitico di stampo anglosassone; in italiano è comparso quando si è cominciato a delineare un sistema politico bipolare col passaggio al sistema elettora­le maggioritario].

Blackout [Oscuramento, spegnimento].

Bond [Obbligazione, un particolare titolo di credito].

Book value [Valore di un’azione ottenuto dividendo il patrimonio netto per il numero di azioni ordinarie]

Brand [Marchio].

Copyright [Diritto d’autore].

Corporation [Azienda, impresa, spa, multinazionale].

Downsizing [Snellimento, tendenza alla riduzione della scala di produzione (numero dei lavoratori)]

Empowerment [Nella cooperazione allo sviluppo indica la possibilità da parte dei più poveri di aumentare la loro influenza sulla pianificazione delle proprie condizioni di vita]

File [Archivio].

Freelance [Collaboratore indipendente, libero professionista, già soldato di ventura].

Golden Share [Azione che assegna allo stato diritti più ampi rispetto a quelli che spettano normalmente ai possessori dello stesso titolo].

Governance [Governabilità, direzione].

Hedge fund [Fondo comune d’inve­stimento “chiuso” che opera con capitali di investitori privati].

Holding [Società finanziaria che possiede azioni di altre imprese in misura tale da controllarne l’attività].

Information & comunication tecnology [Tecnologie di informazione e comunicazione].

Junk bond [Obbligazione spazzatura].

Management [Direzione, gestione, amministrazione].

Management buy in [Acquisizione di una azienda ad opera di un gruppo di manager esterni rispetto all'a­zienda stessa attuata attraverso l'indebitamento].

Management buy out [Acquisizione del controllo di maggioranza o della totalità del capitale di un'impresa da parte dei suoi dirigenti].

Marketing [Ricerca di mercato, com­mercializzazione].

Misunderstanding [Malinteso, equivoco].

Mobbing [Comportamento persecutorio, nei confronti di una persona, in ambiente lavorativo].

Moral hazard [Rischio, azzardo morale].

Open source [Codici sorgente modificabili].

Outsourcing [Esternalizzazione, me­todo con cui un’azienda affida all’e­sterno una parte di attività].

Oversold [Venduto sovrapprezzo].

Ownership [Proprietà].

Panic selling [Svendita a tutti i costi di azioni o obbligazioni, panico].

Paper [Articolo (di rivista)].

Pay out [Rapporto tra somma dei dividendi (utili distribuiti) e utile com­plessivo].

Power point [Presa di corrente].

Price/Cash flow [Rapporto tra prezzo di mercato dell’azione e cash flow (flusso di cassa) generato dalla società, rispetto al numero di azioni in circolazione: esprime il tempo necessario affinché la somma investita in azioni ritorni all’investitore sotto forma di flusso di cassa].

Privacy [riservatezza; private è “riservato”].

Profit warning [Annuncio di una società che precede di poco quello dei risultati periodici e che comunica dati inferiori alle attese degli analisti].

Project financing [Finanza di progetto].

Public company [Azienda a proprietà di azioni diffusa].

Question time [Seduta in cui i parlamentari rivolgono a un ministro del governo domande e interrogazio­ni].

Raider [Finanziere d’assalto].

Range [Portata, raggio d’azione, grado].

Rating [Valutazione, classificazione].

Real estate [Patrimonio immobiliare].

Reporter [Giornalista, corrispondente].

Rumor [Voce, indiscrezione, notizia non ufficiale].

Share [Azione].

Spillover [Effetto indiretto di una spesa].

Spin-off [È la divisione di una parte dei beni di un’azienda in una nuova entità giuridica].

Spread [Dispersione, oscillazione (giornaliera) delle quotazioni].

Stand-by [Attesa].

Start-up [Avvio].

Stock [Obbligazione, partecipazione (azionaria o obbligazionaria)].

Survey [Rassegna, indagine].

Take over [Acquisizione di controllo].

Trade-off [Controbilanciare, rapporto di scambio].

Trading on line [Sistema di vendita di attività finanziarie, attuato in via telematica].

Trading system [Sistema di vendita].

Venture capital [Capitale di ventura]. Si tratta di investimenti ad alto rischio.

Warfare [Stato di guerra].

Welfare [Benessere].

Workshop [Convegno, laboratorio, seminario scientifico].

[al.b. - f.s.]

 

 

Aree valutarie

La concatenazione strategica – finanziaria innanzitutto, e quindi produttiva per filiere (dislocazione degli investimenti, esternalizzazione, sub-fornitura, ecc.) – del grande capitale monopolistico finanziario [?], transnazionale sì, ma pur sempre con una base nazionale (provvisoria e all’occorrenza mutevole) di partenza, non riguarda solo le malamente dette “regioni del Sud”, bensì tutte le aree del pianeta. Tale concatenazione si riferisce, infatti, sia a quell’investimento produttivo che arrechi plusvalore (non si tratta perciò solo di reperire manodopera a basso costo, se no Russia e Cina sarebbero già invase; ma anche e soprattutto di abbattere i costi relativi a infrastrutture capitalisticamente operanti), sia quello improduttivo (di portafoglio, borsistico e speculativo) che procuri profitto, pur non producendo plusvalore [?] (come, a es., la grandissima parte della cosiddetta “nuova economia”).

A conferma dell’asserzione appena fatta, basta esaminare l’andamento dei più recenti Ide (investimenti diretti all’estero) per vedere come essi vadano, nei primi tre posti, a paesi come Usa, Gran Bretagna e Francia (che non sono certo del “sud” né tantomeno dominati o “sottosviluppati”): segno è che la dislocazione produttiva segue criteri ben più articolati, di cui la facilità di manodopera (a scapito della sua abilità e produttività) è soltanto uno degli elementi in gioco. Perciò la concatenazione in filiere – purché le si spieghino con una “supervisione” strategica finanziaria – riesce a cogliere l’opportunità di decentramento produttivo di segmenti del ciclo lavorativo, fino al lavoro a domicilio, quando l’insieme delle circostanze, trasporti e infrastrutture in genere, lo renda favorevole (economicamente).

Qui subentra anche la questione dei costi: se siano pagati in valute locali meno pregiate, rispetto ai prezzi finali di vendita, in genere fatturati in dollari, per cui la differenza che sorge dall’incidenza delle diverse aree valutarie si trasforma in maggiori (o minori) profitti. Perciò, l’economia dal lato dei costi si ha per effetto delle minori spese (vere o “false”) di produzione; ossia, tanto quelle che incidono direttamente sulla circolazione [?], quanto quelle inerenti propriamente alla (sub)produzione. Dunque, l’allargamento della scala di attività del capitale non incide solo sui costi di circolazione propriamente detti, ma si estende all’economia concernente tutti i costi d’impresa, prima di tutti quelli relativi alla subfornitura e all’esternalizzazione, che agli albori del capitalismo, nei vari angoli del mondo via via conquistati a questo modo della produzione sociale, ha coinciso con l’azione dei capitalisti detti “compradores”.

Senonché, codesta riduzione dei costi complessivi non genera un aumento di valore, e particolarmente di plusvalore, prodotto. In altri termini – riferendosi al tasso di profitto, la cui ciclica caduta critica è ciò che i capitalisti intendono contrastare – un simile effetto non agisce affatto sull’aumento del numeratore del rapporto che definisce quel tasso, bensì è solo in grado di comprimere il capitale anticipato come misura posta al denominatore, attraverso la diminuzione dei costi (tutti). Vi è quindi un limite “negativo”, il quale può essere significativamente allentato, comprimendo i costi che lo contengono, ma ciò comunque si scontra, appunto, con quel limite stesso. Perciò, finché non si allarga in “positivo” il plusvalore al numeratore – ovvero, finché non riprende la vera e propria accumulazione di capitale su scala mondiale, e unicamente con essa pertanto anche la nuova occupazione e la massa salariale (in quanto maggior capitale variabile) – tutta questa azione dal lato dei costi può rappresentare solo un palliativo. Di qui, l’attuale rilevanza transitoria dell’attenzione capitalistica rivolta all’economia fatta nella sfera della circolazione: sia attraverso quella definibile “ordinaria”, sia mediante la circolazione, per così, dire “forzata” (che coinvolge anche la sub-produzione stessa), imperniata sullo scambio ineguale [?] con i paesi dominati (attraverso, per l’intanto, la ripartizione dispotica – saccheggio o rapina – del plusvalore mondiale, che è pressoché dato, statico o insufficientemente dinamico).                                                                                                                  

[gf.p.]

 

 

Aristocrazia finanziaria

Quando non regna la borghesia, ma una frazione di essa, i banchieri, i re della borsa – la cosiddetta aristocrazia finanziaria – questa dètta leggi nelle Came­re, distribuisce gli incarichi dello stato, dal ministero allo spaccio dei tabac­chi. La borghesia industriale propriamente detta forma una parte dell’opposi­zione ufficiale, è cioè rappresentata nelle Camere solo come minoranza. Sotto il nome di aristocrazia della finanza non si devono comprendere soltanto i grandi imprenditori di prestiti e gli speculatori sui titoli di stato, l’interesse dei quali, non occorre dirlo, coincide con l’interesse del potere. Tutto il mo­derno traffico del denaro, tutta l’economia della banca, è intimamente legata al credito pubblico. Se in ogni tempo la stabilità del potere è stata “la legge e i profeti” del mercato monetario e dei suoi pontefici, ciò è tanto più vero oggi in cui ogni diluvio minaccia di inghiottire tutti gli antichi debiti di stato insie­me con i vecchi stati. Tutto mostra come la repubblica, a partire dal primo giorno della sua esistenza, non abbatta ma consolidi l’aristocrazia finanziaria. Ma le concessioni che si fanno a quest’ultima sono un destino a cui il governo si sottomette, senza il proposito di suscitarlo.

Qual è la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell’alta finanza? È l’indebitamento continuamente crescente dello stato. E quale è la causa dell’indebitamento dello stato? È la permanente eccedenza delle sue spese sulle sue entrate, sproporzione che è nello stesso tempo la causa e l’ef­fetto del sistema dei prestiti di stato. L’indebitamento dello stato è, al contra­rio, l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio og­getto della sua speculazione [?] e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, man­tenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito è una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che inve­ste i suoi capitali in rendita dello stato, mediante operazioni di borsa al cui segreto sono iniziati il governo e la maggioranza della Camera. In generale, la situazione instabile del credito pubblico e il possesso dei segreti di stato of­frono ai banchieri e ai loro affiliati nelle Camere e al governo la possibilità di provocare delle oscillazioni straordinarie, improvvise, nel corso dei titoli di stato: e il risultato costante di queste oscillazioni non può essere altro che la rovina di una massa di capitalisti più piccoli e l’arricchimento favolosamente rapido dei giocatori in grande.

Le enormi somme che in tal modo passano per le mani dello stato danno inol­tre l’occasione a contratti d’appalto fraudolenti, a corruzioni, a malversazioni, a bricconate di ogni specie. Lo svaligiamento dello stato, che si fa in grande con i prestiti, si ripete al minuto nei lavori pubblici; i rapporti tra la Camera e il governo si moltiplicano sotto forma di rapporti tra amministrazioni singole e singoli imprenditori. L’indebitamento dello stato è una necessità, e con l’indebitamento dello stato è una necessità il dominio del commercio dei debiti dello stato [?], il dominio dei creditori dello stato, dei banchieri, dei cambiavalute, dei lupi della borsa. Solo una frazione del “partito dell’ordine” prende parte all’abbattimento dell’ari­stocrazia finanziaria: gli industriali. Non parliamo dei medi, dei piccoli indu­striali: parliamo dei prìncipi della fabbrica. Il loro interesse consiste indubbia­mente nella diminuzione dei costi di produzione, dunque nella diminuzione delle imposte [?] che entrano nella produzione; cioè nella diminuzione dei debiti dello stato, i cui interessi si trasformano nelle imposte; cioè nell’abbattimento dell’aristocrazia finanziaria.

Le camere addossano allo stato i carichi principali e assicurano la manna do­rata all’aristocrazia finanziaria speculatrice. Sono nella memoria di tutti, gli scandali che scoppiano alla Camera dei deputati quando il caso fa venire a galla che tutti quanti i membri della maggioranza, compresa una parte dei ministri, partecipano come azionisti a quelle medesime attività che essi fanno poi, come legislatori, eseguire a spese dello stato. Non vi è testimonianza più eloquente del fanatismo, con cui il governo si accinge a questo còmpito, dei suoi provvedimenti finanziari. Il credito pubblico e il credito privato sono na­turalmente scossi. Il credito pubblico riposa sulla fiducia che lo stato si lasci sfruttare dagli strozzini della finanza. Il credito privato è paralizzato, la circo­lazione [?] impedita, la produzione arenata. Il credito pubblico e il credito privato sono il termometro economico col quale si può misurare l’intensità di una cri­si [?].

Il governo vuole spogliarsi dell’apparenza antiborghese. Perciò deve innanzi­tutto cercare di assicurare il valore di scambio di questa nuova forma dello stato: il suo corso in borsa [?]. Col salire della quotazione dello stato in borsa, deve necessariamente rialzarsi il credito privato. La prosopopea borghese e la sicurezza di sé dei capitalisti si ridestano d’un tratto, quando vedono la preci­pitazione timorosa con cui si cerca di comperare la loro fiducia. Naturalmente le difficoltà pecuniarie del governo non sono per nulla diminuite da colpi di scena che gli sottraggono denaro contante disponibile. Il disagio finanziario non può più a lungo essere dissimulato, e piccoli borghesi, artigiani, operai, devono pagare la gradita sorpresa offerta ai creditori dello stato. È il modo di mettere contro il governo il piccolo borghese, già in cattive acque anche sen­za di ciò.

Mentre l’aristocrazia finanziaria fa le leggi, dirige l’amministrazione dello stato, dispone di tutti i pubblici poteri organizzati, domina l’opinione pubblica con i fatti e con la stampa [?], in tutti gli ambienti si spande l’identica prostitu­zione [?], l’identica frode svergognata, l’identica smania di arricchirsi non con la produzione, ma rubando ricchezze altrui già esistenti. Alla sommità stessa della società borghese trionfa il soddisfacimento sfrenato, in urto con le stesse leggi borghesi, degli appetiti malsani e sregolati in cui logicamente cerca la sua soddisfazione la ricchezza scaturita dal gioco, in cui il godimento diventa gozzoviglia, il denaro, il fango e il sangue scorrono insieme. L’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese.

[k.m.]

(dagli scritti di Marx sul 1848 francese: Lotte di classe, 18 brumaio, Guer­ra civile)

 

 

Armamenti

(ordine economico e violenza)

La rivoluzione [?] della borghesia mise fine a tutti i mille privilegi corporativi [?] e le barriere doganali locali e pro­vinciali, diventati, gli uni e le altre, semplici angherie e ceppi per la produzione. Ma non perché la borghesia adattasse la situazione dell’economia alle condizioni politiche (cosa che, invero, nobiltà e monarchia avevano invano tentato per anni), ma invece perché gettò da un lato il vecchio e ammuffito ciarpame politico e creò condizioni politiche nelle quali il “nuovo ordine economico” poteva esistere e svilupparsi. E in questa atmosfe­ra politica e giuridica a essa confacente, la borghesia si è sviluppata splendidamente, tanto splendidamente che ormai non è molto lontana da quella posizione che la nobiltà occupava nel 1789: essa diventa sempre più non solo socialmente superflua, ma un ostacolo sociale; si allontana sempre più dall’attività produttiva e diventa sempre più, come ai suoi tempi la nobiltà, una classe [?] che semplicemente intasca rendite; e questo rovesciamen­to della sua propria posizione e la creazione di una nuova classe, il proletariato, essa lo ha compiuto per via pu­ramente economica, senza nessun intervento cabalistico della violenza. E c’è di più.

Essa non ha affatto voluto questo risultato del suo operare che, al contrario, si è affermato con for­za irresistibile contro la volontà e contro l’intenzione della borghesia, le cui forze produttive si sono sottratte al suo controllo, e spingono, come fossero mosse da necessità naturale, tutta la società borghese alla rovina o al rovesciamento. E se la borghesia fa ora appello alla violenza per preservare dal crollo l’“ordine economico” che va in rovina, con ciò prova soltanto che essa è schiava dell’illusione di potere, con la violenza “politica” immediata, trasfor­mare quelle “cose di second’ordine”, quali l’ordine economico e il suo sviluppo ineluttabile, e quindi a sua vol­ta cacciar via dal mondo, con i cannoni di Krupp e i fucili di Mauser, le conseguenze economiche della macchi­na a vapore e del macchinismo [?] che essa mette in moto, del commercio mondiale e dell’odierno sviluppo banca­rio e creditizio.

Consideriamo un po’ più da vicino questa onnipotente “violenza”. Neanche nelle isole fantastiche delle impre­se robinsoniane le spade sinora crescono sugli alberi. A Robinson era tanto possibile procurarsi una spada quanto a noi supporre che un bel giorno Venerdì gli possa apparire con un revolver carico in mano, nel qual ca­so tutto il rapporto di “violenza” si rovescia: Venerdì comanda e Robinson deve sgobbare. Dunque il revolver ha la meglio sulla spada e questo fatto farà comprendere, malgrado tutto, anche al più puerile assertore di assio­mi che la violenza non è un semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi condizioni preliminari mol­to reali, soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto; che questi strumenti devono inoltre essere prodotti, il che dice a un tempo che il produttore di più perfetti strumenti di violenza, vulgo “ar­mi”, vince sul produttore di strumenti meno perfetti e che, in una parola, la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla “potenza economica”, sull’“ordine economico”, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza.

La violenza, al giorno d’oggi, è rappresentata dall’esercito che costa, come tutti sappiamo a nostre spese, “una tremenda quantità di denaro”. Ma la violenza non può far denaro, può, tutt’al più, portar via quello che è già stato fatto e anche questo non giova gran che. In ultima analisi, quindi, il denaro deve pur essere fornito dalla produzione economica; la violenza dunque è a sua volta condizionata dall’ordine economico che le procura i mezzi per allestire e mantenere i suoi strumenti. Ma non basta ancora. Nulla dipende dalle condizioni economiche preesistenti quanto precisamente l’esercito. Armamento, composizione, organizzazione, tattica e strategia, dipendono anzitutto in ogni epoca dal livello raggiunto dalla produzione e dalle comunicazioni. Qui hanno agito rivoluzionariamente non le “libere creazioni dell’intelletto” di comandanti geniali, ma l’invenzione di armi migliori e la modificazione del materiale umano; nel migliore dei casi l’azione esercitata dai comandanti geniali si limita ad adeguare la maniera di combattere alle nuove armi e ai nuovi combattenti.

Ciò che la rivoluzione americana aveva cominciato, fu completato dalla rivoluzione francese, anche in campo militare. La rivoluzione francese, al pari dell’americana, non poteva opporre agli sperimentati eserciti mercena­ri che masse poco sperimentate ma numerose, la leva di tutta la nazione [?]. Ma il sistema rivoluzionario di armare tutto il popolo fu ridotto ben presto a una coscrizione obbligatoria (con la sostituzione, per gli abbienti, del pa­gamento in denaro). La guerra [?] ha costretto tutti gli stati a introdurre il sistema prussiano intensificato del ri­chiamo dei riservisti e, conseguentemente, a caricarsi di gravami militari che necessariamente li condurranno alla rovina. L’esercito è diventato fine precipuo dello stato e fine a se stesso: i popoli non esistono più se non per fornire e nutrire i soldati. Il militarismo reca in sé anche il germe della sua propria rovina. La concorrenza reciproca dei singoli stati li costringe a impiegare ogni anno più denaro per l’esercito, e quindi ad affrettare sempre più la rovina finanziaria. Dovunque e sempre sono le condizioni economiche che portano la “forza” alla vittoria, senza le quali non si raccoglierebbero altro che bastonate.

[f.e.]

(da Antidühring, II.2-3)

 

 

Astrazione

L’astrazione è uno strumento indispensabile all’interno del processo conosci­tivo e di indagine scientifica. Nell’Introduzione del ‘57 Marx analizza il fatto concreto costituito dalla produzione e delinea due generi di astrazioni genera­li. È possibile prima di tutto individuare alcuni elementi caratterizzanti la pro­duzione, comuni a tutti periodi del divenire della società: “Nessuna produzio­ne è possibile senza uno strumento di produzione... senza lavoro passato, ac­cumulato”, nessuna produzione senza un oggetto di lavoro e il rapporto con la natura e senza ovviamente un soggetto che esplichi tale attività. Ora, però, in­dividuare ed isolare questi elementi è poco utile perché con la produzione in generale restiamo con elementi indeterminati che non possono cogliere il pro­cesso di produzione nella sua peculiarità. È questo ciò che, secondo Marx, fa l’economia politica classica, la quale, partendo dall’analisi della realtà della produzione capitalistica, individua questi elementi comuni a tutte le produzio­ni, ma qui si ferma senza indagarne la specifica combinazione e rendendo co­sì eterna e “naturale”, con l’astrazione della produzione in generale, una for­ma invece specifica di produzione: “Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo all’interno e a mezzo di una determinata forma sociale”. Non basta allora il primo passaggio, col quale si ottengono gli ele­menti comuni alla produzione in ogni epoca, ma bisogna delineare la specifi­ca combinazione secondo forme determinate che questi assumono all’interno dei diversi modi di produzione delineandone così la specificità e discontinui­tà.

L’altro tipo di astrazione riguarda il lavoro in generale. Il lavoro appare come una categoria estremamente semplice e la stessa nozione di lavoro in generale è antichissima. Ciononostante con il lavoro visto in questa semplicità entria­mo in contatto con una categoria moderna tanto quanto i rapporti che dànno vita a questa astrazione. Perché nasce il lavoro generale, astratto, privo delle caratteristiche complete dei determinati tipi di lavoro? Perché le astrazioni più generali sorgono solo dove più ricco è lo sviluppo concreto? L’indifferen­za per un lavoro determinato corrisponde ad una società nella quale gli indivi­dui assumono indifferentemente un lavoro o l’altro, dove il genere di lavoro è del tutto fortuito. Smith, che per primo ha còlto l’importanza della categoria “lavoro in generale”, non ha fatto altro che rappresentare un’astrazione che ha luogo realmente nella società più sviluppata: la società capitalistica.

L’astrazione che allora ci interessa è quella che esprime la natura specifica concreta dell’oggetto indagato ad un determinato livello di sviluppo della pro­duzione, in società storicamente determinate. Dei due tipi di astrazione gene­rale non è che uno, la “produzione in generale”, sia inutile. Anche per Marx anzi è bene individuare gli elementi più generali di una serie di fenomeni. Pe­rò, fermandosi qui, si rischia di fissare per sempre ciò che invece si sviluppa e si differenzia in un insieme di determinazioni sempre più complesse. Col “la­voro in generale” abbiamo invece un’astrazione determinata. L’astrazione per Marx possiede un altro decisivo aspetto: ha un valore ogget­tivo, è un modo di essere della realtà stessa. L’astrazione può esistere indi­pendentemente dal processo conoscitivo. Nel modo di produzione capitalisti­co il lavoro astratto, o generale, è un astrazione praticamente vera: “un’astra­zione che nel processo sociale della produzione si compie ogni giorno”. L’a­strazione marxiana è così il prodotto di una totalità vivente. Oggettivo però non è sinonimo di sensibile: la stessa nozione di plusvalore [?], ad esempio, rap­presenta un’astrazione reale e sebbene nessuno abbia mai preso in mano o toccato il plusvalore non per questo esso cessa di essere estremamente reale.

Per Marx la ricerca scientifica si compone di due momenti. Il primo, dal con­creto all’astratto, resta insufficiente e richiede un secondo passaggio (astratto-concreto) in cui questa generalizzazione mentale, che riflette pur sempre una generalizzazione reale, viene indagata nella sua peculiarità, in quanto l’elemento costante è sempre frutto di combinazioni diverse e rispon­de a leggi sempre differenti. L’astrazione determinata è formata dai due pro­cessi. Si può affermare che il concreto nel pensiero si attui mediante l’astrat­to: “Il pensiero salendo dal concreto all’astratto, non si allontana – quando sia corretto – dalla verità, ma si avvicina a essa” [Lenin]. La specificità di cui so­pra non si coglie infatti a livello empirico ed immediato. Il concreto però si trova tanto all’inizio quanto alla fine del processo; esso rappresenta il fine dell’indagine teorica e l’astratto costituisce il mezzo del processo teorico che deve condurre alla comprensione scientifica della realtà nei suoi diversi svi­luppi. Ma la realtà che viene indagata non segue questo cammino, essa proce­de modificando la propria realtà e nel proprio divenire dal concreto al concre­to. Comunque, se il cammino della realtà non è uguale al percorso della cono­scenza scientifica, resta il fatto che il concreto reale e il suo movimento costi­tuiscono per il marxismo le condizioni materiali per lo sviluppo del concreto pensato.

Da Marx, tra l’oggetto teorico e quello reale, viene considerata esi­stente una relazione che garantisce la possibilità di interpretare il mondo reale senza trasformare l’elemento teorico in una convenzione: “il metodo di salire dall’astratto al concreto per il pensiero è solo il modo in cui si appropria il concreto, lo riproduce come qualcosa di spiritualmente concreto. Mai e poi mai esso è però il processo di formazione del concreto stesso”. Si potrebbe parlare dell’esistenza di due “concreti”: il primo corrispondente allo svolgimento della realtà ed il secondo in relazione al processo di appro­priazione del concreto da parte del soggetto conoscente. Il processo della co­noscenza non può essere identico al processo dell’essere, ma proprio per que­sto motivo l’autonomia della conoscenza deve essere “relativizzata” e posta in relazione (tramite esperimento, ecc.) con la realtà del concreto indagato.

[m.b.]

 

 

Attivismo

(élan vital)

“Sono deciso, ma non so a cosa”. Con questa folgorante battuta, perfino il grande Tui Theodor Adorno riuscì a mettere a nudo l’insensatezza del pensiero irrazionalistico tedesco del primo Novecento, a cominciare – appunto – dal concetto heideggeriano di “decisione”. Il valore della “decisio­ne” (a prescindere dal contenuto concreto della decisione stessa), l’impor­tanza di “credere” (e non importa a cosa), la riscoperta di un’“autenticità” di cui l’unica cosa che si “sa” è che è “originaria”.

Il tutto era inevitabilmente destinato a sfociare nell’“ab­bandono” di sé che si realizza nella guerra [?]. Dove anche l’assoluta insensatezza (per i singoli) della guerra imperialistica viene ideo­logicamente rovesciata, concependola come una “prova” al termine della quale questa esperienza “estrema” do­nerà a chi la sperimenta (magari crepando in essa) il senso della propria “autenticità”.

Leggiamo ad esempio un altro esistenzialista tedesco, Jaspers: “Com­portamento del guerriero. In situazioni uniche, la risolutezza è la capacità di decidersi quando ne va della vita o della morte. Disponibilità al rischio, unita a un senso del possibile e a una continua prontezza di spirito, sono i tratti fondamentali di questo comportamento. Nel caso estremo diviene palese quel che autenticamente sono e posso”.

Ora, lasciamo da parte il fatto che queste macabre elucubrazio­ni filosofiche presuppongono un modello di guerra più simile ai duelli cavallereschi che alla putrida guerra novecentesca di trincea, in cui il destino dei Guerrieri è autenticamente quello di crepare come topi (per non dire della guerra atomica, chimica, “umani­tario-intelligente”...). Comunque sia, lo scopo del “ragionamento” è chiaro: trasformare in opportunità esistenziale l’obbedienza cieca ai poteri costituiti, il rifiuto della ragione, il divenire un docile strumento della guerra imperialistica, il dono di sé in cambio di nulla (e più spesso del Nulla ...).

Intendiamoci: tutto questo non può ridursi al leggendario amore per l’or­dine dei tedeschi (quello, per capirsi, che fece dire a Stalin che “in Germania non può scoppiare una rivoluzione perché per farla bisognerebbe calpestare i prati”). Perché le stesse tendenze le ritroviamo – ancora prima che in Germania – in Francia. E questa volta nella forma di un attivismo vitalistico che finirà per investire direttamente il movimento operaio.

Qui la base teorica dell’irrazionali­smo fu fornita da Henri Bergson e dalla sua teoria dello “slancio vitale” [élan vital].Varrà la pena di riproporne i tratti essenziali. Per Bergson [L’evo­luzione creatrice, 1907] la natura è spinta da uno “slancio” interno ad u­na continua evoluzione che avviene per salti bruschi e imprevedibili. Lo stesso avviene nella coscienza umana: la nostra “evoluzione interiore”, in cui la continuità è fatta di un “inin­terrotto zampillare di novità”, segue infatti lo stesso ritmo dell’“e­voluzio­ne della vita” (cioè, per Berg­son, del­l’universo nel suo insieme).

A prima vista la filosofia di Bergson è quanto di più lontano si possa immaginare dall’amore tedesco per l’or­dine, la dedizione, l’obbedienza. E in effetti essa diede luogo a teorie che enfatizzavano il ruolo dello “spon­ta­neismo rivoluzionario”, contro ogni idea di evoluzione pacifica verso il socialismo (sostenuta invece dal socialismo della seconda Internazionale, che aveva il suo punto di forza nel partito socialdemocratico tedesco).

Per Georges Sorel, il teorico del sin­dacalismo rivoluzionario, la storia stessa si presenta come un’“evoluzio­ne creatrice”, che evolve a strappi. Così è avvenuto in ogni passaggio storico decisivo, e così dovrà avvenire nella lotta contro la borghesia. Occorre però un “mito”, “capace di evocare con la forza dell’istinto” il sentimento di lotta, e, quindi, di mobilitare le masse e di portarle alla rottura rivoluzionaria: nel caso del proletariato, questo mito è rappresentato per Sorel dallo “sciopero generale”.

Ecco cosa ne dice nelle sue Considerazioni sulla violenza: “Gli scioperi han fatto fiorire nel proletariato i sentimenti più nobili, più profondi e più fattivi ch’esso possegga. Lo sciopero generale li unisce tutti, in un quadro d’in­sieme; dà a ciascuno di essi, riunendoli insieme, la massima intensità; e, col richiamo ai ricordi più scottanti dei singoli conflitti, colora di vita intensa tutti i particolari del quadro presentato alla coscienza”.

Lo sciopero, in definitiva, “fa scaturire una luce nuova, separando, meglio che non facciano le circostanze giornaliere della vita, gl’interessi e i modi di pensare dei gruppi”. La cosa, in concreto, avrebbe dovuto andare così: il sindacato dei lavoratori avreb­be indetto lo sciopero generale, tutti a­vrebbero smesso di lavorare e bloccato la produzione, facendo crollare la struttura economica e le istituzioni; a questo punto i lavoratori avrebbero potuto riprendere il lavoro, ma non più come proletari sfruttati bensì come liberi produttori [sic!].

Non è il caso di perdere tempo su questo esito del pensiero soreliano, che è un vero e proprio condensato di delirio. Vale invece la pena di mettere in luce il fatto che questa teoria costituiva, rispetto al socialismo evoluzionistico e riformistico, nient’altro che il rovescio della medaglia. Ne era il rovescio: tanto “ac­cesa” e barricadera, quanto il socialismo evoluzionistico era compassato e arrendevole (per questo il socialismo rivoluzionario conobbe una certa for­tuna anche al di fuori della Francia). Ma la medaglia era la stessa. In fondo, il famoso motto del socialdemocratico di destra Bernstein, secondo cui “il fine [cioè il socialismo] è nulla, il movimento è tutto”, avrebbe tranquillamente potuto sottoscriverlo anche Sorel, a cui interessava unicamente il “mo­­vimento” dello scoppio rivoluzionario.

Fece bene, quindi, György Lukács (dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari del 1919 in Ungheria e Germania) ad accostare “opportuni­smo” e “putschismo”, dopo aver definito il secondo come “l’illusione che la rivoluzione proletaria possa compiersi di un sol colpo attraverso la decisione e il sacrificio di un piccolo gruppo di avanguardie bene organizzate”. Secondo Lukács per il co­munismo si tratta “in entrambi i casi dello stesso pericolo”. Infatti, tanto gli opportunisti quanto i “radicali di sinistra” (sin dallo “sciopero generale politico” della Luxemburg), si dimostrano incapaci di “concepire la rivoluzione come un processo”, hanno una “concezione meccanicistica” del­l’organizzazione, e relegano in secondo piano “la totalità del processo rivoluzionario” a favore di un “visibi­le risultato immediato” (in un caso le “insurrezioni armate” nell’altro “con­­tratti sindacali di categoria”).

A tutto ciò Lukács contrapponeva la “realpolitik rivoluzionaria” dei comu­nisti, radicata nell’analisi scientifica marxista delle tendenze oggettive della società e, quindi, in una concezione dell’organizzazione che rifiuta la “spontaneità rivoluzionaria”, ma non è neppure una “premessa” (volontaristica) per l’azione: è invece “un incessante intersecarsi di premesse e di conseguenze durante l’azio­ne”. Lo stesso processo rivoluzionario diviene così “un grande processo formativo del proletariato”, durante il quale questo assume la coscienza [?] “soggettiva” della sua (“oggettivame­nte” esistente) “realtà di classe”.

Ma torniamo a Sorel: in definitiva è la radice stessa del suo “socialismo rivoluzionario” (ossia il vitalismo di Bergson) a palesarsi assai prossima alle teorie irrazionalistiche fiorite in Germania. In entrambi i casi, abbiamo: l’insensatezza dell’esistenza (che nessuna teoria razionale può comprendere), il culto dell’azione per l’a­zione, il rifiuto (già in linea di principio) della possibilità che la teoria illumini e guidi la prassi.

Ci si può chiedere per quale motivo, nei primi decenni del Novecento, queste teorie irrazionalistiche si affermino contemporaneamente in tutta l’Europa (pensiamo anche, per restare in famiglia, a quel vero e proprio “Nietzsche dei poveri” rappresentato da Gabriele D’Annunzio ...).

La risposta più plausibile consiste nella crisi [?]: il modo di produzione capitalistico (che – sia detto per inciso – è già di per sé, anche in momenti di floridezza, incapace di dare significato ad una vita condotta sotto l’im­perativo di rendere possibile l’auto­valorizzazione del capitale), dopo una fase di inedita espansione dei commerci internazionali, vive una crisi che sfocerà nella prima guerra mondiale, ma che sarà “risolta” (lasciandosi dietro decine di milioni di morti) soltanto con la seconda guerra mondiale.

Bene: ora facciamo un salto di un secolo e parliamo di noi. Tutto bene? Vediamo. La crisi c’è. L’irrazionali­smo pure (pensiero debole, heideggerismo a go-gò, filosofie orientali fai-da-te...).

L’egemonia borghese [?] pare incontrastata (tanto che si è potuto definire il liberismo “pensiero unico”). Esistono, però, segnali di un “ri­sveglio” di movimenti antagonistici in tutto il mondo. Siamo tra coloro che confida­no nell’importanza di questi segnali. Riteniamo però anche che questi movimenti presentino, ad oggi, due gravi limiti (connessi tra loro).

Il primo è l’assenza di una marcata caratterizzazione di classe [?], tanto nella composizione quanto negli obiettivi del movimento. Ma può essere una “crisi di crescita” – e starà alla sinistra di classe renderla possibile.

Il secondo, ahinoi, è proprio l’attivi­smo: l’azione per l’azione, l’action dirècte, l’a­zione insensata (distruttivo-dimostra­tiva), l’amo­re del “ge­sto” in quanto tale. A chi pratica questi sport (e il cui colore è – non per caso – nero, al massimo bianco, e mai rosso) diciamo che “mettere-in-gioco-i-propri-cor­pi” può essere – al limite – necessario (e lo sanno bene le migliaia di lavoratori che ogni anno sono ammazzati sul lavoro...). Prima, però, bisogna mettere in funzione il proprio cervello.                                                                        

[v.g.]

 

 

Autorità

(anarchici e pacifisti)

Alcuni socialisti hanno da qualche tempo aperto una regolare crociata contro ciò che essi chiamano principio d’autorità. Basta loro dire che questo o quell’atto è autoritario, per condannarlo. Si abusa a tal punto di questo sommario modo di procedere che è necessario esaminare la cosa un po’ più da vicino. Autorità, nel senso della parola di cui si tratta, vuol dire: imposizione della volontà altrui alla nostra; autorità suppone, d’altra parte, subordinazione. Ora, per quanto queste due parole suonino male e sia sgradevole per parte subordinata la relazione che esse rappresentano, si tratta di saper se vi è mezzo per farne a meno, se – date le condizioni attuali della società – noi potremo dar vita ad un altro stato sociale in cui questa autorit  non avrà più scopo, e dove per conseguenza dovrà scomparire. Esaminando le condizioni economiche, industriali e agricole che sono alla base dell’attuale società borghese, troviamo che esse tendono a rimpiazzare sempre più l’azione isolata con quella combinata degli individui. L’industria moderna ha preso il posto delle piccole officine dei produttori isolati, con grandi fabbriche e officine dove centinaia di operai sorvegliano macchine complicate mosse dal vapore; le vetture e i carri delle grandi vie vengono sostituiti dai treni delle vie ferrate, come le piccole golette e feluche a vela dai battelli a vapore. L’agricoltura stessa cade a mano a mano nel dominio della macchina e del vapore, che rimpiazzano lentamente, ma inesorabilmente, i piccoli proprietari coi grandi capitalisti, che coltivano con l’aiuto di operai salariati grandi superfici di terreno. Dovunque, l’a­zione combinata, la complicazione dei procedimenti, dipendenti gli uni dagli altri, si mette al posto dell’azione indipendente degli individui. Ma chi dice azione combinata, dice organizzazione; ora, è possibile avere azione combinata senza autorità?

Supponiamo che una rivoluzione sociale abbia detronizzato i capitalisti, onde l’autorità presiede ora alla produzione e alla circolazione delle ricchezze. Supponiamo, per collocarci interamente dal punto di vista degli anti-autoritari, che la terra e gli strumenti di lavoro siano divenuti proprietà collettiva degli operai che li impiegano. L’autorità sarà scomparsa, o non avrà essa fatto che cambiar di forma? Vediamo.

Prendiamo a mo’ d’esempio una filatura di cotone. Il cotone deve passare almeno per sei operazioni successive prima di esser ridotto allo stato di filo, operazioni che si fanno – per la più parte – in sale differenti. Inoltre, per tenere le macchine in movimento vi è bisogno di un ingegnere che sorvegli le macchine a vapore, di meccanici per le riparazioni giornaliere e di molti altri braccianti destinati a trasportare i prodotti da una sala all’altra ecc. Tutti questi operai, uomini, donne e fanciulli, sono obbligati a cominciare e a finire il loro lavoro a ore determinate dall’autorità del vapore, che si beffa dell’autono­mia individuale. Bisogna dunque, dapprima, che gli operai si intendano sulle ore di lavoro; a queste ore, una volta fissate, sono tutti sottomessi senza alcuna eccezione. Poi sorgono in ciascuna sala e ad ogni istante questioni di dettaglio sul modo di produzione, sulla distribuzione dei materiali ecc., che bisogna risolvere subito, sotto pena di veder arrestarsi immediatamente tutta la produzione; che si risolvano con la decisione di un delegato preposto a ciascuna branca di lavoro o da un voto di maggioranza, se ciò fosse possibile, la volontà di qualcuno dovrà sempre subordinarsi; vale a dire che le questioni saranno risolte autoritariamente. L’automata meccanico di una grande fabbrica è molto più tiranno, come non lo sono mai stati i piccoli capitalisti che impiegano operai. Almeno per le ore di lavoro si può scrivere sulla porta di queste fabbriche: Lasciate ogni autonomia, voi ch’entrate! Se l’uomo con la scienza e il genio inventivo sottomise le forze della natura, queste si vendicarono su di lui sottomettendolo, mentre egli le impiega, ad un vero dispotismo, indipendente da ogni organizzazione sociale. Voler abolire l’autorità nella grande industria, è voler abolire l’industria stessa, distruggere la filatura a vapore per ritornare alla conocchia.

Prendiamo, per un altro esempio, una via ferrata. Qui pure la cooperazione d’una infinità d’individui è assolutamente necessaria; cooperazione che deve aver luogo a ore ben precise, perché non ne seguano disastri. Qui pure, la prima condizione del­l’impiego è una volontà dominante, che tronca ogni questione subordinata, sia questa volontà rappresentata da un solo delegato o da un comitato incaricato di eseguire le risoluzioni d’una maggioranza d’individui. Nel­l’uno o nell’altro caso vi è autorità molto pronunciata. Ma v’è di più: che diverrebbe del primo treno in partenza, se si abolisse l’autorità degli impiegati della via ferrata sui signori viaggiatori?

Ma la necessità d’una autorità, e di un’autorità imperiosa, non si può trovare più evidente che sopra un naviglio in alto mare. Là, al momento del pericolo, la vita di tutti dipende dal­l’obbedienza istantanea e assoluta di tutti alla volontà di uno solo.

Allorché io sottoposi simili argomenti ai più  furiosi anti-autoritari, essi non seppero rispondermi che questo: “Ah! Ciò è vero, ma qui non si tratta di un’autorità che noi diamo ai delegati, ma di un incarico!”. Questi signori credono d’aver cambiato le cose quando ne hanno cambiato i nomi. Ecco come questi profondi pensatori si beffano del mondo.

Noi abbiamo dunque veduto che da una parte certa autorità, delegata non importa come, e dall’altra certa subordinazione, sono cose che, indipendentemente da ogni organizzazione sociale, s’impongono a noi come condizioni materiali, nelle quali noi produciamo e facciamo circolare i prodotti. E abbiamo veduto, inoltre, che le condizioni materiali di produzione e di circolazione s’accrescono inevitabilmente dalla grande industria e dalla grande agricoltura, e tendono sempre più a estendere il campo di questa autorità. È dunque assurdo parlare del principio d’autorità come d’un principio assolutamente cattivo, e del principio d’autonomia come d’un principio assolutamente buono. L’autorità e l’autonomia sono cose relative, di cui le sfere variano nelle differenti fasi dello sviluppo sociale. Se gli autonomisti si limitassero a dire che l’organizzazione sociale del­l’avvenire restringerà l’autorità ai soli limiti ai quali le condizioni della produzione la rendono inevitabile, si potrebbe intendersi; invece essi sono ciechi per tutti i fatti che rendono necessaria la cosa, e si avventano contro la parola.

Perché gli anti-autoritari non si limitano a gridare contro l’autorità politica, lo Stato? Tutti i socialisti son d’accordo in ciò che lo Stato politico e con lui l’autorità politica scompariranno in conseguenza della prossima rivoluzione sociale, e cioè che le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico, e si cangeranno in semplici funzioni amministrative, veglianti ai veri interessi sociali. Ma gli anti-autoritari domandano che lo Stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima ancora che si abbiano distrutte le condizioni sociali che l’hanno fatto nascere. Essi pretendono che il primo atto della rivoluzione sociale sia l’abolizione della società. Non hanno mai visto questi signori una rivoluzione? Una rivoluzione è certamente la cosa più  autoritaria che ci sia: è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte per mezzo di fucili, baionette e cannoni; mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuole aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa autorità del popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può, al contrario, rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente?

Dunque, delle due cose l’una: o gli anti-autoritari non sanno ciò che dicono, e in questo caso non seminano che confusione; o essi lo sanno, e in questo caso tradiscono il movimento del proletariato. Nell’un caso e nel­l’altro essi servono la reazione.

[f.e.]

 

 

Bimetallismo

(doppia misura di valore)

Engels, nella presentazione del III libro del Capitale di Marx, ha probabilmente fornito la più efficace sintesi dell’opinione marxista sul cosiddetto bimetallismo, definendolo semplicemente un’“assurdità”. È fuori luogo supporre che la presenza di un “dop­pio standard” possa di per sé far propendere per l’uno o per l’altro (oro o argento, nel sistema dei metalli preziosi). Lo stesso Marx [III,19] precisava che il movimento dei metalli preziosi sul mercato mondiale [?] (non per fini speculativi) è del tutto determinato dallo scambio internazionale delle merci [?]. Il fluire e rifluire dei me­talli preziosi da una sfera di circolazione [?] nazionale a un’altra, quando sono causati esclusivamente dalla svalutazione della moneta nazionale o dal bimetallismo, sono estranei alla circolazione del denaro [?] in quanto tale. Questa rappresenta, nella sua estensione, nelle sue forme e nei suoi movimenti, un puro risultato della circolazione delle merci, e oggi nient’altro che il processo di circolazione del capitale.

Il commercio di denaro non crea valore ma fornisce i mezzi di acquisto e di pagamento per tutta la classe capitalistica [?]. In generale, qualsiasi forma di denaro è soltanto il riflesso delle relazioni di tutte le altre merci, nelle quali esso esprime la propria grandezza di valore. “Tutti i rapporti borghesi appaiono dorati o argentati”. Quindi, se per diverse transazioni prevale una forma di denaro o l’altra, entrambe – indipendentemente tra loro, fino al reciproco confronto nell’o­scillazione dei cambi che stabilisce il rapporto tra le due misure, ma non impedisce né all’una né all’altra di svolgere tale funzione – non possono che rappresentare il risultato della produzione capitalistica di merci nell’area cui si riferiscono, in quanto caratteri oggettivi delle rispettive determinazioni sociali del lavoro mondiale. “La difficoltà non sta nel capire che il denaro è merce, ma nel capire come, perché, per qual via una merce è denaro” – asseriva con un certo ottimismo Marx, trascurando qui “le teorie più pazzesche” in campo monetario che egli stesso già attribuiva agli “economisti illuminati” della sua epoca. La difficoltà, purtroppo ancora oggi, sta proprio nel capire anche che il denaro è merce. “L’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio”.

Il denaro – qualsiasi veste o divisa “nazionale” esso indossi – è, in quan­to merce, sempre valore [?]; il che vuol dire che socialmente esso deve corrispondere alla produzione sociale di merce (capitale merce), per la quale occorre nello scambio e nella circolazione. Il denaro – l’oro sul mercato mondiale, o le valute di riserva e riferimento – non è altro che l’espressio­ne del carattere sociale della ricchezza prodotta. Ma è un’espressione i­deale. Infatti, l’oro (o l’argento, o qualsiasi altra merce che serva da denaro: tabacco, buoi, o bestiame, come nelle “leggi barbare”) serve a rappresentare il concetto di scambiabilità mediata di tutte le merci, e materialmente può non apparire neppure. Le merci, nei loro prezzi, sono trasformate in oro solo idealmente, ossia in oro puramente immaginario, apparente, e perciò l’oro (o l’argento) è solo denaro ideale che può essere sostituito da simboli di se stesso: ma, in quanto forma di merce, “nella misura invisibile dei valori sta in agguato la dura moneta”.

Dal momento che la merce, di per sé, è superiore a ogni barriera religiosa, politica, nazionale e linguistica – come avverte Marx – dove il suo linguaggio universale è il prezzo e la sua comunità è il denaro, allora la trasformazione della merce in moneta di conto è fatta mentalmente, sulla carta, nel linguaggio. Per tale trasformazione occorre, sì, il materiale dell’oro, ma soltanto come materiale immaginario, come segno dell’oro e segno del prezzo; non occorre neanche un atomo di oro o di argento rea­le, perché il commercio è in realtà scambio di merci e nient’altro, e usa i metalli preziosi solo come misura dei prezzi, come se fossero una “scintilla elettrica”. La moneta aurea genera i propri sostituti per continuare a funzionare da moneta, sicché cose relativamente prive di valore come la carta possono funzionare da simboli del denaro: “la denominazione monetaria del denaro si scioglie dalla sua sostanza ed esiste fuori di questa in cedole di carta prive di valore”. Il denaro idealizzato è simbolico, le monete “semplici ombre di corpi”.

Nel movimento internazionale di valute, la direzione del flusso è decisa dal movimento materiale del capitale e delle merci, quindi in definitiva dalla centralizzazione dei capitali [?]; le importazioni di merci fanno defluire le riserve (oro o valute pregiate) ma, come caratteristica del­l’imperialismo, attraggono capitali stranieri, che perciò defluiscono dai paesi dominati. Essi, come passaggio iniziale di una raccolta di fondi locali, attraverso un processo di mediazione che si avvale del corso dei cambi, fanno riaffluire tali fondi in valuta pregiata in forma liquida alla loro fonte originaria nel sistema valutario dominante, cosicché il ciclo possa ricominciare, magari altrove. Non è facile seguire questo percorso per vari motivi, dei quali si può solo far cenno, a livello congetturale (occorre un’indagine di dettaglio sulle operazioni tecniche politiche fatte dal capitale finanziario [?], soprattutto in fase di crisi).

Due, comunque, sono i motivi principali: i. l’interconnessione tra ruolo pubblico della banca centrale (quale cosiddetto “prestatore di ultima istanza”) e del governo del paese egemone rispetto all’attività privata profittevole del capitale monetario, il quale si avvale di quel ruolo pubblico per lucrare sui differenziali speculativi a proprio vantaggio, senza dover seguire passivamente le sorti di quelle che poteva definirsi l’“economia nazionale”; ii. il carattere conseguente di capitale fittizio, cioè non realmente corrispondente a ricchezza reale, dei titoli del debito pubblico [?], i quali non fanno altro che “duplicare” il capitale già esistente, sì che attraverso l’emis­sione di simili derivati torni in mano ai detentori del credito privato il denaro liquido necessario per ripetere la speculazione incessantemente – fino alla catastrofe.

A monte di tutto ciò, però, c’è il passaggio alla fase transnazionale dell’imperialismo [?], nella quale la perdita di “identificazione biunivoca” tra  base del capitale e stato di appartenenza o di provenienza legittima il capitale stesso a muoversi fuori dai canoni degli equilibri valutari e contabili imposti dalle economie nazionali, particolarmente caratteristico di un lungo periodo di crisi [?]. Finché prevaleva quella identità (o la tendenza verso di essa), a ogni movimento di valuta (o riserve metalliche) in cambio di merci doveva, prima o poi, corrispondere un movimento in senso opposto (di altre valute o riserve metalliche) in conto capitale.

Con la dimensione transnazionale, invece, non solo i due movimenti possono perdurare nella medesima direzione – in quanto il capitale straniero “paga” le merci (il caso del doppio disavanzo Usa, dopo la cosiddetta crisi del “debito estero” negli anni 1980 è lampante) – ma proprio questa corrispondenza è utilizzata, fino al collasso, per rapinare il plusvalore mondiale nelle operazioni speculative della crisi. Ciò è reso possibile proprio dalla volatile mobilità trasversale del capitale sul mercato mondiale, dove “scompaiono i confini nazionali”, che sussistono per gli stati ma non per il capitale finanziario stesso – per i “cavalieri del credito”, come li chiamava Marx.

Col mercato saturo la necessità di uno sbocco per e valute forti porta a prestare denaro all’estero (pletora di capitale monetario), che in mancanza di nuovi investimenti produttivi, può servire per provocare un riflusso valutario verso il paese dominante (aumento della domanda e speculazione di borsa). Ciò provoca il rialzo del tasso di interesse sulla piazza in cui tale valuta insiste (le vicende iniziali della crisi del dollaro ne sono la migliore espressione), attraverso l’emis­sione di titoli pubblici del debito estero, denominati nella valuta forte: i movimenti che ne conseguono sono quasi impercettibili, “il peso della piuma” che, come sosteneva Marx, può spostare l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. La crisi in aumento nei paesi forti viene esportata quando questi fanno crollare le loro importazioni di merci, e ciò si trasmette anche alle principali altre aree imperialistiche, non solo ai paesi dominati, mettendone in difficoltà l’in­tero ciclo di produzione. È tutto il mercato mondiale che si atrofizza.

Con i cambi fissi l’obiettivo della stabilità valutaria non si pone (tutte le valute sono “ancorate” alla valuta di riferimento, o riserva: dal gold standard, convertibilità in oro, nel 1945 si è passati al gold exchange, o in quel caso dollar standard, in cui l’u­nica moneta di riferimento era il dollaro Usa), ponendo in primo piano il controllo del movimento dei capitali. Già all’epoca dell’imperialismo nazionale britannico, Keynes si peritava di chiamare la banca d’Inghilterra “il direttore dell’orchestra internazionale”: non fu una scelta politica, ma il dominio nel mondo di quell’econo­mia reale fece sì che Londra ne divenisse anche la capitale finanziaria. Dopo un breve interregno tra le due guerre mondiali del XX secolo, quel dominio e il ruolo contraddittorio di “banca centrale internazionale” è passato alla Fed, la banca centrale Usa, a seguito della vittoria conseguita a Bretton Woods dall’imperia­lismo multinazionale a base Usa.

Oggi, almeno in gran parte ancora, l’“orchestra internazionale” continua a essere diretta dalla Fed, ma con la caduta del vincolo di convertibilità del dollaro in oro nel 1971 – il cosiddetto gold exchange standard (la storia del capitalismo insegna che la dichiarazione di inconvertibilità avviene sempre al cospetto di una crisi) – tutte le carte sono state rimesse in gioco: la quotazione dell’euro rispet­to al dollaro, la perpetuazione del dilemma tra maggiori pagamenti e maggiori esportazioni, l’aumento continuo dei prezzi Usa alle esportazioni. Gli aggiustamenti nelle fluttuazioni valutarie [Smithsonian e Plaza] non furono sufficienti e ciò ha dato spazio almeno all’euro (in carenza di ruolo per lo yen ed essendo ancora presto per conoscere le future sorti dello yuan, mentre l’oro metallico torna a rappresentare un investimento di rifugio), affiancato così al dollaro in misura crescente. La Bce brama a dirigere qualcosa.

Ora, non si è voluto qui assolutamente cercare di stabilire un parallelo meccanico tra la doppia misura di valore storicamente  rappresentata da oro e argento e l’attuale presenza sul mercato mondiale di due principali monete di riferimento – dollaro ed euro – che operano trasversalmente in aree valutarie che non coincidono immediatamente con i paesi di provenienza (a parte l’azione determinante delle rispettive banche centrali). Ma il carattere di qualsiasi forma monetaria, da un lato, e la contraddittorietà dello sdoppiamento della funzione di misura di valore, dall’al­tro, corrisponde concettualmente alle conseguenze che Marx  attribuiva alla coesistenza di oro e argento sul mercato mondiale. Storicamente l’argen­to servì nel XIX sec. affinché l’ecce­denza di importazioni europee fossero pagate in quel metallo ai paesi asiatici, per mantenere lo standard aureo in Europa, anche come riserva ufficiale (poi affiancata o sostituita dalle cosiddette “valute pregiate”).

Sempre, finché persiste il regime contraddittorio di doppia misura, occorrono piazze dove avvenga l’inter­mediazione: allora, su Londra agiva Parigi, che le forniva l’argento per i pagamenti asiatici, ricevendone oro da convertire attraverso la doppia circolazione. In questo senso il bimetallismo è funzionale al monometallismo, quindi la contemporanea presenza di due valute di riferimento può essere utile per far funzionare subalternamente i paesi dominati, laddove l’egemonia è rappresentata dalla valuta capace di conservare o estendere la sua forza e la propria area di riferimento e di riserva.

Come nello sdoppiamento tra sterlina e dollaro nel breve lasso interbellico, anche oggi è probabile che si assista a una condivisione provvisoria tra dollaro ed euro. Siccome due mer­ci denaro, che escludono tutte le altre da questa funzione, tendono anche a escludersi a vicenda, è vano il tentativo di trattare le due forme di denaro come una soltanto. La loro continua collisione provoca perturbazioni, che non possono durare troppo a lungo. Il corso dei cambi – in quanto cambiamento di valore della merce denaro, entrata nella sfera della circolazione come merce di valore dato, riferito alla dinamica di produzione e circolazione delle merci in quell’area – non può che tradursi in una sostituzione della forma di denaro (e di produzione di merci), indebolita, con l’altra. Con la perturbazione di tale equilibrio, le diverse misure di valore che servivano come materializzazione sociale della ricchezza, assumono il carattere di suo trasferimento da un paese all’altro quando esso in forma di merci è escluso dalla crisi.

Cosicché l’oscillazione del corso dei cambi incide sulle transazioni correnti e sul valore dei titoli del tesoro, il cui detentore – debitore o creditore, a seconda della direzione del cambiamento – appare, per dirla con Marx, come vero e proprio “martire del valore di scambio, come santo asceta sulla sommità della colonna metallica”. Dato il volume mondiale sia dei debiti sia dei crediti in titoli denominati in dollari, si capisce bene che effetto possa avere una perturbazione della quotazione del dollaro stesso (nel presente caso verso un forte ribasso), rispetto “all’epoca in cui fu concluso il contratto”. Il deprezzamento di una valuta rende sia più difficili i pagamenti sia più facili le esportazioni a prezzo più basso.

Ne risulta che ogni valuta sarà usata da coloro che effettuano transazioni sul mercato mondiale secondo quale sia, per ogni determinato affare, la più conveniente, secondo la forza dei contraenti, e in ultima analisi secondo quella delle banche centrali coinvolte. La produzione di merci, perciò, appare come mezzo per sottrarre la quantità adeguata di denaro al mercato mondiale. La valuta che prevale in esso, quindi, è tanto prodotto della circolazione generale quanto mezzo per estenderne gli ambiti.

La contesa tra i “direttori d’orche­stra” del commercio internazionale dei capitali, dagli scranni delle rispettive banche centrali, ha dunque questo come obiettivo. La banca centrale che vuo­le essere egemone, facendo affluire oro o altre valute pregiate,  sfrutta il differenziale a favore della valuta che governa rendendone stabile (o aumentandone) la quotazione, fissandone l’arbitraggio o controllandone – finché può e ci riesce – la liquidità per i pagamenti multilaterali. Tutte le banche collegate (e subalterne) devono necessariamente adeguarsi alle decisioni del­la banca egemone (fino al ruolo di “prestatore di ultima istanza” delle banche centrali, a catena discendente, come clausola di garanzia). 

[gf.p.]

(cfr. Marx, Il capitale, I.3; III.35,2; Per la critica dell’economia politica, 2)

 

 

Borghesia

(formazione del mercato mondiale)

La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria.

Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriar­cali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”. Essa ha affogato nel­l’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti del­l’esaltazione religiosa, dell’entusia­smo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente ac­qui­site e patentate, ha posto la sola libertà [?] di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento [?] velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, lo scienziato in suoi lavoratori salariati. La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari. La borghesia per prima ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di pro­duzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi [?] industriali precedenti era invece l’immu­tata con­servazione dell’antico modo di produzione [?]. Il continuo rivoluzionamento della produ­zione, l’inces­sante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’e­poca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.

Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale succedettero gli industriali milionari, i capi di interi eserciti industriali, i moderni borghesi. La grande industria ha creato quel mercato mondiale [?] che ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni.

Quello sviluppo, a sua volta, ha re­agito sul­l’espansione dell’industria; e in quel­la stessa misura in cui si sono andate estendendo l’industria, il com­mercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi che erano un’eredità del medioevo.

Vediamo dunque come la stessa borghesia moderna sia il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi del­la produzione e dello scambio. Ognu­no di questi stadi nello sviluppo della borghesia fu accompagnato da un corrispondente progresso politico. Col costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, la borghesia si è impadronita finalmente della potestà politica esclusiva del moderno stato [?] rappresentativo. Il potere politico [?] del­lo stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari co­muni di tutta quanta la classe borghese [?].

Sfruttando il mercato mondiale [?] la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili: industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per es­sere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un scambio universale, un’uni­versale dipendenza delle nazioni l’u­na dall’altra. E come nella pro­duzio­ne materiale, così anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni di­ventano patrimonio comune. L’unilateralità e la ristrettez­za nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.

Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglie­ria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vo­gliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi bor­ghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.

La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione [?], della proprietà [?], della popolazione [?]. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza la centralizzazione politica. Regioni indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vincoli federali, regioni con interessi, leggi, governi e dogane diverse, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale.

Nel suo dominio di classe [?], che dura da appena un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto avessero mai fatto tutte insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’in­dustria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, fiu­mi resi navigabili, intere popola­zioni sorte quasi per incanto dal suolo: quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero in grembo al lavoro sociale?

Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio, sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scam­bio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della mani­fattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze pro­duttive già sviluppate. Quelle con­dizioni, invece di favorire la produzione, la inceppa­vano. Esse si trasfor­mavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate. Subentrò a esse la libera concorrenza [?] con la costituzione politica e sociale a essa adatta, col dominio e­conomico e politico della classe borghese.

Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rasso­miglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate. Da qualche decina d’anni la storia dell’industria e del commercio non è che la storia della ri­bellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosa­mente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese.

Nelle crisi [?] commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovraprodu­zione [?]. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; u­na carestia, una guerra [?] generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussi­stenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società pos­siede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio.

Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo im­pedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l’esistenza del­la proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte.

Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi. Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa.                      

[f.e.-k.m.]

(Manifesto del partito comunista, 1848)

 

 

Borsa # 1

Nel 1865 la borsa rappresentava ancora un elemento secondario nel sistema capitalistico. I titoli di stato rappresentavano la grande massa dei valori di borsa, ed anche la loro quantità era ancora relativamente esigua. Accanto a questo, vi erano le banche per azioni che dominavano sul continente ed in America: in Inghilterra esse si stavano apprestando ad inghiottire le banche private degli aristocratici. Ma anche queste azioni costituivano una massa ancora relativamente insignificante. La borsa era dunque, ancora, in quei tempi, un luogo dove i capitalisti si sottraevano l’uno all’altro i capitali accumulati, ed interessava direttamente i lavoratori soltanto come nuova dimostrazione dell’universale azione corruttrice dell’economia capitalistica e come conferma delle parole di Calvino, che la predestinazione, alias il caso, decide già in questa vita della salvezza e della dannazione, della ricchezza, cioè del piacere e della potenza, e della povertà, vale a dire della privazione e della servitù.

Dopo la crisi del 1866 l’accumulazione si è sviluppata con una rapidità sempre crescente, ed in modo tale che in nessun paese industriale, ed in Inghilterra meno che altrove, l’ampliamento della produzione ha potuto seguire quello dell’accumulazione e che l’accumulazione di ogni singolo capitalista non poteva essere totalmente impiegata nell’allargamento della sua propria impresa. Ma, insieme a questa accumulazione, si è accresciuto il numero dei rentiers, della gente che era sazia della continua tensione degli affari, che non desiderava dunque che divertirsi od occupare dei posti poco faticosi di direttori o di membri del consiglio di amministrazione di società. E in terzo luogo al fine di facilitare l’investimento di questa massa fluttuante in forma di capitale monetario [?], furono create, là dove questo non era stato ancora fatto, nuove forme legali di società a responsabilità limitata e le obbligazioni degli azionisti, di cui la responsabilità era fino allora illimitata, furono ugualmente più o meno ridotte. Dopo ciò, graduale trasformazione dell’industria in imprese azionarie. Tutti i rami, uno dopo l’altro, subirono la medesima sorte. In seguito i trust, che erano imprese gigantesche a direzione comune. La solita ditta individuale è soltanto una prima tappa per portare l’impresa ad un livello sufficientemente elevato per essere “fondata”.

Lo stesso per il commercio, per le case al dettaglio, per le banche ed altri istituti di credito, anche in Inghilterra: una quantità infinita di nuove società, tutte azionarie, limited (a responsabilità limitata). Lo stesso nel campo dell’agricoltura. Le banche enormemente ingrandite, soprattutto in Germania, con ogni genere di nomi burocratici, che sempre più diventano dei creditori ipotecari: grazie alle loro azioni, la proprietà effettiva della terra è trasferita alla borsa, e ciò ancora di più quando i beni cadono in mano ai creditori. Qui, la rivoluzione agricola della coltura su grande scala agisce potentemente: se ciò continua si può prevedere il momento in cui anche il territorio dell’Inghilterra e della Francia passerà alla borsa. Gli investimenti all’estero si fanno sotto forma di azioni. La colonizzazione è oggi un’effettiva succursale della borsa, nell’interesse della quale le potenze europee si sono qualche anno fa spartita l’Africa e i francesi conquistato Tunisi ed il Tonchino. L’Africa data in appalto diretto a compagnie (Nigeria, Africa del sud, Africa tedesca sudoccidentale e Africa orientale) e Mozambico e il Natal accaparrati da Rhodes per la borsa 

[f.e.]

 

 

Borsa # 2

(crisi e centralizzazione)

“La speculazione [?] può festeggiare le sue grandi orge laddove, con il passaggio della proprietà [?] dalla forma individuale alla forma della società per azioni, vengono gettati sul mercato immensi patrimoni accumulati da molti decenni che cadono vittime della borsa”. Così scriveva Henryk Grossmann nel 1929. Il funzionamen­to di tale meccanismo era già stato analizzato con precisione da Karl Marx nel Capitale. Questi aveva notato come, nei periodi di difficoltà per il mercato azionario, i titoli subiscano “una duplice riduzione di prezzo; innanzi tutto perché il saggio dell’inte­resse aumenta [e quindi, a parità di valore nominale, i titoli di borsa si svalorizzano], e in secondo luogo perché essi vengono gettati sul mercato in massa, per essere convertiti in denaro”. Si tratta di un fenomeno che caratterizza tutte le situazioni di crisi borsistiche, e che nella sua fase culminante viene definito come “vendite da panico” (panic selling). È proprio questo il momento in cui i grandi spe­culatori cominciano a comprare titoli a man bassa, ponendo le premesse per lauti guadagni. Infatti – dice ancora Marx – non appena la burrasca è passata questi titoli riprendono il loro valore precedente, eccettuato il caso in cui si tratti di imprese sfortunate [ossia imprese che falliscono] o di bassa speculazione [ossia titoli artificialmente gonfiati, come i titoli "internet" nella recente bolla speculativa, che non rivedranno più i loro valori massimi]. Fatte salve queste eccezioni, per tutti gli altri titoli il “de­prezzamento durante la crisi agisce come mezzo efficace per l’accentra­mento dei patrimoni monetari”. In questo senso le crisi di borsa favoriscono la centralizzazione dei capitali [?]. L’attua­le crisi [?] di borsa offre un interessante osservatorio per comprendere le concrete modalità attraverso cui si realizza la centralizzazione dei capitali.

Una delle principali, in quanto investe l’assetto proprietario stesso delle imprese, è rappresentata dal cosiddet­to “delisting”, ossia dalla cancellazio­ne di una società quotata dal listino di borsa. Essa, in tempi di crisi della borsa, può avvenire per tre diversi motivi. 1) La società quotata fallisce: in questo caso la centralizzazione avviene attraverso l’uscita di una società dal mercato (ed il conseguente rafforzamento delle posizioni di mercato dei suoi concorrenti). 2) Sulla società viene lanciata un’offerta pubblica di acquisto (Opa) da parte di un concorrente, che compra le azioni della società a prezzo di saldo (a motivo delle quotazioni depresse del titolo), e successivamente cancella la società dal listino di borsa; in questo caso l’azienda non fallisce, ma viene fusa per incorporazione nella (o comunque controllata dalla) società che ha lanciato l’Opa: anche in questo caso si ha centralizzazione dei capitali. 3) Sui titoli della società disponibili sul mercato azionario (il cosiddetto “flottante di borsa”) viene lanciata un’Opa da parte del proprietario stesso della società, che in tal modo ne acquisisce il controllo totalitario e successivamente la ritira dal listino (in tal modo, ad esempio, se ho collocato in borsa nel 1999 il 30% di una società di mia proprietà al prezzo di 10 € per azione, posso ricomprarne le azioni nel 2002 al prezzo di 1 € per azione; per poi magari tornare a rivenderle a 10 € ciascuna); anche in questo caso siamo di fronte a un fenomeno di centralizzazione dei capitali: con la differenza che il “centra­lizzatore” è il proprietario attuale del­la società (e non un suo concorrente), ed i capitali “centralizzati” sono quel­li degli azionisti di minoranza della società.

È interessante notare che quest’ulti­mo genere di centralizzazione viene oggi suggerito esplicitamente da alcuni banchieri ai loro clienti. Ecco ad esempio cosa si legge nell’intervista rilasciata il 28 settembre 2002 da Pietro Modiano (amministratore delegato della banca d’affari del gruppo Unicredito) al settimanale finanziario MF: “Noi sosteniamo che questo è il momento in cui i proprietari delle imprese, se ne hanno la forza, devono cominciare a ricomprare le proprie imprese. – Addirittura. E qual è il vantaggio di un delisting? – La possibilità di acquistare a prezzi molto economici e di ricollocare in seguito i titoli con un notevole guadagno”.

Ovviamente, per un azionista di maggioranza che riesce ad acquistare il “flottante” della società a prezzi d’occasione, ci sono centinaia e migliaia di azionisti di minoranza che hanno comprato le azioni a prezzi elevati in occasione del collocamento in borsa ed oggi vendono in pesante perdita rispetto al prezzo di acquisto. A questo riguardo si sarebbe tentati di chiudere il discorso citando il memorabile detto, attribuito all’ameri­ca­no J.K. Galbraith, secondo cui “un cretino e i suoi soldi si separano facilmente”. Forse però è più utile considerare questo fenomeno facendo ri­ferimento alle classi sociali [?] coinvolte.

Quando Marx scriveva il Capitale, chi giocava in borsa erano esclusivamente le classi alte: rentier ed esponenti dell’alta borghesia. Quando, de­cenni dopo, scoppiò la crisi del 1929, l’investimento in borsa era maggiormente diffuso, ma comunque non riguardava più del 2% della popolazione degli Usa (la nazione con il più sviluppato mercato finanziario). Oggi il 50% della popolazione americana gioca in borsa. Del resto, negli Usa come in Europa l’investimento azionario è oggi un fenomeno di massa, incoraggiato dall’intero establishment (governi, partiti politici, organi di informazione, cosiddetti esperti ecc.). Di conseguenza, in occasione dello scoppio della bolla speculativa della new economy la centralizzazione dei patrimoni monetari non ha soltanto assunto dimensioni gigantesche sotto il profilo dell’entità dei capitali fittizi [?] centralizzati, ma ha comportato rilevanti implicazioni dal punto di vista della consistenza dei ceti sociali coinvolti. Che oggi continuano ad essere grande borghesia, ma anche piccola borghesia e in qualche caso lavoratori.

Questi ultimi in molti casi sono stati truffati due volte: una prima volta con le azioni acquistate personalmente nel periodo della corsa all’“El­dorado” borsistico, e una seconda vol­ta con quelle affibbiate loro sotto forma di fondi pensionistici integrativi investiti in azioni (e non di rado in azioni della stessa società in cui lavoravano, e che poi magari è fallita lasciandoli sia senza stipendio che senza pensione: Enron docet).

La rilevanza sociale del fenomeno ha indotto qualcuno addirittura a partire di qui per tornare a riflettere sul problema della concentrazione della ricchezza. Lo ha fatto, sulle colonne del Financial Times, Nigel Ferguson, professore di storia finanziaria ad Oxford. “Riflettete sul tema della concentrazione della ricchezza: molti dei difetti del capitalismo di fine ‘800 sono oggi evidenti. Nel 1980 l’1% dei cittadini americani più ricchi possedeva il 25% del patrimonio della nazione. Vent’anni dopo la quota è salita al 38%.” A danno di chi? Questa la risposta di Ferguson: “pensate a quegli americani, circa il quarto della popolazione, che ha investito per la prima volta in azioni dal 1987 al 2000”. Il tema è stato ripreso anche dal Wall Street Journal, che il 4 settembre scorso si è spinto ad affermare che i nuovi poveri sono le classi medie, colpite tanto dal calo dei redditi quanto dalla spoliazione dei risparmi [?] subìta ad opera del mercato finanziario. Si tratta di affermazioni sbagliate e fuorvianti: il vettore principale della polarizzazione della ricchezza, infatti, è e resta l’appropria­zione di lavoro non pagato da parte dei capitalisti ai danni dei lavoratori salariati.

Detto questo, tra salariati e piccoli investitori almeno un tratto in comune c’è. Esso è rappresentato dal diverso trattamento che ad entrambe le categorie è riservato a seconda della fase economica. Così, il salariato durante una fase di espansione della produzione (e di aumento della domanda di forza-lavoro [?]) è considerato “capitale umano”, mentre quando c’è la crisi [?] diventa un “costo” da ridurre. Per quanto riguarda il piccolo investitore, il destino è ancora più beffardo: durante una fase di bolla speculativa viene addirittura considerato il protagonista di un nuovo tipo di de­mocrazia economica, imperniato sul­l’azionariato diffuso; quando le cose si mettono male, oltre a perdere i pro­pri soldi viene addirittura svillaneggiato: così, in una newsletter americana riservata a investitori professionali, i piccoli azionisti sono stati recentemente definiti come “Lum­pen­investoriat” (investitori straccioni), a somiglianza del termine “Lum­pen­proletariat” che designa in tedesco il sottoproletariato. Ben gli sta.        

[v.g.]

 

 

Capitale

“La parte del patrimonio individuale destinata a produrre reddito” o “somma di denaro che frutta interesse”: le prime due definizioni da dizionario sono sbagliate o insufficienti. Solo la quinta, “potere generico di disporre dei mezzi di produzione per ricavarne profitto con l’apporto del lavoro altrui”, coglie il segno. Ma il senso comune della comunicazione di massa è ancora peggiore, non arrivando neppure alla prima definizione, poiché chiama capitale qualsia­si ricchezza o somma di denaro che si abbia in tasca o in banca, per obliterarne il significato di rapporto sociale e di sfruttamento. Attenti, compagni, all’im­broglio per cui basta poco per essere considerati “capitalisti”! [La “voce” – e tutta la storia – ovviamente continua ...].  [*.*]

 

 

Capitale finanziario

“Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopo­lio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopo­lio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più eviden­te, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così di­re, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli [?], che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà” [Lenin].

Marx ha mostrato che una parte, e una parte in assoluto crescente, del capitale sociale complessivo deve sempre rimanere nella forma di denaro, come capi­tale monetario[?], per la continuità del processo di riproduzione. Accanto a ciò egli distingue ancora il capitale merce e il capitale produttivo, e parla di tre forme, tre cicli, tre figure del processo ciclico. Tutte e tre le forme del capita­le sono necessarie e si condizionano reciprocamente. Poiché la grandezza del capitale monetario, come anche del capitale merce e del capitale produttivo, non è determinabile arbitrariamente, il capitale sociale complessivo deve es­sere ripartito in proporzioni determinate in tutte e tre le forme di capitale. “La grandezza del capitale esistente condiziona il volume del processo di produ­zione, e questo condiziona il volume del capitale merce e del capitale mone­tario, in quanto essi operano accanto al processo di produzione” [Marx].

Il limite per l’accumulazione di capitale subentrerebbe, secondo Marx, “non appena il capitale fosse accresciuto in una proporzione tale, rispetto alla popo­lazione lavoratrice, che né il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popo­lazione possa essere prolungato, né il tempo di pluslavoro relativo possa esse­re esteso, quando dunque il capitale accresciuto producesse una massa di plu­svalore soltanto equivalente o anche inferiore a quella prodotta prima del suo accrescimento”. Sotto questi presupposti è dato per l’accumulazione un limite massimo determinabile esattamente. L’ulteriore prosecuzione dell’accumula­zione non avrebbe alcun senso, poiché il capitale più grande offrirebbe la stessa massa di plusvalore [?] che in precedenza. La prosecuzione dell’accumula­zione dovrebbe condurre a una svalutazione del capitale e a una forte caduta del tasso di profitto. “Nella realtà le cose si svolgerebbero in modo tale che una parte del capitale resterebbe interamente o parzialmente inattiva, mentre l’altra parte verrebbe valorizzata a un tasso di profitto ridotto in séguito alla pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo” [Marx].

Non il capitale monetario, ma il capitale merce è emerso dal ciclo del capitale industriale, il che non significa nient’altro se non l’esistenza di una sovrapro­duzione del capitale merce che è invendibile e non può perciò ritrovare la via della sfera della produzione. Ben presto dal meccanismo interno dell’accumu­lazione deve necessariamente originarsi una sovraccumulazione, e perciò la svolta verso la crisi [?]. Ciò non significa altro se non che, durante la crisi, la funzione di valorizzazione del capitale è messa a dura prova; un capitale che non viene valorizzato è però un capitale eccedente, sovraprodotto. Sovraproduzione di merci e sovraproduzione di capitale sono “il medesimo fenomeno. In che consiste la bella distinzione tra sovrabbondanza di capitale e sovraproduzione di merci? I produttori non si contrappongono come semplici possessori di merci, ma come capitalisti. Sovraproduzione di capitale, non di singole merci, è perciò semplicemente sovraccumulazione di capitale, una sovraproduzione che non colpisce l’una o l’altra, o solo alcune importanti sfe­re della produzione, ma diviene assoluta nella sua portata, in quanto si esten­de a tutti i rami della produzione” [Marx]. Una sovraccumulazione di capitale per la quale manca la possibilità di valorizzazione. La valorizzazione diviene insufficiente per essere portata avanti col ritmo fino ad allora sostenuto. Di­ventando sempre più esteso il capitale costante, la massa del plusvalore non può essere accresciuta. Subentra qui il momento che Marx ha presente quando dice “che viene accu­mulato più capitale di quel che si può investire nella produzione, donde il prestito all’estero, ecc.”. Da questo momento in poi l’accumulazione, cioè la ritrasformazione di una parte del profitto in capitale addizionale, trova ostaco­li. “Se mancano le sfere di investimento, e si ha di conseguenza una satura­zione dei rami di produzione e un’eccessiva offerta di capitale da prestito, questa pletora di capitale monetario da prestito attesta semplicemente i limiti della produzione capitalistica” [Marx].

L’accumulazione si arresta necessariamente. Dunque, invece di accumulare il plusvalore, cioè di accrescere il capitale, questo viene reso disponibile per l’esportazione. La dimostrazione della necessità dell’esportazione di capitale e delle condizioni sotto le quali essa si origina costituisce il nucleo vero e pro­prio del problema (aver mostrato questo è il merito della ricerca marxiana). Da questo momento in poi si attua gradualmente una trasformazione struttu­rale del capitalismo. Quanto più la classe imprenditoriale non ha altra risorsa che l’esportazione di capitale, tanto più la borghesia “si allontana dall’attività produttiva, diventa sempre più, come ai suoi tempi la nobiltà, una classe che semplicemente intasca rendite” [Engels]. Il pensiero di fondo di questa con­cezione è la contraddizione immanente tra la capacità illimitata di espansione della forza produttiva e la limitata possibilità di valorizzazione del capitale sovraccumulato, un limite immanente della produzione – osserva Marx – che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio. Il limite della sovraccumulazione, della valorizzazione insufficiente, viene rotto dal credito, ossia dall’esportazione di capitale e dal plusvalore addizio­nale che viene conseguito in questo modo. In questo senso l’esportazione di capitale è necessaria e caratteristica della fase avanzata dell’accumulazione di capitale – la fase imperialistica del capitale monopolistico finanziario. “Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era ca­ratteristica l’esportazione di merci. Per il più recente capitalismo, sotto il do­minio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale” [Le­nin]. Prendendo le mosse da qui, non si presenta alcuna difficoltà per spiegare le si­tuazioni alterne e i movimenti ondulatori, periodicamente ricorrenti all’inter­no della sfera produttiva, anche sugli altri due “mercati” (mercato monetario e speculazione di bor­sa [?]). Infatti i movimenti su questi mercati dipendono da ciò che avviene nella sfera della produzione.

A partire dalla sfera della pro­duzione, grazie al funzionamento immanente dell’accumulazione capitalisti­ca, e per la necessità del suo andamento ciclico, questo stesso movimento si propaga poi dalla sfera della produzione alla sfera della circolazione [?]  (mercato finanziario, borsa, titoli). Quella rappresenta una variabile indipendente, que­sta una variabile dipendente. In questo modo si è chiusa la catena delle cause. I capitali inattivi nella depressione devono trovare un investimento redditizio proprio in un periodo di ristagno. Da qui si deduce l’importanza della specu­lazione per il capitalismo. Con il progredire dell’accumulazione di capitale e con la crescita del numero dei grandi e piccoli capitalisti, la necessità dell’e­stensione della speculazione in borsa si presenta a grandi masse di capitalisti, dato che la massa del capitale inattivo che cerca investimento nella crisi e nel­la depressione diventa sempre più grande. La speculazione è un mezzo per supplire all’insufficiente valorizzazione dell’attività produttiva con profitti che affluiscono dalle perdite sul corso delle azioni di estese masse di piccoli capitalisti – la cosiddetta “mano debole” – ed è quindi un potente mezzo per la concentrazione del capitale monetario. Fa parte dell’essenza della speculazione di borsa che debbano esistere due gruppi di persone, i membri di borsa, adepti e competenti, e la gran massa di coloro che sono fuori, il “pubblico”, che ha bisogno di parecchio tempo prima di attuare le sue operazioni sul mercato.

La speculazione può festeggiare le sue grandi orge laddove, con il passaggio della proprietà dalla forma indivi­duale alla forma della società per azioni, vengono gettati sul mercato immensi patrimoni accumulati da molti decenni che cadono vittime della borsa [?]. I titoli industriali si svalorizzano poiché è anche possibile che, con la pertur­bazione del processo di riproduzione, “la valorizzazione del capitale reale che essi rappresentano subisca eventualmente un contraccolpo” [Marx]. La caduta del corso dei titoli però è il pretesto per il loro acquisto in massa da parte de­gli speculatori di borsa. Così la speculazione, il fermento della borsa, comin­cia con la depressione, quando si origina una sovraccumulazione, una man­canza di occasioni d’investimento, in breve un capitale disponibile. L’“investimento” in borsa, però, non crea né valore né plusvalore. Esso ha per scopo soltanto un aumento delle quotazioni e il trasferimento di capitali (quando il corso dei titoli comincia di nuovo ad aumentare). Appena la tem­pesta è passata questi titoli crescono di nuovo al loro livello di un tempo – di­ce Marx – cosicché il loro deprezzamento ha agito durante la crisi come mez­zo efficace per l’accentramento dei patrimoni monetari. La centralizzazione del patrimonio finanziario attraverso l’aumento delle quo­tazioni di questi titoli viene ancora accelerata dal fatto che, mostrando alla lunga una tendenza all’aumento, “questa ricchezza immaginaria cresce nel processo di sviluppo della produzione capitalistica in conseguenza dell’au­mento di ciascuna delle sue parti aliquote, aventi un determinato valore nomi­nale originario” [Marx].

Il capitale privo di investimento si procura così una serie di canali di deflusso, sia all’estero con l’esportazione di capitale, sia all’interno con la speculazione di borsa, canali appropriati ad assicurarne la valorizzazione. Questi sforzi non si limitano esclusivamente al periodo di de­pressione. Se subentrano le controtendenze, se viene ricostituita nel processo di produzione la valorizzazione degli investimenti di capitale, si avrà di nuo­vo un’ulteriore accumulazione. Sulla base di questa concezione teorica si può giudicare la correttezza della caratterizzazione del capitalismo monopolistico finanziario data da Lenin con la sua acuta formulazione. Esiste infatti una grande differenza tra l’esporta­zione di capitale dell’odierno capitalismo di monopolio e quello dei suoi inizî, quando il fenomeno dell’esportazione di capitali era già noto. Però, dato lo scarso livello dell’accumulazione, esso rappresentava per il capitalismo di al­lora qualcosa di non caratteristico, era soltanto un fenomeno transitorio che sorgeva periodicamente. Ben altrimenti stanno le cose oggi. I paesi più impor­tanti hanno già raggiunto un alto livello dell’accumulazione, in cui la valoriz­zazione del capitale accumulato incontra sempre maggiori difficoltà. La ple­tora di capitale cessa di essere un fenomeno transitorio e comincia sempre di più a dominare tutta la vita economica. In queste circostanze la sovrabbon­danza di capitale può essere superata soltanto ricorrendo all’esportazione di capitale che, per tutti i paesi di avanzato sviluppo capitalistico, è divenuta un fenomeno tipico e necessario.

L’esportazione di capitale verso l’estero e la speculazione all’interno sono fe­nomeni paralleli e scaturiscono da una radice comune. Dato che nella sfera della produzione non è possibile alcun impiego, si ha l’esportazione verso l’estero o l’“esportazione di capitale all’interno”, cioè l’affluire nell’attività di speculazione delle somme non impiegate. Dalla legge dell’accumulazione di capitale esposta risulta senz’altro, nel corso del processo storico, un muta­mento necessario nel rapporto tra capitale industriale e capitale bancario. Ai livelli inferiori dell’accumulazione, la formazione di capitale proprio dell’in­dustria è insufficiente. L’in­dustria è perciò costretta a far affluire credito dall’esterno, e le banche come mediatrici e dispensatrici del credito acquista­no grande potere nei confronti dell’industria. Ma a un più elevato grado dell’accumulazione, l’industria si rende indipendente in misura crescente, poiché essa progredisce nell’autofinanziamento. In una terza fase, l’industria incontra sempre maggiori difficoltà per investire in modo redditizio anche soltanto i proprî utili all’interno delle aziende originarie, utilizzandoli per far rientrare altre aziende nella loro sfere d’influenza. Non si può più parlare qui, in effetti, di una dipendenza dell’industria dalle banche; è piuttosto l’industria che domina le banche, mantenendo grandi somme presso di esse o creando persino proprî istituti bancari. La tendenza del bilancio tipico della grande in­dustria (capitale monopolistico finanziario) va nella direzione di un ingrandi­mento del capitale di proprietà e di una diminuzione degli obblighi verso le banche o persino di un possesso di grandi crediti bancari. Questo è anche il motivo per cui le banche stesse ricorrono in misura crescente all’investimento dei loro capitali in borsa, sostituendo il credito bancario attraverso anticipa­zioni su titoli. Fino alla crisi successiva, alla stretta successiva sul mercato fi­nanziario, il gioco si ripete; però, su base mutata: la centralizzazione del pa­trimonio finanziario è sempre più grande, spiegando così il potere crescente del capitale finanziario.

[h.g.]

(da Henryk Grossmann, La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalistico, Leipzig 1929 - 2.14; 3.II.3.a,b,d)

 

 

Capitale fittizio

“Lo scopo delle banche è di facilitare gli affari. Affari e speculazione sono così strettamente collegati che è difficile dire dove finisca l’affare e dove co­minci la speculazione. Dovunque esistono banche, si ottiene il capitale con più facilità e a minor prezzo. Il buon prezzo del capitale favorisce la specula­zione, allo stesso modo che il buon prezzo della carne e della birra favorisce l’ingordigia e l’ubriachezza”. Queste chiare parole che il banchiere inglese James Gilbart scriveva nel lontano 1834 illustrano nel miglior modo il carat­tere di “ingordigia e ubriachezza” insiti nella speculazione [?], ma anche la strettissima implicazione di essa dal “normale” corso de­gli affari. Il costante fraintendimento dell’operare della speculazione stessa, soprattutto in relazione alla sua forma monetaria, bancaria e borsistica, soven­te scambiata con gravi margini di erroneità con quella “finanziaria”, è tipico della superficialità dell’economia borghese, che tuttavia domina anche nell’“asi­nistra”. Già Marx, affrontando le tematiche della superficie del mercato dei capitali, criticava le “meteorologie” monetarie e speculative borsistiche, che ne rappre­sentano il culmine, fino alle forme del capitale fittizio. Per comprenderle me­glio è bene aver chiara la separazione tra capitale monetario [?] e capitale ope­rante [?], le loro peculiari forme, e la “rappresentazione” mistifi­catoria che ne dà l’ideologia dominante (e, a sua imitazione, quella domina­ta). Gli economisti volgari seguiti dai socialisti volgari, e da ben distinguersi dagli scienziati dell’economia – scriveva Marx – di fatto traducono le rappre­sentazioni, i moventi, ecc., di coloro su cui poggia la produzione capitalistica: di coloro, cioè, che vi sono impigliati e in cui essa si riflette solo nella sua parvenza superficiale. È una finzione senza fantasia, una religione del volga­re. Essi traducono l’enunciazione ristretta e pedantesca delle idee volgari in un linguaggio dottrinario, dal punto di vista della classe dominante, dei capi­talisti, e perciò non in modo ingenuo e oggettivo, ma apologetico.

Lo smisurato odierno sviluppo dei cosiddetti nuovi “strumenti finanziari”, con la loro altrettanto smisurata “volatilità” è fonte, a un tempo, delle tendenze neo-monetariste della moderna meteorologia economica e delle forme mone­tarie delle ricorrenti crisi. Per analizzare codesta realtà di crisi e per criticare l’ideologia monetarista che l’accompagna, occorre porre correttamente i ter­mini della formazione del capitale “fittizio” e dell’emissione dei titoli che lo rappresentano; i caratteri e i limiti di esso; i suoi rapporti con le diverse forme del capitale effettivo. È impossibile precisare in quale misura tali titoli provengano da transazioni reali, ossia da vendite e da acquisti effettivi, e in quale misura essi siano crea­te artificialmente: così scriveva nel 1840 un altro banchiere britannico dello Yorkshire, Leatham, il quale chiamava col nome – oggi assai “spettacolare” – di fiction l’emessione di cambiali di comodo in sostituzione di altri titoli. Ap­punto così si crea il cosiddetto capitale fittizio mediante l’emissione di “puri e semplici mezzi di circolazione”, che hanno per scopo di trasferire tali titoli di credito. L’impossibilità, o quanto meno la difficoltà, di una precisa individua­zione di ciò che rappresenta la realtà effettiva rispetto a ciò che invece è fic­tion rimanda alla rammentata contiguità tra “affari normali” e “speculazione”, tra le diverse funzioni del credito e delle banche, insomma tra capitale effetti­vo e capitale fittizio.

L’amministrazione del capitale produttivo d’interesse [?], quale forma peculiare del capitale monetario [quindi non del capitale monetario [?] come tale, nella sua specifica forma di funzione transitoria nella metamorfosi del capitale indu­striale], si sviluppa come funzione particolare dei “commercianti di denaro”. Il prendere a prestito e il dare a prestito denaro costituisce il loro affare parti­colare. In termini generali, l’attività del banchiere consiste nel concentrare nelle sue mani e in grandi masse il capitale monetario disponibile per il presti­to. Questa azione di mettere insieme piccole somme deve essere distinta, co­me azione specifica del sistema bancario, da quella d’intermediario tra i capi­talisti monetari veri e propri e coloro che prendono a prestito, soprattutto i capitalisti industriali e commerciali operanti (ma anche i dissipatori di ric­chezze o i lavoratori ricattati dal bisogno). Ora, in luogo del singolo individuo che dà denaro a prestito, di fronte ai capitalisti operanti si trovano i banchieri, come rappresentanti di tutti coloro che prestano denaro. Essi diventano così gli amministratori generali del capitale monetario. Tuttavia, assieme ai cosiddetti investitori istituzionali (società finanziarie e di assicurazione, gestori di fondi di investimento e di fondi pensione, e giù giù fino alla raccolta della “spazzatura” di borsa), le grandi banche dell’imperia­lismo transnazionale sono sempre più tentate anche a giocare d’anticipo sull’economia reale della produzione.

Il concetto e la parola stessa “specula­zione” significano proprio questo: che la quotazione dei titoli non è determi­nata dal provento “reale” dell’attività che essi rappresentano ma, appunto, da una valutazione “speculativa” – ossia, dalla capacità di indagare e far conget­ture – sul provento atteso e previsto in “anticipo”. In effetti, tutto il movimen­to autonomo del capitale fittizio – di quella parte del capitale monetario effet­tivo, sia esso funzionale sia esso da prestito, che si trasforma in capitale fitti­zio – nasce da simili anticipazioni. Lo snodo dell’intera faccenda sta dunque proprio nel capire quale parte dei ti­toli emessi corrisponda ad attività produttive reali, valori effettivamente esi­stenti, proprietà di capitale operante, e quale altra parte invece sia solo una finzione, una “replica” più volte ripetuta di quegli stessi valori effettivi, prece­dentemente rappresentati, sulla cui base si costruisce l’intero castello di carte. Di siffatti titoli speculativi, già un rapporto segreto della camera dei lords sul­la crisi del 1847 dice di non poter “capire a colpo d’occhio” se siano “emessi assennatamente oppure no, se rappresentino prodotti o non rappresentino nul­la”. L’unica cosa che perciò gli operatori di borsa capiscono, a questo propo­sito, è che questi titoli sono “assolutamente regolari, purché si mantengano entro certi limiti”. Ecco, occorre capire i limiti: quante più repliche si fanno della fiction, ossia quante più mani toccano la medesima ricchezza reale tra­sformandosi in altrettanti titoli che fanno aggio e “leva” su una e una sola quantità ef­fettiva di valore, tanto più quei titoli non rappresentano nulla.

La prospettiva di profitti elevati, o ancor più l’affannosa ricerca di facili gua­dagni speculativi in sostituzione di difficili profitti “normali”, spinge ad anti­cipare operazioni su titoli in misura di gran lunga più estesa di quanto non lo giustifichino i mezzi liquidi disponibili. Si comincia a sottoscrivere titoli nella misura in cui il denaro liquido è sufficiente appena a coprire i primi versa­menti, pensando che il resto si possa accomodare con il tempo, nel futuro. Poi non si tiene più in alcun conto neppure quella copertura iniziale, “scommet­tendo” direttamente sulle anticipazioni per il futuro – sulla formazione di un plusvalore futuro, per essere precisi. Finché il flusso dei pagamenti su tali ti­toli scorre rapidamente e facilmente, il volume complessivo e il livello delle transazioni di borsa – che si traduce sinteticamente negli indici delle quotazio­ni – raggiungono altezze mai viste: è il periodo delle “vacche grasse” per l’at­tività speculativa del grande capitale. Ma un tal gioco d’anticipo è un vero e proprio gioco d’azzardo. In circostanze nelle quali simile attività di passaggio dagli affari normali alla speculazione è sempre più oberata, necessariamente quel gioco deve finire nella completa saturazione dei mercati – i mitici “mer­cati finanziari” – e nella crisi [?].

Il flusso dei pagamenti si arresta, il tasso ufficiale di sconto e il sistema dei tassi di interesse si alza, i titoli diventano negoziabili a tassi spaventosi, che si possono definire di “usura”, o non sono negoziabili affatto, la quotazione del loro “valore” nominale crolla, proprio perché non rappresentano alcun “valo­re”, non rappresentano nulla. Il generale arresto del flusso dei pagamenti sui titoli provoca la bancarotta di quanti, soprattutto piccoli sprovveduti ma anche medi e grandi avventurieri, hanno scommesso ripetutamente, passando da una mano all’altra, su un unico, limitato, valore reale già considerato come “pe­gno” per troppe diverse persone. Un valore che, proprio perché ben limitato, allorché si è costretti a riferirsi alla sua consistenza effettiva e non alla “spe­culazione” sulle sue future quotazioni, non può certo soddisfare tutti i preten­denti: è il momento del “panico” di borsa. Essendo il sistema del credito che produce il “capitale associato”, i titoli attra­verso di esso emessi sono originariamente titoli di proprietà che rappresenta­no le parti di codesto capitale. Rappresentano, cioè, il capitale investito e ope­rante nelle imprese che a essi corrispondono, oppure la somma monetaria che è stata anticipata dai sottoscrittori al fine di essere spesa come capitale in tali imprese.

Questo è perciò capitale effettivo (il che tuttavia non esclude affatto che anche quei titoli possano rappresentare delle truffe). Dunque, i titoli che rappresentano capitale effettivo hanno un valore reale che corrisponde loro. Tanto che tutte le transazioni finanziarie, di banca e di borsa, su di essi, che comportino acquisizioni, fusioni, partecipazioni, controllo di pacchetti azio­nari, ecc., sono operazioni riguardanti la proprietà [?] effettiva del capitale, e non sono affatto finzioni: questa parte non è per niente capitale fittizio, è il “valo­re reale” dei titoli quotati in borsa. Ma – avverte Marx – questo capitale non ha una duplice esistenza (poi triplica­ta e ancora moltiplicata a dismisura), una volta come valore-capitale dei titoli di proprietà, un’altra come capitale effettivamente investito o da investire in queste imprese. Esso esiste unicamente sotto quest’ultima forma e l’azione (o altro) non è che un titolo di proprietà, pro rata, sul plusvalore che verrà rea­lizzato da questo capitale. Le successive transazioni e gli ulteriori passaggi di mano del titolo, per quanto numerosi possano essere, non mutano per nulla la sostanza della cosa. Il movimento autonomo della quotazione di questi titoli di proprietà consolida l’apparenza che essi costituiscano un capitale reale ac­canto al capitale o al diritto sul capitale di cui essi sono eventualmente titolo giuridico. Viceversa, la maggior parte del capitale monetario di questo tipo (presso banche, investitori istituzionali, ecc.) è puramente fittizio e la quota­zione dei titoli che lo esprimono viene regolata indipendentemente dal valore del capitale effettivo che questi titoli, almeno in parte, rappresentano. Dun­que, quando questi titoli non rappresentano capitale effettivo ma soltanto dei semplici diritti sui proventi futuri, il diritto su uno stesso provento si esprime in capitale monetario fittizio soggetto a continue oscillazioni.

Questa figura del capitale monetario genera le concezioni più insensate, al punto che gli operatori finanziari giungono a concepire quei titoli, e tutti i lo­ro cosiddetti “derivati”, come merci – nuovi “prodotti” finanziari e bancari, dicono loro. E difatti essi si trasformano in “merci” nella misura in cui il loro prezzo ha un movimento e un modo di fissarsi suo proprio. Il loro “valore” di mercato differisce dal loro “valore” nominale, e ciò indipendentemente dal cambiamento di valore del capitale effettivo (sebbene con qualche legame col cambiamento della sua valorizzazione), in relazione all’ammontare e alla si­curezza dei proventi ai quali codesti titoli si suppone che diano diritto. Co­sicché, anche in quei casi in cui il titolo non rappresenti già un capitale pura­mente illusorio, è il valore-capitale del titolo stesso a essere puramente illuso­rio. La formazione di capitale fittizio la si chiama “capitalizzazione”. Si capitaliz­za, cioè, ogni flusso di reddito regolare e periodico, in base al tasso medio di interesse, come se provenisse realmente da un capitale dato in prestito, anche quando così non è. Questa concezione è e rimane illusoria. Ma, per colui che acquista un titolo di proprietà che prometta tale reddito come “interesse”, esso rappresenta giuridicamente il suo “capitale”. Svanisce così anche l’ultima traccia di qualsiasi rapporto con l’effettivo processo di valorizzazione del ca­pitale e si consolida l’idea che “rappresenta” il capitale come un automa che si valorizza per se stesso.

Una forma particolarmente rilevante di capitale fittizio è rappresentata dai ti­toli del debito pubblico [?]. Lo stato deve pagare periodicamente ai suoi “credito­ri” una certa somma di interessi per il “capitale” che costoro gli hanno presta­to. Ma questi peculiari “creditori pubblici” non possono chiedere allo stato la restituzione del “debito pubblico”. Possono soltanto vendere ad altri il loro ti­tolo di proprietà, il loro certificato di credito; e possono venderlo alle condi­zioni stabilite dal loro prezzo di mercato. Quale che sia il numero delle tran­sazioni successive, il debito pubblico rimane un capitale puramente fittizio, il­lusorio, e il giorno in cui questi titoli di credito diventassero invendibili (per varie ipotesi di consolidamento, o anche solo di particolari forme di tassazio­ne) svanirebbe pure l’apparenza di questo capitale. Ma che esso non sia “ca­pitale” lo si vede sùbito se si riflette al fatto che esso è una certa quantità di denaro, presa in prestito e consumata, spesa dallo stato. Esso non esiste già più nel momento stesso in cui è prestato allo stato. Non solo tale somma non esiste più: essa non è mai stata destinata a essere spesa e investita come capi­tale, e solo se investita come capitale essa avrebbe potuto trasformarsi in un valore effettivo capace di autoconservarsi e valorizzarsi.

Dunque, tutti i titoli che si riferiscono alla parte fittizia del capitale monetario non sono in realtà che un’accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla pro­duzione futura e da essa separati. Il loro valore monetario non costituisce ca­pitale: o perché è illusorio e non è tale fin dall’inizio, come nel caso del debi­to pubblico; o perché il loro valore-capitale, autonomizzatosi attraverso suc­cessive transazioni, è determinato in modo completamente indipendente dal valore del capitale effettivo da cui essi promanano il loro titolo giuridico. In tutti i casi, comunque, il loro “valore” è dato unicamente dal provento atteso capitalizzato, riportato a un capitale illusorio. In tutta l’economia capitalistica esiste una massa enorme e crescente di capitale monetario nominale in questa forma fittizia. E per accumulazione di capitale monetario si deve intendere, dunque, in grandissima parte accumulazione dei diritti sulla produzione, accu­mulazione del prezzo di mercato, del valore illusorio di questi diritti.

In periodi di difficoltà per il mercato monetario – già avvertiva Marx – questi titoli subiscono una duplice riduzione di prezzo: anzitutto perché il tasso d’in­teresse aumenta, e in secondo luogo perché allora essi vengono gettati sul mercato in massa, per essere convertiti in denaro. Tale riduzione di prezzo si verifica indipendentemente dal fatto che il provento assicurato da questi titoli al loro proprietario sia costante, come accade per i titoli di stato, oppure che risenta di contraccolpi per le perturbazioni del processo reale di riproduzione del capitale industriale (in questo secondo caso vi è un ulteriore motivo di svalutazione). Ma non appena la burrasca è passata questi titoli riprendono il loro “valore” precedente (tranne i casi di fallimento o di titoli “spazzatura”). Il loro deprezzamento durante la crisi agisce infallibilmente come il mezzo più efficace per l’accentramento dei patrimoni monetari e finanziari.

In quanto l’oscillazione di questi titoli è indipendente dal movimento di valo­re del capitale reale, la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di ciò. In quanto il crollo delle quotazioni di borsa dei titoli del capitale fittizio non esprima un effettivo arresto della produzione o lo sperpero di capitale reale in attività senza valore, l’economia reale non risulta impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone di capitale mone­tario nominale.

[gf.p.]

 

Capitale fittizio # 2

(speculazione)

Nella forma del capitale produttivo d’interesse [<=] si palesa in modo evidente che il capitale si appropria senza lavoro dei frutti del lavoro altrui. Infatti esso appare qui in una forma in cui si è separato dal processo di produzione in quanto processo. L’economia volgare ritiene di essere tanto più semplice, naturale e utile, tanto più lontana da ogni sottigliezza teorica, quanto più si limita di fatto a tradurre le idee ordinarie in un linguaggio dottrinario. Quindi, quanto più estraniata è la forma in cui concepisce le configurazioni della produzione capitalistica, tanto più si avvicina all’elemento della rappresentazione comune.

Insomma, il denaro [<=] funziona qui soltanto contro la promessa scritta di pagare a un termine prestabilito. Noi possiamo, per amor di brevità, raggruppare queste “promesse di pagamento” nella categoria generale del­le cambiali. Fino al giorno della loro scadenza e del loro pagamento queste cambiali circolano, a loro volta, come mezzo di pagamento; ed esse costituiscono il vero e proprio denaro del commercio. In quanto si annullano, compensando definitivamente debito e credito, esse funzionano integralmente come denaro, poiché in questo caso non ha luogo alla fine alcuna trasformazione in denaro. Precisamen­te come questi anticipi reciproci dei produttori e dei commercianti costituiscono la base reale del credito, così il loro strumento di circolazione, la cambiale, costituisce la base della effettiva moneta di credito, delle banconote, ecc. Queste non si fondano sulla circolazione monetaria, sia essa moneta metallica o moneta cartacea statale, ma sulla circolazione delle cambiali.

“Questa enorme sovrastruttura di cambiali poggia (!) su una base costituita dall’ammontare delle banconote e dell’oro; e se nel corso degli avvenimenti questa base si restringe troppo, la sua solidità e la sua esistenza stessa si trovano in pericolo. Delle cambiali può essere legalmente richie­sto il cambio in oro. Come faccio a trovare l’importo in oro per soddisfare questa richiesta? Le cambiali non possono essere poste sotto controllo a meno che non si impedisca l’ecceden­za di denaro o il basso tasso di interesse o di sconto, che le provoca in parte, incoraggiando questa larga e pericolosa espansione. È impossibile precisare in quale misura queste cam­biali provengano da transazioni reali, ossia da vendite e da acquisti effettivi, e in quale misura esse siano create artificialmente (fictitious) e non siano altro che cambiali di comodo; ciò accade quando si emette una cambiale per ritrarne una in corso prima della scadenza e creare così il capitale fittizio [<=] mediante l’emissione di puri e semplici mezzi di circolazione” [cfr. William Leat­ham, Letters on the Currency; secondo i suoi calcoli, già allora il rapporto tra denaro e cambiali in circolazione era di uno a sedici – ndr; sul “capitale fittizio”, cfr. quiproquo, nn. 49 e 70; anche nn. 43 e 109 sulla “speculazione” [<=]].

In seguito a questo commercio di denaro si sviluppa l’altro aspetto della natura del credito [<=], l’ammini­strazione del capitale produttivo d’in­te­resse, o del capitale monetario [<=] come funzione particolare dei commercianti di denaro. Il prendere a pre­stito e il dare a prestito denaro costituisce il loro affare particolare. Essi servono da intermediari tra chi effettivamente prende a prestito e chi effettivamente dà a prestito capitale mo­netario. Espressa in termini generali, l’attività del banchiere sotto questo aspetto consiste nel concentrare nelle sue mani e in grandi masse il capitale monetario disponibile per il prestito, così che di fronte ai capitalisti industriali e commerciali, in luogo del sin­golo individuo che dà denaro a prestito, si trovano i banchieri, come rappresentanti di tutti coloro che dànno denaro a prestito. Essi diventano gli amministratori generali del capitale monetario.

D’altro lato essi rappresentano, di fronte a tutti coloro che dànno a prestito, la figura di chi prende a prestito, poiché essi prendono a prestito per tutto quanto il mondo commerciale. Una banca rappresenta da un lato la concentrazione del capitale monetario, cioè di coloro che dànno a prestito, d’altro lato la concentrazione di quelli che prendono a prestito. Il suo profitto consiste generalmente nel fatto che essa prende a prestito a un tasso meno elevato di quello con cui dà a prestito.

Se non fosse stato concesso questo credito (era in circolazione un’ingen­te quantità di cambiali emesse da speculatori su intermediari) il prezzo della merce sarebbe notevolmente diminuito; e ciò varrebbe anche per gli anticipi su cambiali emesse per tutti gli altri prodotti. Le cambiali emesse su una ditta sono vendute altrove e con il ricavato sono acquistate altre cambiali rispedite alla ditta di pro­venienza per permetterle di pagare le prime cambiali emesse: con questo solo affare sono messe in circolazione cambiali per tre volte l’importo originario. Quale che sia il numero delle transazioni successive, il capitale del debito pubblico rimane un capitale puramente fittizio, e il giorno in cui questi titoli diventassero invendibili svanirebbe anche l’apparen­za di questo capitale.

Con lo sviluppo del commercio e della produzione capitalistica, che pro­duce unicamente in vista della circolazione, la base naturale del sistema creditizio si amplia, si generalizza, si perfeziona. Di tutte queste forme, il feticcio più completo è il capitale produttivo d’interesse. Qui abbiamo il punto di partenza originario del capitale – il denaro – e la formula “denaro-merce-denaro valorizzato” ridot­ta ai suoi due estremi, “denaro-dena­ro valorizzato”, denaro che crea più denaro: è la formula originaria e generale del capitale ridotta a un riassunto privo di senso. La completa reificazione, il rovesciamento e la follia del capitale come capitale produttivo d’interesse – in cui tuttavia non fa che manifestarsi l’intima natura della produzione capitalistica, la sua follia, nella forma più tangibile – è il capitale in quanto portatore di interesse com­posto, quando appare come un Moloch che pretende il mondo.

Nel debito pubblico [<=] appare co­me capitale una grandezza negativa e, com’è in generale per il capitale produttivo d’interesse, ciò genera le concezioni più insensate, al punto che i banchieri giungono a concepire i debiti come merci. Questo ritorno del ca­pitale al suo punto di partenza riceve nel capitale produttivo d’interesse una figura del tutto esteriore, separata dal movimento reale di cui è forma. Lo spostamento del denaro, quando è pre­stato come capitale e quindi non viene trasformato in capitale ma entra come capitale nella speculazione, non espri­me altro che un trasferimento del mede­simo denaro da una mano all’altra.

Per il prestatore resta capitale anche quando non lo presta all’industriale ma al dissipatore, o quando lo presta a un lavoratore che non è in grado di pagare l’affitto (a es., tutta la questione dei “monti di pietà”). La trasformazione in capitale è un’opera­zione che sta al di là di quella che si svolge tra colui che presta e colui che prende a prestito. Questa mediazione è cancellata, non vi è visibilmente, im­mediatamente inclusa. Invece della tra­sformazione reale del denaro in ca­pitale, qui appare solo la forma pri­va di contenuto di tale trasformazione. Il valore d’uso del denaro qui diventa quello di creare valore di scambio, un valore di scambio maggiore di quello in esso contenuto. È prestato come valore che valorizza se stesso.

Il capitalista monetario in realtà ottiene la sua parte di plusvalore solo in quanto è il proprietario del capitale, mentre rimane al di fuori del processo di produzione; il prezzo del capitale – vale a dire del mero titolo di proprietà sul capitale – è quotato sul mer­cato monetario nel tasso di interesse; i singoli capitalisti truffano i compratori e i venditori di merci con un diverso grado di fortuna e scaltrezza, ed è naturale che a essi – siano o no proprietari del capitale che si trova nel processo – l’interesse appaia come do­vuto al capitale in quanto tale.

Mentre dunque l’interesse e il capitale produttivo d’interesse esprimono unicamente l’antitesi tra la ricchezza oggettiva e il lavoro, e quindi la sua esistenza come capitale, nella rappresentazione si ha l’esatto capovolgimento di ciò, in quanto il fenomeno, prima facie, mostra che il capitale mo­netario non ha alcun rapporto con il lavoratore salariato, ma solo con altri capitalisti. Di qui la bella frase di alcuni “economisti volgari”: se il capitalista industriale oltre all’interesse non ricavasse un profitto, presterebbe a interesse il suo capitale e vivrebbe di rendita. Cosicché tutti i capitalisti cesserebbero di produrre e tutto il capitale cesserebbe di fungere come capitale e tuttavia si potrebbe vivere dei suoi interessi. In questa opinione vol­gare si ha un capovolgimento.

La formazione del capitale fittizio la si chiama capitalizzazione. Si capitalizza ogni reddito regolare e periodico, considerandolo in base al tasso medio dell’interesse come provento che verrebbe ricavato da un capitale dato in prestito a questo tasso d’interesse; svanisce così anche l’ultima traccia di qualsiasi rapporto con l’ef­fettivo processo di valorizzazione del capitale e si consolida l’idea che rappresenta il capitale come automa che si valorizza di per se stesso. Anche in quei casi in cui l’obbligazione – il titolo di credito – non rappresenta, come si verifica per il debito pubblico, un capitale puramente illusorio, il valore-capitale di questo titolo è puramente illusorio.

Le azioni delle società ferroviarie, minerarie e di navigazione ecc. rappresentano capitale effettivo, il che tuttavia non esclude affatto che esse possano anche rappresentare delle sem­plici truffe. Ma questo capitale non ha una duplice esistenza, una volta di va­lore-capitale dei titoli di proprietà, delle azioni, un’altra di capitale effettivamente investito o da investire in queste imprese. Esso esiste unicamen­te sotto quest’ultima forma e l’azione non è altro che un titolo di proprietà, in proporzione al plusvalore che verrà realizzato da questo capitale.

A può vendere questo titolo a B e B cederlo a C. Queste transazioni non mutano per nulla la sostanza della cosa. A, oppure B, ha in tal caso convertito il suo titolo in capitale, ma C da parte sua ha convertito il suo capitale in un semplice titolo di proprietà sul plusvalore che ci si attende dal capitale azionario. Il movimento autonomo del valore di questi titoli di proprietà, non soltanto dei valori di stato, ma anche delle azioni, consolida l’apparenza che essi costituiscano un capitale reale accanto al capitale o al diritto sul capitale di cui essi sono eventualmente titolo giuridico. Essi si trasformano difatti in merci, il cui prezzo ha un movimento e un modo di fissarsi suoi propri. Il loro valore di mercato differisce dal loro valore nominale, indipendentemente dal cam­biamento di valore del capitale effettivo (sebbene in connessione col cam­biamento della sua valorizzazione); il loro valore di mercato oscilla in relazione all’ammontare e alla sicurezza dei proventi ai quali questi titoli danno diritto.

Se il valore nominale di una azione si accresce, essa rappresenta ora un capitale fittizio; e anche colui che l’acquista ritrae da questo investimento di capitale un reddito. Il contrario si verifica quando gli utili dell’impresa diminuiscono. Il valore di mercato di questi titoli è in parte speculativo, essendo determinato non dal provento reale ma dal provento previsto, calcolato in anticipo.

In periodi di difficoltà per il mercato monetario, questi titoli quin­di subiranno una duplice riduzione di prezzo; innanzitutto perché il tasso del­l’interesse aumenta, e in secondo luo­go perché essi vengono gettati sul mercato in massa, per essere convertiti in denaro. Non appena la burrasca è passata questi titoli riprendono il loro valore precedente, eccettuato il caso in cui si tratti di imprese sfortunate o di bassa speculazione. Il loro deprezzamento durante la crisi agisce come mezzo efficace per l’accentra­mento dei patrimoni monetari.

In quanto la diminuzione o l’aumen­to di valore di questi titoli sono indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano, la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di tale diminuzione o aumento. In quanto la loro svalorizzazione non esprime un effettivo arresto della produzione, la nazione non risulta impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone di capitale monetario nominale.

Tutti tali titoli non sono in realtà che un’accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla produzione futura, e il loro valore monetario non costituisce ca­pitale, come a esempio nel caso del debito pubblico, oppure è determinato in modo completamente indipendente dal valore del capitale reale che essi rappresentano. In tutti i paesi a produzione capitalistica esiste una mas­sa enorme di cosiddetto capitale produttivo d’interesse o di capitale monetario sotto questa forma. E per accumulazione del capitale monetario si deve intendere in gran parte esclusivamente l’accumulazione di questi diritti sulla produzione, l’accumula­zione del prezzo di mercato del valore-capitale illusorio di questi diritti.

La maggior parte del capitale del banchiere è dunque puramente fittizia e consiste in titoli di credito (cambiali), titoli di stato (che rappresentano capitale consumato), e azioni (buoni sui proventi futuri). E non si deve qui dimenticare che il valore monetario del capitale rappresentato da queste carte che giacciono nelle casseforti dei banchieri è puramente fittizio e che esso viene regolato indipendentemente dal valore del capitale effettivo che questi titoli, almeno in parte, rappresentano; e quando questi titoli non rappresentano del capitale ma soltanto dei semplici diritti sui proventi, il diritto su uno stesso provento si esprime in capitale monetario fittizio soggetto a continue modificazioni. A ciò si aggiunge ancora che il capitale fittizio del banchiere rappresenta per la maggior parte non il suo proprio capitale, ma quello del pubblico che l’ha depositato presso di lui, con o senza interessi.

“E come gli stessi pezzi di denaro possono servire a rendere possibili prestiti diversi per un ammontare corrispondente a tre o anche a trenta volte il loro valore, essi possono allo stesso modo servire successivamente come mezzo del rimborso” [Adam Smith], a meno che non si verifichi un assalto generale alle banche per ritirare i depositi. Poiché la medesima moneta può servire, secondo la velocità della sua circolazione, a diversi acquisti, essa può parimenti servire a diversi prestiti, poiché gli acquisti la portano da una mano all’altra, e il prestito non è che un trasferimento da una mano all’altra senza l’interme­diario dell’acquisto. Nel prestito in denaro senza la mediazione degli acquisti, lo stesso denaro non rappresenterebbe tre capitali, ma uno soltanto, soltanto un valore-capitale; il numero dei capitali che esso rappresenta effettivamente dipende dal numero delle volte in cui esso opera come forma di valore di capitali-mer­ce diversi.

Gli agenti di borsa conducono i loro vastissimi affari senza avere nessuna riserva contante; essi si basano sugli incassi delle loro cambiali che vengono di volta in volta a scadenza o, in caso di bisogno, sulla loro facoltà di ottenere degli anticipi dalla Banca [centrale] contro deposito delle cambiali da essi scontate. Durante la crisi, e in generale durante periodi di ristagno degli affari, il capitale fittizio perde in gran parte la sua proprietà di rappresentare capitale monetario potenziale. Il loro prezzo diminuisce con l’aumento dell’interesse. Esso diminuisce inoltre a causa della mancanza generale di credito, che costringe il loro proprietario a svendere tali titoli in massa sul mercato per procurarsi denaro e, in parte, perché le imprese che essi rappresentano hanno troppo spesso carattere fittizio.

Questo capitale monetario fittizio durante le crisi risulta fortemente ridotto e quindi diminuisce anche la possibilità per il proprietario di venderlo per procurarsi denaro. In quanto la Banca emette dei biglietti che non sono coperti dalla riserva metallica nei suoi forzieri, essa crea segni di valore che costituiscono non solo mezzi di circolazione, ma anche capitale addizionale – sia pure fittizio – corrispondente all’ammontare nominale di questi biglietti senza copertura.

Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’ac­cumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’in­vestimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti.

Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fan­no da intermediari tra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quel­la degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotag­gio: in una parola, ha fatto nascere il gioco di borsa e la bancocrazia moderna.                                      [k.m.]

(cfr. Tp, q.xv, pp.891ss; anche C, i.24)

 

 

Capitale monetario

(prestito e interesse)

Nel processo reale del capitale, la forma monetaria è una forma evanescente. Il capitale produttivo d’interesse [?] (come sua forma affatto specifica e peculia­re) ne è il feticcio più completo. In codesta forma si palesa in modo evidente che il capitale si appropria senza lavoro dei frutti del lavoro altrui. La sua for­mazione, la sua separazione dal capitale industriale, è un prodotto necessario dello sviluppo del modo di produzione capitalistico stesso. Esso è il capitale “concluso” – nel senso dell’unità di processo di produzione e processo di cir­colazione – che quindi in un determinato periodo di tempo frutta un determi­nato profitto. In codesta forma di capitale resta quest’unica determinazione, senza la mediazione [?] del processo di produzione e del processo di circolazio­ne. Qui abbiamo il punto di partenza originario del capitale – il denaro – e la formula originaria e generale del capitale [denaro - merce - maggior denaro], ridotta ai suoi due estremi, denaro che crea più denaro, è ridotta a un riassunto privo di senso. Quello che nello sviluppo del capitale non era che il risultato, ora lo si ritrova come soggetto, in questa sua forma pura di denaro che parto­risce denaro. In essa si ha la forma aconcettuale del capitale, incomprensibile, mistificata, la distorsione e reificazione del rapporto di produzione alla massi­ma potenza. La forma incomprensibile che incontriamo alla superficie e da cui, perciò, siamo partiti nell’analisi, la ritroviamo come risultato del proces­so in cui la figura del capitale diventa a poco a poco sempre più estraniata e priva di relazione con la sua intima essenza. Questo ritorno del capitale al suo punto di partenza riceve qui una figura del tutto esteriore, separata dal movi­mento reale di cui è forma. Il feticcio è automatico e completo: è il valore che valorizza se stesso, il denaro che fa denaro, e in questa forma non porta più i segni della sua origine.

Il rapporto sociale è completo come rapporto della co­sa – il denaro – con se stessa. Nella completa reificazione, il rovesciamento e la follia del capitale come capitale produttivo d’interesse, tuttavia, non fa che manifestarsi l’intima natura della produzione capitalistica, la sua follia nella forma più tangibile. Nel capitale che produce interesse il capitale è compiuto come fonte misterio­sa che genera da se stessa il proprio accrescimento. Anche per la rappresenta­zione, perciò, il capitale assume specialmente questa forma. È il capitale per eccellenza. Il capitale nella sua forma monetaria può essere venduto come “fonte” del profitto. Col denaro si permette a qualcun altro di appropriarsi di plusvalore: è quindi “regolare” che chi lo dà riceva una parte di tale plusvalore. Il denaro, così, non è venduto come “denaro”, ma alla seconda potenza, come capitale. Esso, allora, può essere affittato, al pari della terra, come una “cosa” che “crea” valore, che si conserva e ritorna continuamente, cosicché possa essere restituita anche al primitivo possessore. Si presta denaro invece di spenderlo.

Con il suo spostamento il denaro, quando è prestato come capitale, non viene per questo trasformato in capitale, ma entra come capitale nella circolazione [?] e non esprime altro che il trasferimento del medesimo denaro da una mano all’altra. Per il prestatore la trasformazione del denaro in capitale comincia nel momento in cui, invece di spenderlo come denaro, lo spende come capita­le, lo consegna nelle mani di un altro, anche quando lo presta al dissipatore o a un lavoratore che non è in grado di pagare l’affitto. È prestato come valore che valorizza se stesso, solo come merce che appunto per questa proprietà si differenzia da ogni altra merce, e quindi possiede anche una forma particola­re di alienazione. Il titolo di proprietà resta nelle mani del prestatore; se il possesso passa nelle mani del capitalista industriale, è questo che lo trasforma in capitale: ma è un’operazione che sta al di là di quella che si svolge fra colui che presta e colui che prende a prestito. Questa mediazione è cancellata, non vi è visibilmente e immediatamente inclusa.

L’interesse non è che una parte del profitto classificata sotto un nome a sé, e appare qui come ciò che è inerente al capitale come tale, indipendentemente dal processo di produzione, e quindi alla mera proprietà [?] di capitale, alla pro­prietà di denaro e di merce, indipendentemente dai rapporti che dànno a que­sta proprietà il carattere delle proprietà capitalistica, perché la contrappongo­no al lavoro. Così è l’interesse e non il profitto che appare come la “creazione di valore” del capitale che scaturisce dal capitale come tale e quindi dalla me­ra proprietà del capitale. È in questa forma, perciò, che lo concepiscono anche gli economisti [e i socialisti] volgari. La figura nasce necessariamente con la separazione della proprietà giuridica del capitale dalla sua proprietà economica, e con l’appropriazione di una parte del profitto, sotto il nome di interesse, da parte di un capitale in sé o di un proprietario di capitale completamente separati dal processo di produzione. Per l’economista volgare, che vuole rappresentare il capitale come fonte autonoma del valore, questa è la forma in cui il risulta­to del processo capitalistico – separato dal processo stesso – riceve un’esisten­za autonoma. Per il capitale monetario – sul mercato monetario – si contrappongono solo due specie di compratori e venditori, di domanda e offerta. Da un lato la clas­se di capitalisti che prestano, dall’altro quella di capitalisti che prendono a prestito. La merce ha la medesima forma: denaro. Quell’aspetto del capitale produttivo che si manifesta solo nel movimento e nella concorrenza tra le sfe­re particolari, di essere cioè il capitale comune della classe, qui, nel capitale sul mercato monetario, si presenta realmente, con tutto il suo peso, nella do­manda di capitale. Di modo che, per quanto riguarda la forma della domanda, gli si contrappone il peso di una classe, ma in pari tempo, per ciò che riguarda l’offerta, si rappresenta come capitale prestabile in massa, come il capitale prestabile della società concentrato in pochi serbatoi.

Con lo sviluppo della grande industria il capitale monetario, in quanto si pre­senti sul mercato, è sempre meno rappresentato dal singolo capitalista, dal proprietario di questa o quella frazione del capitale che si trova sul mercato, ma si concentra, si organizza e, in un modo del tutto diverso dalla produzione reale, si presenta come il controllo dei banchieri che rappresentano il capitale. Così il capitale si contrappone in una sua determinatezza al medesimo capita­le nell’altra sua determinatezza. La mera ripartizione del profitto in sé tra di­versi capitalisti, che hanno differenti titoli giuridici allo stesso capitale e che, in una forma o nell’altra, sono comproprietari del medesimo capitale, non isti­tuisce quindi affatto differenti categorie per queste parti. In queste forme di plusvalore appare al capitalista stesso che la produzione di plusvalore rientri nei costi di produzione. Una parte del plusvalore, l’interesse, appare così co­me “prezzo di mercato” del capitale che entra nel processo, e quindi non co­me plusvalore ma come condizione di produzione. Questa apparenza è suffra­gata dal fatto che il profitto medio costituisce un elemento del prezzo di pro­duzione della merce, che per il capitalista industriale costituisce un’eccedenza sui suoi costi; e non, come nel caso dell’interesse e della rendita, sue anticipa­zioni.

Così questo fatto – che due classi di capitalisti, quella che sta al di fuori del processo e quella che vi sta dentro, si dividono il plusvalore – si “rappresenta” come indipendenza dell’una parte dall’altra, come indipendenza dell’una par­te dal processo stesso, e infine come proprietà immanente di una cosa (dena­ro, merce), ma queste cose come capitale. Il che a sua volta non appare come espressione di un rapporto ma come se questo denaro, questa merce, fossero tecnologicamente determinati in vista del processo lavorativo. Dall’autono­mia con cui alcune parti del plusvalore si contrappongono al processo come condizioni, da parti in cui si può scomporre il valore, esse si trasformano in elementi autonomi che lo costituiscono. Per il “prezzo di mercato” diventano realmente i suoi elementi costitutivi. Il modo in cui, come condizioni del processo, siano solo apparentemente in­dipendenti non giunge a manifestarsi in alcun istante del processo di produ­zione né opera come motivo determinante, cosciente: è così che viene conti­nuamente confusa la causa con l’effetto. La massima solidità che questa par­venza del risultato come condizione indipendente può raggiungere, appunto, è data non appena parti del plusvalore (come l’interesse o la rendita) entrano nel prezzo come prezzi delle condizioni di produzione. In effetti, in momenti critici il profitto si contrappone effettivamente al capi­talista come condizione della produzione, nel senso che la contrazione o l’ar­resto della produzione avviene in seguito a un ribasso di prezzo che divora o contrae in misura rilevante il profitto. Di qui l’idiozia di coloro che considera­no le diverse forme del plusvalore come mere forme di distribuzione. Esse sono ugualmente forme di produzione.

È chiaro che una diversa ripartizione o distribuzione del profitto (plusvalore) tra le differenti specie di capitalisti, vale a dire l’aumento del profitto indu­striale mediante la riduzione del tasso d’interesse e viceversa, non tocca in al­cun modo l’essenza della produzione capitalistica. Il “socialismo” rivolto contro il capitale produttivo d’interesse come “forma fondamentale” del capitale è quindi non solo impigliato fin sopra i capelli nell’orizzonte borghese. Ma nella misura in cui la sua polemica non è un at­tacco e una critica male intesi, oscuramente diretti contro il capitale stesso – che però identifica con una sua forma derivata – non è altro che una pressione, camuffata da socialismo, in favore dello sviluppo del credito borghese; e quindi esprime unicamente la situazione di sottosviluppo dei rapporti nel pae­se in cui tale polemica si atteggia a socialismo. Non è che un sintomo teorico dello sviluppo capitalistico, benché queste aspirazioni possano assumere for­me da far rizzare i capelli, come quelle derivanti dal proudhonismo e dal sain­tsimonismo.

Il capitale in questa sua figura monetaria, che è la più strana e nello stesso tempo la più vicina all’immagine maggiormente diffusa, è tanto la “forma fondamentale” degli economisti volgari quanto il primo punto d’attacco di una critica superficiale. Da una parte, sia perché il nesso interiore qui appare meno che altrove e il capitale si presenta in una forma in cui pare una fonte autonoma di valore; sia perché in questa forma il suo carattere antitetico è completamente dissimulato e cancellato, perché non c’è contrapposizione al lavoro. D’altra parte, essendo la forma in cui si presenta nel modo più irrazio­nale, offre il fianco all’attacco perché è la più facile per i socialisti volgari. Per la loro conoscenza superficialissima della scienza, essi l’“abbelliscono” nell’interesse ultimo della classe dominante. Nella “forma professorale”, che li contraddistingue, raccolgono qua e là il “meglio”, senza badare a contraddi­zioni, bensì alla completezza [ossia, alla complessità e al pluralismo]. Code­sta forma di sincretismo erudito e di eclettismo senza carattere toglie lo spiri­to vitale a tutti i sistemi, da cui elimina rigorosamente il mordente, cosicché si ritrovino pacificamente riuniti nella compilazione. Qui l’erudizione osserva con benevola superiorità le esagerazioni dei pensatori economici e le tollera solo come curiosità che galleggiano nella sua mediocre poltiglia. Lavori di questo genere appaiono solo quando si chiude il cerchio dell’economia politi­ca come scienza e sono, allo stesso tempo, le “tombe” di questa scienza. È anche chiaro, perciò, perché la critica superficiale si rivolga con tutta la sua sapienza riformatrice contro il capitale produttivo d’interesse [la speculazione e la rendita finanziaria parassitaria, dicono i riformatori odierni] senza toccare veramente la produzione capitalistica, ma attacchi soltanto uno dei suoi risul­tati. È questa polemica contro il capitale produttivo d’interesse dal punto di vista della produzione capitalistica – polemica che agli albori del capitalismo industriale serviva per imporsi nei confronti dell’usura di vecchio stampo – che, al giorno d’oggi, si dà arie di “socialismo”. 

[k.m]

(la “collaborazione” del dr. Karl Heinrich Marx – per questa “voce” e per le altre connesse – è data nei capitoli III.25, Cre­dito e capitale fittizio, e III.29, Elementi del capitale bancario, del Capitale

e nella Appendice: il reddito e le sue fonti; l’economia volgare, III.1-5 delle Teorie sul plusvalore)

 

 

Capitale operante

(capitale “lavorativo”)

Il capitale industriale [operante] è la forma fondamentale del rapporto capita­listico che regge la società borghese, e di fronte a cui tutte le altre forme ap­paiono solo come derivate o secondarie; derivate, come il capitale produttivo d’interesse, o secondarie, cioè di capitale in una funzione particolare (che ap­partiene al suo processo di circolazione [?]), come quello commerciale [pur se questo stesso operante]. Poiché tali forme sono anteriori, il capitale industria­le, nel processo della sua formazione, deve prima sottomettersi queste forme e trasformarle in funzioni derivate o particolari di se stesso. Le condizioni di lavoro sono capitale solo in quanto fungono, rispetto al lavo­ratore, come sua non-proprietà e quindi come proprietà [?] altrui. Ma come tali fungono solo in contrapposizione al lavoro. L’esistenza antitetica di queste condizioni rispetto al lavoro fa del loro proprietario un capitalista e di queste condizioni da lui possedute un capitale [?]. Nelle mani del capitalista monetario, però, il capitale non possiede questo carattere anti­tetico che lo rende capitale; e proprio questo fa apparire anche la proprietà di denaro come proprietà di capitale. La reale determinatezza di forma per cui il denaro diventa capitale è cancellata. Il capitalista monetario non si contrappo­ne affatto al lavoratore, ma solo a un altro capitalista.

L’interesse non è altro che una parte del profitto (che a sua volta non è altro che plusvalore [?], lavoro non pagato) che il capitalista industriale paga al pro­prietario di un capitale estraneo di cui si serve, in tutto o in parte, per “lavora­re”. È una parte del plusvalore che, fissata come categoria a sé, viene separata sotto un nome a sé dal profitto complessivo. Questa separazione non si riferi­sce affatto alla sua origine, ma soltanto al modo in cui esso è pagato o appro­priato. Questa parvenza si consolida anzitutto per il fatto che l’interesse non si pre­senta come una divisione indifferente per la produzione che si verifica “occa­sionalmente” nel solo caso in cui l’industriale “lavora” con capitale altrui. Anche quando egli “lavora” con capitale proprio il suo profitto si divide in in­teresse e profitto industriale, di modo che la divisione meramente quantitativa è già fissata come una divisione qualitativa, indipendente dalla circostanza accidentale che l’industriale sia o no proprietario del suo capitale, e derivante dalla natura stessa del capitale e della produzione capitalistica. Come ogni cosa in questo modo di produzione si rappresenta [e viene “rappresentata” dagli economisti] in modo distorto, così abbiamo l’ultima distorsione nel rap­porto tra interesse e profitto, per cui la parte del profitto accantonata sotto una rubrica speciale (interesse) si rappresenta come il prodotto più proprio del ca­pitale e il profitto industriale come mera “aggiunta” innestata su questo.

Siccome l’interesse appare come una “creazione” di plusvalore inerente alla mera proprietà di capitale, e quindi al capitale stesso, il profitto industriale appare, al contrario, come una mera aggiunta che colui che prende a prestito il capitale monetario realizza con l’impiego produttivo che ne fa, vale a dire con lo sfruttamento dei lavoratori. Ovvero, come anche si dice, con il suo la­voro di capitalista: qui si pone la funzione lavorativa del capitalista [o, alla maniera moderna di alcuni, del “capitale lavorativo”], che anzi si identifica col lavoro salariato. Ciò in quanto il capitalista industriale operante, che svol­ge effettivamente la sua funzione nel processo di produzione, appare di fatto come agente attivo della produzione, come un “lavoratore” rispetto al pigro e inattivo prestatore di denaro, che riveste la funzione della proprietà indipen­dentemente e al di fuori del processo di produzione. Tale figura nasce neces­sariamente con la separazione della proprietà giuridica del capitale dalla sua proprietà economica. Per gli economisti [e i socialisti] volgari questa forma è una pacchia, una forma in cui la fonte del profitto dei capitalisti industriali non è più riconoscibile: il profitto industriale appare come il prodotto del loro lavoro.

Infatti, come capitalisti in funzione – agenti effettivi della produzione capita­listica – essi si contrappongono a se stessi o a un terzo come mera, inerte, esi­stenza del capitale, e quindi si contrappongono a se stessi come lavoratori o ad altri come proprietari. Infatti il fenomeno, prima facie, mostra che il capi­talista monetario non ha alcun rapporto col lavoratore salariato, ma solo con altri capitalisti, mentre quest’altro capitalista, anziché contrapporsi al lavoro salariato, si contrappone piuttosto egli stesso come lavoratore a sé o ad altro capitalista in quanto mera esistenza, mero proprietario del capitale. Egli così appare come capitalista attivo contrapposto a se stesso come capitalista, e quindi poi come lavoratore contrapposto a se stesso come mero proprietario [o, come vorrebbe un recente sincretismo, si avrebbe così il “capitale lavorativo” senza proprietà]. Il profitto industriale è felicemente risolto in lavoro, ma non in lavoro non pagato altrui, bensì in lavoro salariato, e trasformato in salario per il capitalista, che in tal modo viene accomunato al lavoratore salariato. E dal momento che già sono “lavoratori”, si scopre che in realtà sono lavoratori “salariati”, con l’unica differenza che sono meglio pagati a causa della loro particolare eccellenza – e questo lo devono in parte anche alla forma partico­lare di retribuzione, cioè al fatto che essi che si pagano da sé il loro “salario”, anziché essere pagati da altri. In questa scissione del profitto in interesse e profitto industriale, la natura del plusvalore (e quindi del capitale stesso) non è solo cancellata, ma esplicita­mente rappresentata come qualcosa di completamente differente. Questa tra­sformazione di una parte del profitto in profitto industriale deriva, come si vede, dalla trasformazione dell’altra parte in interesse. Su quest’ultima ricade la forma sociale del capitale – il fatto che esso è proprietà; sull’altra la funzio­ne economica del capitale, la sua funzione nel processo lavorativo, ma libera­ta, astratta dalla forma sociale, dalla forma antitetica in cui è questa funzione. Separato dal capitale, infatti, il processo di produzione è processo lavorativo in genere.

Il capitalista industriale in quanto distinto da sé come capitalista, l’industriale in quanto distinto da sé come capitalista, come proprietario del capitale, non è quindi altro che un semplice funzionario – a prescindere dal capitale – e quindi è un determinato “portatore” del processo lavorativo in genere, un la­voratore. D’altra parte, nella misura in cui funge nel processo, questo proces­so appare indipendente dal suo carattere specificamente capitalistico, dalla sua determinatezza specificamente sociale. Nella misura in cui, quindi, il ca­pitalista vi interviene, non vi interviene come capitalista, poiché questo suo carattere è scontato nell’interesse, bensì come funzionario del processo lavo­rativo in generale, come lavoratore, e il suo salario si rappresenta nel profitto industriale. È un tipo di lavoro particolare – lavoro di direzione – ma del resto tutti i lavori sono differenti gli uni dagli altri. Come questo fatto sia poi giu­stificato con ragioni “scientifiche”, si può veder appunto nella rappresentazio­ne apologetica del profitto come lavoro di direzione [e del processo capitali­stico come processo senza proprietà o con proprietà “diffusa”]. Il capitalista viene qui identificato con il suo manager – come già aveva osservato Smith. Ma il lavoro di direzione, la determinata quantità di lavoro che il capitalista [o il suo manager] effettivamente compie, non ha niente a che fare con le varia­zioni del salario. Anzi, questa specie di “salario” ha invece questo di partico­lare, che diminuisce o aumenta in ragione inversa al salario reale.

Ma queste “contraddizioncelle” non ne sopprimono l’identità nella testa dell’economista volgare apologetico. Naturalmente non è il caso di analizzare queste buffonate e sciocchezze con tutte le loro contraddizioni. Ciò che mo­stra la bestiale stupidità dell’economia volgare è che essa – allo scopo di rap­presentare il profitto come “salario” – lo confonde con il profitto in quanto de­riva dalla creazione di plusvalore [rimuovendo il plusvalore stesso, assieme al valore e allo sfruttamento]. Trattandosi di simili asini è naturale che confon­dano le forme di calcolo e di compensazione dei capitalisti delle diverse sfere – per la distribuzione del profitto complessivo dell’intera classe dei capitalisti – con le ragioni dello sfruttamento, con le cause genetiche, per così dire, del profitto come tale. La produzione capitalistica stessa ha portato a questo, che il lavoro di direzio­ne, totalmente separato dalla proprietà di capitale, sia proprio o altrui, “gira per le strade”. È diventato completamente inutile che questo lavoro di direzio­ne sia esercitato da capitalisti. Esso esiste realmente, indipendentemente dal capitale, non nella presunta separazione di capitalista industriale operante e capitalista monetario, ma di manager industriale da ogni specie di capitalisti.

L’interesse in sé esprime quindi proprio l’esistenza delle condizioni di lavoro come capitale, nella loro contrapposizione e metamorfosi come potenze per­sonali nei confronti del lavoro e sopra il lavoro. Esso riassume il carattere estraniato delle condizioni di lavoro in rapporto all’attività del soggetto. Rap­presenta la proprietà del capitale o la mera proprietà di capitale come mezzo per appropriarsi dei prodotti del lavoro altrui in quanto dominio sul lavoro al­trui. Ma rappresenta questo carattere del capitale come qualcosa che gli spetta al di fuori del processo di produzione. Quindi come una determinazione este­riore e indifferente al rapporto tra capitale e lavoro. Del resto, la ripartizione del profitto tra i capitalisti è indifferente ai lavoratori come tali. Nella figura dell’interesse, quindi, il carattere antagonistico del capitale si dà un’espressione particolare in cui questo antagonismo è completamente can­cellato e in cui si fa esplicitamente astrazione da esso. Del resto, è proprio la forma dell’interesse che così dà all’altra parte del profitto la forma qualitativa del profitto industriale, del “salario” per il lavoro del capitalista industriale, non come capitalista ma come “lavoratore” (cioè, come “industriale”). Le fun­zioni particolari che il capitalista deve svolgere come tale nel processo lavo­rativo e che spettano a lui proprio a differenza dai suoi salariati, sono rappre­sentate come mere funzioni lavorative. Egli “crea” plusvalore non perché la­vora come capitalista, ma perché anch’egli, il capitalista, lavora.

Poiché il carattere estraniato del capitale, la sua contrapposizione al lavoro, si trova al di là del processo di sfruttamento, dell’azione effettiva di questa estraniazione, ogni carattere antagonistico è rimosso da questo processo stes­so. Perciò lo sfruttamento reale, ciò in cui si realizza e in cui soltanto si mani­festa realmente il carattere antagonistico, appare proprio come il suo contra­rio, come un tipo di lavoro materialmente distinto, ma appartenente alla me­desima determinatezza sociale del lavoro, al lavoro salariato: alla medesima categoria di lavoro. Il lavoro dello sfruttare qui [nel profitto industriale come salario, ossia nel “capitalismo lavorativo”] è identificato con il lavoro che vien sfruttato. Mentre dunque l’interesse e il capitale come produttivo d’interesse esprimono unicamente l’antitesi tra la ricchezza oggettiva e il lavoro, e quindi la sua esi­stenza come capitale, nella “rappresentazione” si ha l’esatto capovolgimento di ciò. L’economia volgare diventa consapevolmente più apologetica e cerca di eliminare a forza di chiacchiere i pensieri e, in essi, le antitesi. [I socialisti volgari e i post-marxisti non sono da meno]. Nella misura in cui il lavoro del capitalista non deriva dal processo in quanto processo capitalistico, e non è soltanto un nome che designa la funzione di sfruttare lavoro altrui, è altrettanto indipendente dal capitale quanto questa forma stessa, non appena questa si spogli dall’involucro capitalistico. Dire che questo lavoro è necessario come lavoro capitalistico [o come “capitale lavorativo”], come funzione del capitalista, significa unicamente che gli eco­nomisti [e i socialisti] volgari sono incapaci di rappresentarsi la forza produt­tiva sociale sviluppata nel grembo del capitale e il carattere sociale del lavoro disgiunti da questa forma capitalistica, dalla forma dell’estraniazione, dell’opposizione e della contraddizione dei loro momenti, separati dal loro rovesciamento e dal loro qui pro quo. Ed è precisamente quanto stiamo affer­mando.

[k.m.]

 

 

Capitale produttivo d’interesse

(usura)

Il campo peculiare tipico dell’usura, dove essa opera largamente, è costituito dalla funzione del denaro come mezzo di pagamento. Il denaro deve essere versato a scadenze determinate. Le moderne crisi monetarie [?] dimo­strano come ciò possa ancora oggi portare a situazioni in cui il capitalista monetario e l’usuraio si fondano in­sieme. In tal caso l’usura germoglia dal denaro come mezzo di pagamento ed estende questa funzione del dena­ro. Lo sviluppo del sistema creditizio si compie come reazione contro l’usura. Ma ciò non significa altro che subordinazione del capitale produttivo d’interesse alle condizioni e alle esigenze del modo di produzione capi­talistico. Nel moderno sistema creditizio il capitale produttivo d’interesse viene adattato nell’insieme alle con­dizioni della produzione capitalistica. L’usura in quanto tale non solo continua a esistere, ma presso i popoli a produzione capitalistica sviluppata viene liberata dai vincoli che tutte le antichissime legislazioni le avevano imposto.  Questa lotta violenta contro l’usuraio, questa richiesta per la subordinazione del capitale produttivo d’interesse al capitale industriale, non è che il preannuncio delle creazioni organiche che stabiliscono queste condizioni della produzione capitalistica nel moderno sistema bancario, il quale toglie al capitale monetario [?] il suo mono­polio, concentrando tutte le sue riserve monetarie inutilizzate per gettarle sul mercato [?].

Il capitale produttivo d’interesse conserva la forma di capitale usurario nei confronti di quelle persone e classi nelle condizioni che escludono la possibilità di un prestito corrispondente al modo di produzione capitalistico. Ciò che distingue il capitale produttivo d’interesse, in quanto elemento essenziale del modo di produzione capi­talistico, dal capitale usurario non è affatto la natura o il carattere di questo capitale stesso. Sono soltanto le mutate condizioni nelle quali esso opera, e quindi anche la figura completamente mutata di chi prende a presti­to nei confronti di chi dà il denaro a prestito. Viene concesso credito nella qualità di capitalista potenziale. Questa circostanza, che costituisce oggetto di tanta ammirazione da parte degli economisti apologeti, ossia che un uomo senza ricchezza, ma dotato di energia, si possa trasformare in un capitalista, sebbene porti continua­mente in campo e in concorrenza con i capitalisti individuali già esistenti una schiera non gradita di nuovi ca­valieri di ventura, rafforza la supremazia del capitale stesso, ne amplia le basi e gli permette di reclutare al suo servizio sempre nuove forze dagli strati bassi della società.

La forma particolare dell’accumulazione del capitale monetario e del patrimonio monetario, del capitale del debito pubblico, non esprime altro che il rafforzarsi di una classe di creditori di stato autorizzati a prelevare a loro favore certe somme sul gettito delle imposte. In questo, cioè nel fatto che perfino un’accumula­zione di de­biti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta nella sua pienezza il capovolgimento che av­viene nel sistema creditizio. Questi titoli di credito che sono rilasciati in cambio del capitale dato originaria­mente in prestito e da tempo speso, questi duplicati cartacei di capitale distrutto, esercitano per chi li possiede la funzione di capitale, in quanto sono merci vendibili e perciò possono essere ritrasformati in capitale. Anche i titoli di proprietà su imprese diventano un duplicato cartaceo  del capitale effettivo. Essi si trasformano in rap­presentanti nominali di capitali inesistenti. Poiché il capitale effettivo esiste indipendentemente da essi, non muta affatto se questi duplicati cambiano di mano. Essi diventano forme di capitale produttivo d’interesse, non soltanto perché assicurano proventi, ma anche perché con la vendita si può effettuarne il rimborso come valori-capitale. Ma in quanto duplicati, che sono essi stessi negoziabili come merci e circolano quindi come va­lori-capitale, essi sono fittizi e il loro valore può accrescersi o diminuire con un movimento del tutto indipen­dente da quello del valore del capitale effettivo di cui sono titoli.

Il loro valore, ossia la loro quotazione in borsa, ha necessariamente una tendenza al rialzo quando il tasso d’in­teresse diminuisce, poiché ciò, indipendentemente dai movimenti propri del capitale monetario, è semplice conseguenza della caduta tendenziale del tasso di profitto; di modo che questa ricchezza immaginaria, già per questo motivo, cresce nel corso dello sviluppo della produzione capitalistica. I profitti e le perdite provenienti dalle oscillazioni di prezzo di questi titoli di proprietà, come pure il loro ac­centramento, diventano sempre più risultato del gioco che si presenta, invece del lavoro, come il modo origina­rio di appropriarsi capitale e prende anche il posto della violenza diretta. Questo tipo di patrimonio monetario fittizio non rappresenta soltanto una parte considerevole del patrimonio monetario dei privati ma anche del ca­pitale bancario. Si potrebbe intendere per accumulazione del capitale monetario anche l’accumulazione della ricchezza in mano dei banchieri, intermediari tra i capitalisti monetari privati, da un lato, e lo stato, i comuni e coloro che prendono in prestito per la riproduzione, dall’altro; poiché essi sfruttano tutta l’enorme espansione del sistema creditizio, tutto il credito, come se fosse loro capitale privato. Questi tali possiedono il capitale e i redditi sempre in forma di denaro o in forma di crediti diretti su denaro. L’accumulazione del patrimonio di questa classe può svilupparsi di per se stessa in una direzione molto diversa da quella dell’accumulazione reale, dimostrando però in ogni caso che questa classe intasca una buona parte dell’accumulazione reale.

Una sovrabbondanza di capitale da prestito è connessa con l’accumulazione produttiva, soltanto nel senso che queste due accumulazioni sono inversamente proporzionali l’una all’altra. Si può verificare un’accumulazione del capitale da prestito senza che vi sia traccia di accumulazione effettiva, mediante mezzi puramente tecnici, quali un’espansione e concentrazione del sistema bancario, o anche un’economia nelle riserve della circolazio­ne o nei fondi di riserva dei mezzi di pagamento dei privati, mezzi di pagamento che in questo modo vengono continuamente trasformati, per breve tempo, in capitale da prestito. Quantunque questo capitale da prestito, che in conseguenza viene denominato anche capitale fluttuante, conservi sempre questa forma di capitale da presti­to soltanto per periodi brevi, esso si trova in un continuo movimento di flusso e riflusso. Ritirato dall’uno viene preso dall’altro. La massa del capitale monetario da prestito (prestiti a breve) si accresce così, in realtà, del tut­to indipendentemente dall’accumulazione effettiva. Ma il capitale che il capitalista monetario pone a disposizione del capitalista industriale consiste in proprietà al­trui, sfruttando a sua volta anche quest’ultimo.

Nella misura in cui il denaro si trasforma in capitale da prestito, è evidente che esso esiste unicamente in un solo punto come denaro; in tutti gli altri punti esso esiste soltanto nella forma di diritti sul capitale. Tuttavia l’accumulazione di questi diritti o titoli differisce, in quanto tale, sia dall’accumulazione effettiva dalla quale essa deriva, che dall’accumulazione futura (il nuovo processo di pro­duzione) che è mediata dal prestito di denaro. La stessa massa di capitale effettivo può, quindi, rappresentare masse molto diverse di capitale monetario. Con l’accrescimento della ricchezza materiale si accresce la classe dei capitalisti monetari; aumenta da un lato il numero e la ricchezza dei capitalisti che si ritirano, dei rentiers; e in secondo luogo viene stimolato lo svilup­po del sistema creditizio e si accresce quindi il numero dei banchieri, di coloro che dànno il denaro in prestito, dei finanzieri, ecc. Ma contemporaneamente si accresce la domanda di capitale monetario disponibile, poiché i jobbers, gli speculatori che trafficano con questi titoli, esercitano un influsso determinante sul mercato moneta­rio.

[k.m.]

 

 

Capitale speculativo

(critica della “rendita finanziaria”)

Il grande merito dell’economia classica consiste nell’aver dissipato la falsa apparenza e illusione, l’auto­no­mizzazione e ossificazione dei diversi elementi sociali della ricchezza, questa personificazione delle cose e oggettivazione dei rapporti di produzione – questa “religione della vita quotidiana” – riducendo l’interesse a una parte del profitto e la rendita al­l’eccedenza oltre il profitto medio, così che ambedue coincidano con il plusvalore. Il lavoro come tale, nella sua determinazione semplice di attività produttiva corrispondente a uno scopo, si mette in rapporto con i mezzi di produzione non nella loro forma sociale determinata, ma nella loro sostanza materiale, come materiale e mezzi di lavoro, che parimenti si distinguono tra loro soltanto materialmente, come valori d’uso, la terra come mezzo di lavoro non prodotto, gli altri come mezzi di lavoro prodotti.

È chiaro che il capitale presuppone il lavoro come lavoro salariato. Il loro carattere sociale [è] determinato da un’epoca storica determinata particolare, nel processo di produzione capitalistico. La forma delle condizioni di lavoro estraniata dal lavoro, resa autonoma nei suoi confronti e così trasmutata, nella quale quindi i mezzi di produzione prodotti sono trasformati in capitale e la terra in terra monopolizzata, in proprietà fondiaria, questa forma appartenente a un determinato periodo storico [è fatta] coincidere perciò con l’esistenza e la funzione dei mezzi di produzione prodotti e della terra nel processo di produzione in generale. Come nel capitale e nel capitalista – che in realtà non è altro che il capitale personificato – i prodotti diventano una potenza autonoma nei confronti dei produttori, così nel proprietario fondiario viene personificata la terra, che anch’essa si erge come potenza autonoma ed esige la sua parte del prodotto che le spetta; ma è il proprietario fondiario che ottiene, al posto suo, una parte di questo prodotto per sperperarla e dissiparla [rendita fondiaria]. Capitale e mezzo di produzione prodotto divengono così espressioni identiche; così pure espressioni identiche divengono terra e terra monopolizzata dalla proprietà privata.

Il profitto e la rendita fondiaria non sono altro che forme particolari assunte da particolari parti del plusvalore delle merci. La grandezza del plusvalore limita la somma delle parti in cui esso si può suddividere. Il profitto medio più la rendita è dunque uguale al plusvalore. Ciò che sorprende è che, accanto al capitale [?], accanto a questa forma di un elemento di produzione appartenente a un determinato modo di produzione, a una determinata configurazione storica del processo sociale di produzione, vengono senz’altro posti la terra – natura inorganica come tale, in tutta la sua selvaggia primitività – da un lato, il lavoro dall’altro, due elementi del reale processo di lavoro che sono comuni in questa forma materiale a tutti i modi di produzione, e non hanno nulla a che vedere con la forma sociale dello stesso. Il capitale, la terra e il lavoro appaiono, rispettivamente, co­me fonti di interesse (anziché profitto), rendita fondiaria e salario. È appunto per questo che l’“e­conomista volgare” preferisce la formula capitale-interesse, con la sua occulta facoltà di rendere un valore differente da sé stesso, alla formula capitale-profitto, perché con questa si è già più vicini all’effettivo rapporto capitalistico.

In contrasto con il profitto medio, l’interesse appare sgorgare dal capitale come sua propria fonte autonoma. Nella ripartizione tra plusvalore e salario (come per la ripartizione del plusvalore tra profitto e rendita) dalla loro differenza qualitativa proviene la ripartizione quantitativa; per l’inte­resse la differenza qualitativa proviene al contrario dalla ripartizione puramente quantitativa della stessa parte di plusvalore. Se il capitale originariamente, alla su­perficie della circolazione, appariva come un capitale feticcio, valore generante valore, ora esso si presenta di nuovo nella figura del “capitale produttivo di interesse” [?] come nella sua forma più estraniata e più particolare. Per rifluire come capitale, la somma di valore anticipata deve non soltanto essersi conservata nel movimento, ma deve aver valorizzato se stessa, accresciuto la sua grandezza di valore, quindi deve ritornare con un plusvalore, e questo accrescimento è qui l’interesse o la parte del profitto medio che non rimane nelle mani del capitalista operante, ma tocca al capitalista monetario.

Sul mercato monetario, la merce non ha che una forma, il denaro [?]. La concorrenza tra le diverse forme qui cessa e anche il capitale si trova di fronte a tutti nella forma nella quale esso è ancora indifferente rispetto alla sua determinata natura o maniera del suo impiego. Il capitale industriale che compare come capitale sostanzialmente comune di tutta la classe solo nel movimento e nella concorrenza tra le diverse sfere, si manifesta qui realmente, con tutto il suo peso, come tale. Si aggiunge a ciò che, con lo sviluppo della grande industria, il capitale monetario [?], in quanto es­so appare sul mercato, è rappresentato in grado sempre maggiore, non dal singolo capitalista, dal proprietario di questa o di quella frazione del capitale che si trova sul mercato, ma si presenta come una massa concentrata or­ganizzata, che, del tutto diversamente dalla produzione reale, è posta sotto il controllo del banchiere che rappresenta il capitale sociale.

La maggior parte del capitale del banchiere è puramente fittizia [?] e consiste in titoli di credito, titoli di stato e azioni (buoni sui proventi futuri); non si deve dimenticare che il valore monetario del capitale rappresentato da queste carte che giacciono nelle casseforti dei banchieri è puramente fittizio e che esso viene regolato indipendentemente dal valore del capitale effettivo che questi titoli, almeno in parte, rappresentano; e quan­do questi titoli non rappresentano capitale, ma soltanto dei semplici diritti sui proventi, il diritto su uno stesso provento si esprime in capitale monetario fittizio [?] soggetto a continue modificazioni. A ciò si aggiunge ancora che il capitale fittizio del banchiere rappresenta per la maggior par­te non il suo proprio capitale, ma quel­lo del pubblico che l’ha depositato presso di lui. I depositi figurano come semplici voci di contabilità, in quanto i crediti reciproci si compensano e vengono reciprocamente annullati e si pagano soltanto le differenze.

Così che, per quanto riguarda la forma della domanda, al capitale da prestito [?] si contrappone il peso di una classe; per quanto riguarda l’of­ferta, esso stesso si presenta in massa come capitale da prestare. Questi sono alcuni dei motivi per cui il tasso generale del profitto appare come un’immagine nebulosa, evanescente, rispetto al tasso dell’in­te­resse determinato. Se si vuol chiamare “interesse” il prezzo del capitale monetario, si tratta di una forma irrazionale del prezzo, assolutamente in contraddizione col prezzo della merce. Il prezzo è qui ridotto alla sua forma puramente astratta e priva di contenuto. La ripartizione del profitto medio in interesse e profitto vero e proprio viene regolata dalla domanda e dal­l’offerta, ossia dalla concorrenza, esattamente come i prezzi di mercato delle merci. Ma la differenza balza agli occhi qui al pari dell’analogia. Se la domanda e l’offerta si equilibrano, il prezzo di mercato della merce appare regolato dalle leggi interne alla produzione capitalistica, indipendentemente dalla concorrenza, poiché le oscillazioni della domanda e del­l’of­ferta non spiegano altro se non le deviazioni dei prezzi di mercato.

Diversamente stanno invece la cose per quanto riguarda l’interesse del capitale monetario. La concorrenza non determina qui le deviazioni da una legge, poiché qui non esiste una legge della ripartizione all’infuori di quella imposta dalla concorrenza; non esiste, infatti, un livello “naturale” del tasso d’interesse: ciò che deve essere determinato è di per sé qualcosa di arbitrario. Come [il capitalista industriale e il capitalista monetario] che hanno diritto al profitto medio se lo ripartiscano è una questione in sé e per sé puramente empirica, che appartiene al regno della casualità. Nel capitale produttivo d’interesse tutto si presenta come fatto esteriore, come semplice trasferimento. Il tasso del­l’interesse sta al tasso del profitto precisamente come il prezzo di mercato della merce sta al suo valore.

Il sistema creditizio che ha come centro le pretese banche nazionali e i potenti prestatori di denaro, e gli usurai che pullulano attorno a essi, rappresenta un accentramento enorme e assicura a questa classe di parassiti una forza favolosa, tale da intervenire nel modo più pericoloso nella produzione effettiva – e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa. Questi rispettabili banditi – ai quali si uniscono i finanzieri e gli speculatori di borsa – sfruttano la produzione nazionale e internazionale. “Gli istituti bancari sono istituzioni religiose e morali. Il consiglio del banchiere è più importante di quello del sacerdote” – ha scritto G. M. Bell, direttore di banca scozzese.                                                                    

[k.m.]

(da Karl Marx, Il capitale, III, sez.V-VII)

 

 

Capitali molteplici

(forme di funzione)

Il modo di produzione capitalistico è una forma particolare e storicamente determinata della produzione di mer­ci, la forma nella quale essa perviene al suo compimento, dunque anche al pieno sviluppo delle sue potenzialità contraddittorie. Condizione essenziale e necessaria della produzione di merci è la molteplicità dei produttori indipendenti. Ogni capitale individuale è una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con il corrisponden­te comando su un esercito più o meno grande di lavoratori. L’accumulazione allarga, con la massa aumentata della ricchezza operante come capitale, la sua concentrazione nelle mani di capitalisti individuali. L’aumento del capitale sociale si compie con l’aumento di molti capitali individuali. I capitali individuali, e con essi la concentrazione dei mezzi di produzione, crescono nella proporzione in cui costituiscono parti aliquote del capi­tale complessivo sociale. Il ciclo di ciascun capitale individuale non presuppone l’esistenza del capitale in generale. Ciascun ciclo pre­suppone altro capitale industriale nella forma generale del ciclo – cioè nella sua forma sociale, nella quale può essere considerato ogni singolo capitale industriale – perciò non soltanto come una forma di movimento comune a tutti i capitali individuali, ma contemporaneamente come forma di movimento della totalità dei capitali indi­viduali, dunque del capitale complessivo della classe dei capitalisti, un movimento nel quale quello di ogni sin­golo capitale individuale appare solo come un movimento parziale, che si incrocia con gli altri e viene da essi condizionato.

Il fatto che il capitale sociale sia uguale alla somma dei capitali individuali (compresi i capitali per azioni e il capitale statale, in quanto i governi che impiegano lavoro salariato produttivo in miniere, ferrovie, ecc., opera­no come capitalisti industriali), e che il movimento complessivo del capitale sociale sia uguale alla somma alge­brica dei movimenti dei singoli capitali industriali, non preclude affatto che tale movimento, in quanto movi­mento dei singoli capitali individuali, presenti altri fenomeni che lo stesso movimento compie, quando sia con­siderato come parte del movimento complessivo del capitale sociale, quindi nella sua connessione con i movi­menti delle sue altre parti; allo stesso tempo, vi sono problemi la cui soluzione dev’essere presupposta, nella considerazione del ciclo di un singolo capitale individuale, anziché risultarne. Le forme che il capitale assume entro i suoi stadi di circolazione sono quelle del capitale monetario e del capi­tale merce; la sua forma appartenente al suo stadio di produzione è quella di capitale produttivo. Il capitale che nel corso del suo ciclo complessivo assume e di nuovo abbandona queste forme e in ciascuna assolve la funzio­ne a essa corrispondente, è capitale industriale – “industriale” nel senso che abbraccia ogni ramo di attività con­dotta capitalisticamente.

Capitale monetario, capitale merce e capitale produttivo indicano qui soltanto particolari forme di funzione del capitale industriale, il quale le assume successivamente tutte e tre: il “ciclo del capitale” procede regolarmente solo finché le sue differenti fasi trapassano l’una nell’altra senza ristagno. In realtà, però, ogni capitale indu­striale individuale si trova contemporaneamente in tutte e tre. In un circolo che ruota costantemente, ciascun punto è contemporaneamente punto di partenza e punto di ritor­no. Tutte le parti del capitale percorrono nell’ordine il processo ciclico, si trovano contemporaneamente in stadi differenti di esso. Se interrompiamo la rotazione, allora non ogni di punto di partenza è punto di ritorno. La continuità è il contrassegno caratteristico della produzione capitalistica – del capitale sociale complessivo – ed è condizionata dal suo fondamento tecnico, e tuttavia non sempre e in ogni caso è raggiungibile. Nei capitali in­dividuali, la continuità della riproduzione viene in qualche punto più o meno interrotta. Solo nell’unità dei tre cicli è attuata la continuità del processo complessivo, anziché l’interruzione. Non solo ogni ciclo particolare presuppone, implicitamente, l’altro, ma la ripetizione del ciclo in una forma comprende il percorso del ciclo nelle altre forme. Così tutta la differenza si raffigura come una differenza pura­mente formale, o anche puramente soggettiva. Ma se non ci si arresta a questo lato formale, e si considera il nesso reale delle metamorfosi dei differenti capitali individuali, dunque di fatto il nesso dei cicli dei capitali individuali come movimenti parziali del processo di riproduzione del capitale sociale complessivo, questo nes­so non può essere spiegato dal puro e semplice scambio di forma tra denaro e merce. In quanto ciascuno di questi cicli viene considerato come forma particolare del movimento in cui si trovano dif­ferenti capitali industriali individuali, anche codesta differenza esiste sempre soltanto come differenza indivi­duale.

Il ciclo reale del capitale industriale, nella sua continuità, perciò, non è solo unità di processo di produzione e processo di circolazione, ma unità di tutti e tre i suoi cicli. Ma esso può essere tale unità solo in quanto ogni differente parte del capitale può successivamente percorrere le fasi del ciclo che si susseguono, passare da una fase, da un forma di funzione, all’altra; quindi il capitale industriale, in quanto totalità di queste parti, si trova contemporaneamente nelle differenti fasi e funzioni, e descrive così contemporaneamente tutti e tre i cicli. Nel suo insieme il capitale si trova contemporaneamente, spazialmente contiguo, nelle sue differenti fasi. Ma ciascuna parte passa costantemente, nell’ordine, da una fase, da una forma di funzione, nell’altra; opera così, nell’ordine, in tutte. Le forme sono così forme che fluiscono, la cui contemporaneità è mediata dalla loro suc­cessione. La successione di ogni parte è qui condizionata dalla contemporaneità delle parti, cioè dalla partizio­ne del capitale. La parte del capitale sociale che si trova in ogni particolare sfera della produzione è ripartita su molti capitali­sti, i quali sono contrapposti l’uno all’altro come produttori di merci indipendenti e in concorrenza fra di loro.

[k.m.]